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Sagarana MACUNAÍMA


Un breve articolo sul romanzo di Mário de Andrade: Macunaíma, L’eroe senza nessun carattere (1926)


Rosanna Morace


MACUNA&IacuteMA



 

In fondo al mato vergine nacque Macunaíma, eroe di nostra gente. Era nero come il carbone, figlio del terrore della notte. Ci fu un momento di silenzio tanto profondo – si sentiva solo il mormoreggiare dell’Uraricoera – che l’india-negra partorì un bambino brutto. E a questo bambino fu posto il nome di Macunaíma.

            Fin da piccino fece cose da rimanere a bocca aperta. Per cominciare restò più di sei anni senza dire una parola; se lo esortavano a parlare esclamava:

         Ahi! Che pigrizia!...1                   

 

«Ahi che pigrizia!» è l’esclamazione ricorrente di Macunaíma, che puntella il romanzo e contemporaneamente designa l’unico vero tratto distintivo dell’«eroe senza carattere»: perché, nell’assenza di un carattere definito, egli coagula in sé, per ossimoro, un’infinità di sfaccettature diverse e opposte, cristallizzando ironicamente in un eroe incoerente i paradossi e i difetti umani, non certo e non solo brasiliani. Il romanzo, infatti, trascende sicuramente (e oserei dire profeticamente, per molti aspetti) il luogo e il tempo in cui fu scritto, ma è anche una carnevalesca e giocosa metafora dell’inconscio collettivo brasiliano e della sua natura meticcia, mista di allegria, spensieratezza, saudade, sensualità, furbizia, magismo, superstizione, fatalismo, ancestralità, lusitanità. E Macunaíma si propone infatti come «eroe di nostra gente», che col suo surrealismo paradossale incarna meglio di qualunque altro lo “spirito del popolo” dal quale è emerso; egli «è in un certo senso la materializzazione del ‘nuovo eroe’ brasiliano, nella forma di un anti-eroe mutante, allo stesso tempo pigro e ambizioso, che assume le sembianze di un negro, di un indio, di un gigantesco neonato, figlio della natura selvaggia ma affascinato dalla macchina, dall’aeroplano, dalla modernità rumorosa delle nuove metropoli. Macunaima è l’anti-eroe mitico brasiliano, il protagonista di quello che Lukács riconosceva come “l’epopea negativa dei tempi moderni, l’epopea di un mondo senza Dio”».2 Ha, infatti, giustamente scritto Cavalcanti Proença che questo è «un romanzo nell’accezione antica della parola, la vita e le gesta di un eroe della stessa famiglia di Gil-Blas, di Gargantua o Palmerín de Inglaterra e di Amaís del Gaula».3 E come i romanzi cavallereschi, anche il capolavoro di de Andrare conserva il medesimo gusto per l’iperbole paradossale ma allusivamente realistica, la stessa ironia sarcastica e corrosiva, le digressioni e i racconti nel racconto, i lamenti dei personaggi e i cataloghi inesauribili. Si veda, per es., tra i tantissimi elenchi del romanzo, la descrizione della collezione di pietre del gigante Venceslao Pietro Pietra:

 

c’erano turchesi smeraldi berilli ciottoli levigati, rutilo a forma d’ago, crisolito topazio tinideira ossido di ferro pietruzze quarzite silice accette asce frecce fatte di schegge di pietra, grigris, rocce, elefanti pietrificati, colonne greche, dèi egizi, budda giavanesi, obelischi, tavole messicane, oro della Guayana, pietre ornitomorfe di Iguape, opali del torrente Alegre, rubini e granate del rio Gurupí, itamotingas del rio das Garças, itacolumiti, tormaline Vupabuçù, blocchi di titano del rio Pirià, bauxiti del torrente Macaco, fossili calcarei di Pirabas, perle di Cametà, l’enorme pezzo di roccia che Oaque Padre-del-Tucano lanciò con la cerbottana dall’alto della montagna, un litoglifo di Calamare, c’era ogni genere di pietra in quel cestone. 4     

 

Il nome del gigante è, ovviamente, nome parlante che allude a questa mania del collezionare pietre: che è, tra l’altro, ciò che innesca la quête di Macunaíma, spingendo l’eroe dal Mato vergine a San Paolo. Egli vuole recuperare il suo muiraquitã, ovvero l’amuleto di giada che la Bella Ci, la regina delle amazzoni di cui è follemente innamorato, gli dona prima di salire in cielo su una liana per trasformarsi in una stella, la Beta del Centauro. Ma la quête dell’eroe è alquanto atipica e la sua lotta col gigante fatta di sotterfugi, astuzie, spropositate umoralità: tanto che, quando avrà l’occasione di ucciderlo col rito della Macumba, preferirà invece vendicarsi delle percosse subite straziandolo a sua volta, per puro divertimento, gioco, castigo. E la pietra rimarrà al gigante fin quasi alla fine del libro, innescando nuove rocambolesche avventure e picaresche rincorse nella città della modernità e della macchina. La sua è dunque una quête continuamente posticipata, elusa, fallita, così come il suo essere eroe nel senso tradizionale del termine. Ma, come nel genere cavalleresco vi è sempre un significato più profondo e allegorico, così in Macunaíma, tra le righe dell’apparente semplicità, dobbiamo leggere una grottesca  metafora del passaggio dalla civiltà del mito a quella della macchina, il trascolorare degli antichi valori e l’emergere di contraddizioni che ancora oggi, a distanza di quasi un secolo, sono più che mai vivide e attuali. 

Di capitolo in capitolo, senza quasi che il lettore se ne accorga nel fiabesco tono dell’insieme, avviene che alla dimensione magica e ancestrale del Mato Vergine, con la sua natura selvaggia e le sue credenze mitiche e leggendarie, si oppone la magia della tecnologia nella nuova San Paolo, in uno scambio di ruoli incredibilmente premonitore dei tempi:

 

Era la Macchina a uccidere gli uomini, però gli uomini comandavano la macchina… Stupefatto constatò che i figli della manioca5 erano i padroni senza mistero e senza forza di quella macchina senza mistero, senza volontà, senza ripugnanze, incapace di manifestare infelicità spontaneamente [ …]. Macunaíma concluse:

        I figli della manioca in questa lotta non vincono la macchina, e neppure la macchina vince loro: impattano.

Non concuse nient’altro, perché non era ancora abituato ai discorsi, ma aveva la sensazione molto confusa, molto! che la macchina doveva essere un dio, di cui gli uomini non erano veramente padroni semplicemente perché non avevano fatto di lei una divinità comprensibile, ma soltanto  una realtà del mondo.6                     

 

Gli uomini stanno modificando i loro dèi e i loro valori di riferimento senza averne coscienza, o senza volerne prendere coscienza: per questo non c’è scontro ma impatto, e la ritualità ancestrale e i prodigi tecnologici convivono nel romanzo  prendendo gli uni la funzione dell’altra, interscambiandosi i ruoli nella più completa armonia. Così Macunaíma, per trasformarsi nella bella francesina e adescare il gigante (nella speranza di sottrargli il muiraquitã), non fa altro che prendere «in prestito dalla padrona della pensione un po’ di bellezze: la macchina rossetto, la macchina calza-di-seta, la macchina sottoveste odorosa di corteccia di sacaca, la macchina busto profumata alle erbe odorose, la macchina décollettée umida di patchouli, la macchina mitene»;7 mentre nel Mato, per «sollazzarsi» con la fidanzata del fratello Jiguê, si era trasformato istantaneamente in un bel principe: strade diverse ma equivalenti per ottenere lo stesso risultato.

            È fondamentale a questo punto ricordare che Macunaíma fu una, se non la più importante e innovativa opera del Modernismo, il movimento artistico che ufficialmente nacque a San Paolo durante la settimana di Arte Moderna del 1922, e che ben si condensa nella frase «tupi or not tupi» del Manifesto antropofagico di Oswald de Andrade.8 I tupì erano, insieme ai guaranì e i tapuia, gli indios indigeni del Brasile prima della conquista portoghese: la rimodulazione della celebre battuta di Amleto allude perciò ad una serie di questioni fondamentali per la nascita di una letteratura e di un’arte realmente brasiliane, autoctone, libere e svincolate dall’egemonia culturale lusitana.  Significava, perciò, recuperare le tradizioni, le leggende, le favole e il folclore della cultura delle origini; ma anche guardare oltre, imprimere un moto nuovo al futuro, confrontarsi con le avanguardie europee (il futurismo, soprattutto, ma anche surrealismo, dadaismo, cubismo) e con la nuova società cittadina che stava emergendo dalla rivoluzione industriale.   

Da queste due opposte istanze nasce Macunaíma, e le contraddizioni in cui vive l’eroe rispecchiano perfettamente il ‘passaggio di testimone’ tra le due epoche, il misto di incertezza, entusiasmo, speranza e confusione generata dalla nuova religione della macchina. Ma l’ironia fragrante e sarcastica, l’andamento fiabesco, la lingua colorita e vivace smorzano dall’interno la forte carica critica dell’opera, lavorando per ossimoro, paradosso e contrasto sulla stratificazione semantica e metaforica del testo. Scrive, infatti, Mário de Andrade:

 

Gli eroi-sintesi all’antica riescono a sottrarsi alla debolezza creativa e alla povertà di analisi solo quano assumono un vigoroso significato di critica umana, in un certo qual modo moralistica». E ancora: «In realtà il folclore è molto più umano dell’angusta idea del Bene e perciò conserva esempi di tutto quanto, grandezze e miserie, muove la nostra fragilissima umanità.9

 

Macunaíma è esattamente un eroe-sintesi all’antica e, come si è detto, nella frase «Ahi che pigrizia!» coagula l’inconscio collettivo brasiliano; parallelamente i due fratelli incarnano le opposte istanze magia ancestrale/magia tecnologica, naturalismo/modernismo; folclore/futurismo; passato/futuro: Jiguê trasformandosi all’occorrenza in macchina-telefono e Maanape salvando in molte situazioni l’eroe, perché «Maanape sapeva di magia»; Jiguê, all’opposto, è continuamente beffato da Macunaíma, che appena può si diverte con le sue bellissime fidanzate, approfittando del fatto che «Jiguê era proprio sciocco». Queste tre frasi vengono ripetute di continuo nel testo, a postillare i tre caratteri diversissimi e complementari dei tre fratelli (e del Brasile stesso), e a definire per antitesi i personaggi. Ma molti sono i leit-motiv del romanzo, iterati con insistenza: «e stanno ancora sorridendosi l’un l’altro» a chiudere i numerosi incontri erotici del protagonista;  l’esclamazione «Poca salute e troppe saúvas: ecco i mali del Brasile!»,10 a definire il lato oscuro della nazione sudamericana; «E la storia è finita» come explicit delle tante digressioni e dei racconti nel racconto (con la variante: «E adesso ho finito» al termine del libro); ed «è per questo che»/ «fu così che» a terminare le numerose leggende sull’origine degli astri, della luna Capêi, dei detti e delle fiabe popolari, da un lato; e del footbal, l’aeroplano, l’automobile e le macchine tutte, dall’altro: a sottolienare ancora una volta l’interscambiabilità del mito antico e del nuovo dio tecnologico.   

  Macunaíma, infatti, é uno sterminato repertorio di leggende, favole, detti, filastrocche, proverbi della cultura popolare e indigena brasiliana; e crea un intarsio tra la cultura tupì-guaranì, quella africana e quella europea, ovvero le civiltà  da cui è poi emersa quella brasiliana,  nella sua essenza intrinsecamente e pacificamente meticcia. Lo stesso eroe è emblema di questo mosaico di civiltà nella sua parabola esistenziale, che lo fa nascere «nero come il carbone» e morire biondo con gli occhi azzurri, per l’essersi immerso in una buca formata dall’orma del piedone di Sumè (San Tomé) «al tempo in cui andava in giro a predicare il Vangelo di Gesù agli indios del Brasile».11 La leggenda cristiana plasma così il Macunaíma ariano, come la magia popolare aveva specularmente creato l’eroe indio, e la foresta il nero. Ma le tre nature convivono nel personaggio come nel testo, che infatti si nutre ora delle fiabe africane, ora delle leggende autoctone, ora di moduli dell’epica cavalleresca, attraverso l’uso di una lingua vivacissima e colorata che non esita a ricorrere al brasiliano parlato  popolare e a idiomi e parole degli indios, specie tupì e garanì; una lingua, poi, che si diverte a scimmiottare parodisticamente il portoghese aulico, cristallizzato dall’uso colto e letterario, soprattutto nella bellissima lettera di Macunaíma alle Amazzoni.12 Una lingua, quindi, che rivendica la dignità dell’uso vivo, e la necessità di una nuova letteratura che si ponga come autenticamente e integralmente brasiliana, in piena sintonia con la poetica del Modernismo. L’opera di de Andrade fu, infatti, «non solo il primo, ma anche il più cospicuo tentativo di servirsi della lingua parlata in modo poeticamente espressivo».13

La piacevole e divertente leggibilità del testo nasconde, quindi, una ricchezza di contenuti, metafore, innovazioni letterarie e rivendicazioni artistiche sorprendenti: tanto più se si considera che Mário de Andrare scrisse il romanzo in una sola settimana «di amaca e molte sigarette», tra il 16 e il 23 dicembre del 1926; e che, però, in questa settimana si condensarono gli studi di una vita:

 

Il poeta praticò per tutta la vita la ricerca diretta sulle fonti stesse della cultura indigena e popolare del suo paese senza trascurare le fonti scritte che aveva a disposizione, cioè raccolte di leggende, studi linguistici, descrizioni di viaggi, eccetera, oltre la storia e le cronache dell’epoca coloniale. Di questi studi si era occupato per anni e al momento della stesura di  Macunaíma aveva anzi già rifiutato l’incarico di redigerne un repertorio storico-bibliografico. Conosceva anche la favolistica europea e non esitò ad attingere direttamente o rimaneggiare fantasticamente tutto quello che la letteratura brasiliana e straniera gli offrivano nel campo di racconti e di resoconti di ogni genere.14

 

L’autore stesso precisa l’importanza di questo aspetto nell’Epilogo del romanzo,  una sorta di piccola appendice che segue l’ultimo capitolo, dove si narra la fine dell’eroe: ovvero come Macunaíma sia divenuto l’Orsa Maggiore, raggiungendo in cielo i fratelli e l’amata Ci, ma dopo essere tornato nella foresta per constatare la scomparsa della sua civiltà.

 

La tribù era estinta, la famiglia si era tramutata in ombre, la capanna minata dalle saúvas era crollata e Macunaíma era salito in cielo: però dello stuolo che aveva accompagnato l’eroe nei tempi lontani in cui era stato il grande imperatore Macunaíma era rimasto l’auraí. E solo quel pappagallo, nel silenzio dell’Uraricoera, aveva salvato dall’oblio i fatti e la lingua scomparsi. E solo quel pappagallo aveva conservato nel silenzio le frasi e le gesta dell’eroe.

Narrò tutto a quell’uomo, poi spiccò il volo verso Lisbona. E quell’uomo sono io, amici, e così, a raccontarvi la storia, sono rimasto io. Per questo sono venuto qui: mi sono accoccolato su queste foglie, mi sono spulciato i carrapatos, e pizzicando la chitarra con tocco deciso ho alzato la voce e ho cantato in lingua impura i detti e le gesta di Macunaíma, eroe di nostra gente.

E adesso ho finito.15                                                        

 

 

1 Mário de Andrade, Macunaíma, Milano, Adelphi, 2006, traduzione e nota informativa di Giuliana Segre Giorgi, p. 13

2 Julio Monteiro Martins, Lo spirito e il contributo originale della letteratura brasiliana (Conferenza di apertura del seminario «Storia della letteratura brasiliana», all’ambasciata del Brasile a Roma, il 15 ottobre 2009), in «Sagarana», 38, gennaio 2010, http://www.sagarana.net/anteprima.php?quale=21

3 M. Cavalcanti Proença, Roteiro de Macunaíma, Rio de Janeiro, 1969, p. 11.

4 Mário de Andrade, Macunaíma, cit., pp. 77-8.

5 «Figli della manioca» è la perifrasi con la quale, nel testo, si allude ai bianchi. Secondo una leggenda, la manioca germogliò per la prima volta sulla tomba di Manì, la nipote di un capo indio che era stata ingravidata misteriosamente e che morì dopo aver dato alla luce la bianca Manì.

6 Mário de Andrade, Macunaíma, cit., pp. 63-4.

7 Ivi, p. 75.

8 Si veda, per approfondimenti, il già citato studio di Julio Monteiro Martins, Lo spirito e il contributo originale della letteratura brasiliana.

9 Giuliana Segre Giorgi, Nota informativa, in Macunaíma, cit., p. 262.

10 Le saúvas sono formiche molto grandi e diffusissime, considerate il flagello del Brasile.

11 Mário de Andrade, Macunaíma, cit., p. 59.

12 Cfr. Ivi il capitolo «Lettera alle Amazzoni», pp. 109-125.

13 Giuliana Segre Giorgi, Nota informativa, in Macunaíma, cit., p. 260.

14 Ivi, p. 261.

15 Mário de Andrade, Macunaíma, cit., pp. 252-3.

 





Rosanna Morace, nata a Reggio Calabria nel 1980, si è laureata e addottorata presso l’Università di Pisa con una tesi su Bernardo e Toquato Tasso, vincendo il «Premio Tasso» nel 2008. Nel 2009 comincia ad interessarsi alla cosiddetta “Letteratura di migrazione”, pubblicando studi su Carmine Abate e Younis Tawfik. Dal 2010 è “giovane ricercatrice” presso l’Università di Lingue di Sassari, con una borsa della Regione Autonoma della Sardegna finalizzata alla realizzazione di un progetto dal titolo: «Scrittori migranti».




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