2011: IL RITORNO DELL’ITALIA COME FARSA Sul “nuovo italiano” ad altre insidie Pina Piccolo
Ed eccoci al 150esimo dell’Unità d’Italia ormai alle porte. In una penisola ridotta allo stremo, ci ritroviamo bersaglio di ridicolo a livello mondiale per tutti quei vizi che, come popolo, ci vengono attribuiti e che sono attualmente incarnati nella figura del nostro presidente del consiglio. Nonostante che la centrifuga del Wikileaks sia l’ultima goccia a far sperare nella caduta del governo, perfino negli ambienti dei partiti della cosiddetta opposizione non solo si evita di parlare della necessità di abrogare dispositivi come la Bossi –Fini, leggi atte a creare dolore e clandestinità, ma si continua imperterriti a parlare della necessità di far chiarezza su presunti diritti e doveri dei migranti. Malgrado la totale illegalità a livello internazionale di molte delle norme previste dalla Bossi Fini, dei Cie, dei respingimenti, etc., le proposte concrete del PD si limitano a una campagna per la cittadinanza italiana ai figli di migranti nati e cresciuti qui (in pratica, la sostituzione della ius soli alla vigente ius sanguinis). E’ come se un Dottor Balanzone impazzito, alla vista del re nudo reagisse sfoderando addizionali codici e cavilli in relazione al reato di nudità. Mentre in tutta Italia i migranti coraggiosamente denunciano le inique conseguenze della Bossi Fini ed esigono il ritiro della sanatoria truffa, il maggior partito di “opposizione” sceglie la tradizionale tecnica di fare orecchi da mercante su quello che gli immigrati stessi reclamano a gran voce da torri e da gru. Meno conclamato ma egualmente indicativo di rotte equivoche è, sempre nello stesso partito, l’ammorbidimento di posizione verso il “permesso di soggiorno a punti”, altro dispositivo legale degno della miglior farsa perché se si richiedesse agli stessi italiani l’ottemperanza con tutti i suoi requisiti, almeno un terzo di essi dovrebbe essere spedita nei Cie. Indi, con l’espulsione di una buona fetta dell’italica popolazione si creerebbe una paradossale “emergenza dispatriamento” proprio mentre si celebrano i fasti dell’Unità d’Italia.
Sia chiaro che il diritto alla cittadinanza è una legittima rivendicazione e che è oltremodo anomala la situazione per cui arrivati ai 18 anni i giovani nati da coppie straniere possono essere espulsi se non hanno il permesso di soggiorno. Ma perché eleggerla a rivendicazione principale dei migranti proprio in questo momento, quando dalle torri e dalle gru viene chiesto altro?
E’ preoccupante che l’entusiasmo per l’emanazione di leggi ritenute giuste ma non per l’abrogazione di quelle ingiuste manifestata a livello di partiti istituzionali trovi purtroppo una specie di equivalente lessicale anche negli ambienti che si occupano di immigrazione dal punto di vista di servizi agli immigrati, difesa dei diritti e contrasto al razzismo. In alcune di tali associazioni e realtà diverse sta prendendo piede uno slittamento semantico per cui improvvisamente il “brutto, sporco e cattivo” termine immigrato, o “migrante” l’accezione più aggiornata del termine, vengono ricoperti e serviti in una nuova, succulenta salsina, il fantasioso binomio “nuovo italiano”. Presumibilmente, questo trabocchetto gastronomico servirebbe a rendere “lo straniero” più appetibile al gusto dell’italiano medio e capace forse di fargli superare l’ostilità verso il migrante. A livello di partiti, mi si perdoni la punta di malignità, il riferimento all’italianità potrebbe essere un escamotage linguistico per far ingranare meglio la marcia verso possibili nuove alleanze in questo periodo di crollo dell’assetto politico istituzionale. Ma a livello di organizzazioni che operano direttamente con gli immigrati perché questo spostamento di enfasi? Perché mentre stanno per prendere avvio i festeggiamenti dei centocinquanta anni dei “vecchi italiani”, sorge l’urgentissima istanza del “nuovo italiano”? Facendo tesoro delle lezioni della storia, in relazione al concetto di “italiano” e di “nuovo italiano”, forse bisogna applicare quella massima, per cui, come direbbe il vecchio Marx del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, la prima volta tragedia la seconda volta farsa.
Dalle gru e dalle torri: il richiamo dell’immigrato che rifiuta la subalternità
In questo scritto dettato dalla frustrazione azzarderò alcune ipotesi sul perché stiano avvenendo tali spostamenti semantici nella descrizione del “soggetto” immigrato proprio nel momento in cui dovrebbe essere più che mai palese a tutti che un nuovo c’è, ma forse non è poi tanto “italiano” e che questa è una cosa buona e giusta (e, a detta di alcuni, “fonte di salvezza”). Come gli afroamericani degli anni 70 che dichiaravano orgogliosamente “Black is beautiful! ”, sarebbe bello potersi spostare dagli inni al “nuovo italiano” al riconoscimento che “Straniero è bello!” e gli italiani, esterofili verso i potenti potrebbero forse imparare qualcosa da stranieri che potenti non sono. Ispirandomi alla sopracitata massima di Marx, compito di questo saggio sarà di tracciare un legame tra il successo in Italia della forma teatrale della farsa, del grottesco e della “commedia all’italiana”, tutte cose che hanno portato a riconoscimenti della produzione culturale italiana in ambito mondiale, e il suo rispecchiamento delle strutture, meccanismi e forme e congegni tipici della politica italiana, cioè una specie di affinità elettiva tra gli accadimenti che riguardano la formazione e il funzionamento della nazione italiana e la forma teatrale della farsa. Cercherò inoltre di addentrarmi in questo curioso fenomeno del “nuovo italiano” basandomi sulle mie esperienze dirette di migrante italo - statunitense proveniente da una famiglia migrante da tre generazioni con esperienze di cittadinanza in due paesi, sulle mie frequentazioni di ambienti legati alla lotta al razzismo e per i diritti dei migranti.
Lo slittamento del soggetto da “immigrato/migrante” a “nuovo italiano” implica a mio parere una voluta cecità: la paura di dover affrontare le resistenze e i razzismi diffusi sul territorio ci distoglie da una seria analisi e valorizzazione dei grandi passi compiuti da alcuni settori di migranti in Italia negli ultimi due anni, particolarmente il loro protagonismo in quanto soggetti estranei a certi meccanismi propriamente italiani. La ribellione e resistenza particolarmente dei migranti africani ha indotto personalità come Roberto Saviano a considerare le loro azioni esemplari e di gran lunga più avanzate della resistenza opposta dagli autoctoni1; ha portato nelle librerie italiane suggestivi titoli come Gli africani salveranno l’Italia2, di Antonello Mangano, ha stimolato l’emergere di scritte sui muri che esortano “Immigrati! Non lasciateci soli con gli Italiani!”, nonché l’emulazione spontanea da parte di tanti nativi delle forme di lotta escogitate appunto dai migranti. Si tratta di novità particolarmente entusiasmanti in un panorama in cui ormai da due decenni, in quanto fascia “debole” della popolazione, gli immigrati sono stati “gestiti” da un esercito di italiani che forse senza “l’emergenza migranti” sarebbero ancora senza un lavoro. Tali “gestori” sia che si tratti di istituzioni laiche od ecclesiastiche, di ONG, associazioni, cooperative spesso parlano a nome dei migranti negando loro la parola diretta (a volte inconsapevolmente, a volte no) autoproclamandosi spesso loro “voce”. Ricorrendo al capovolgimento di una metafora teatrale, tali “gestori” mettono in atto una sorta di “whiteface”: a differenza del blackface degli attori bianchi che negli Stati Uniti si dipingevano il viso di nero nella forma parodica razzista dei minstrel show, esagerando e stilizzando quelli che venivano percepiti come tratti razziali sia fisici che culturali, spesso gli esperti/attivisti italiani appaiono con il loro corpo italiano, quasi esibendo una stilizzazione ed esagerazione delle modalità discorsive dell’esperto italiano proprio nel luogo in cui dovrebbe trovarsi a testimoniare lo straniero, con corpo e modalità proprie. Per essere giusti, spesso in queste presentazioni, il migrante viene interpellato, ma appare di solito in un ruolo defilato, l’ultimo dopo una lunga catena di autorità, esperti/attori italiani quando ormai il pubblico non è più in grado di recepire. Si tratta di un fenomeno paradossale per cui si “toglie” la parola “concedendola” in momenti strategicamente inefficaci. Nella sua perversione, nel suo uso di meccanismi di inversione e di dilatazione dei tempi anche questo potrebbe sembrare un congegno tipico della farsa.
A dispetto di questo non figurare dei migranti nei teatri degli esperti e della cultura, basta ripercorrere le cronache di questi ultimi mesi per vedere invece centinaia di migranti, sia a sud che a nord, protagonisti di ribellioni contro il potere delle mafie e di configurazioni economiche più legali che si nutrono parimenti del loro super-sfruttamento. Nelle loro ribellioni spesso essi adoperano forme aliene agli italiani, appropriandosi di spazi che i nativi stentano a individuare come “luoghi deputati” delle lotte, ma che dopo l’esempio dei migranti gli italiani meno garantiti tendono ad apprezzare e fare propri. In un episodio significativo che non ha ricevuto molto risalto nella stampa, durante i giorni della ribellione di Rosarno avvenuta il gennaio scorso, un mio amico senegalese mi raccontava che gli appartenenti alla confraternita Mourides del Senegal, mistici islamici sufi hanno messo in atto “l’accerchiamento della casa del boss” appunto circondando la casa del capo ndrangheta locale spronandolo, naturalmente senza successo, a venire fuori e confrontarsi con loro. Questa forma di lotta caratterizzata da grande coraggio, vista la propensione della ndrangheta all’uso delle armi, non è stata ancora emulata dal movimento antimafia, ma sarebbe interessante che ciò avvenisse. A Castelvolturno, pochi giorni dopo il vergognoso rifiuto da parte del sindaco di riconoscere l’ingiustizia del massacro dei sei africani da parte della camorra due anni fa, i migranti hanno inscenato lo sciopero delle rotonde, il primo di questo genere in Italia, per chiedere che il minimo della giornata di lavoro di un bracciante fosse fissato a cinquanta euro. A Imola, sonnacchiosa e relativamente ricca cittadina all’estremo lembo meridionale della pianura padana, nell’estate del 2010 i lavoratori migranti addetti allo smaltimento di rifiuti riciclabili della cooperativa Omega (che lavoravano in appalto per l’Akron, impresa pubblica del gruppo Hera che si occupa di servizi ambientali), insieme al sindacato USB (Unione Sindacale di Base) che li rappresenta, hanno scosso il lento e tranquillo scorrere dell’ordine del giorno facendo un’incursione nel consiglio comunale per fare sentire la propria voce, precedentemente inascoltata, che denunciava il supersfruttamento operato stavolta nell’ambito del legalissimo dispositivo economico denominato cooperativa. E così via fino ad arrivare a queste settimane, con la protesta dei lavoratori migranti sulla gru a Brescia contro la sanatoria truffa e l’occupazione qualche giorno dopo, per la stessa rivendicazione, della torre ex Carlo Erba di Milano. Pare giusto far notare che, qualche settimana dopo scatta l’occupazione dei tetti e di luoghi alti da parte degli studenti di tutta Italia contro la Gelmini - in entrambi i casi risvolti simbolici della ricerca di luoghi alti per fare fronte alle bassezze a cui siamo tutti soggetti, e per tenere d’occhio e prendere le distanze dai furbi.
Perché dunque, alle soglie del 2011, in piena crisi su scala mondiale del concetto di “nazione” accelerato dal fenomeno di globalizzazione delle merci e da comportamenti a dir poco schizofrenici rispetto al concetto di frontiere in relazione alle persone, in alcuni settori del movimento antirazzista si moltiplica l’uso del termine “nuovo italiano”? Si tratta forse di un tentativo di “normalizzare” lo straniero, raffigurandolo come portatore di nuova italianità invece di spendere energie a diffondere il modello di protagonismo migrante espresso dal chiaro rifiuto della subalternità messo in pratica da un crescente numero di loro? Come un tempo negli Stati Uniti sorgevano il concetto e le pratiche del Black Pride, adesso su scala mondiale i migranti mettono in atto una sorta di Migrant Pride rifiutando l’apologia della loro situazione, dichiarandosi ed operando da “attori” rispetto alle proprie istanze e ai propri destini (vedere a tale proposito il libro Migritude3 di Shailja Patel che rivendica la non subalternità dei migranti, e l’intera opera di Gayatri Chakravorty Spivak4 sul post colonialismo). Appellandosi al concetto di “italianità” non si corre forse il rischio di riportare nel vecchio e paludoso solco della politica italiana soggetti che hanno invece un grande potenziale di rinnovamento del territorio proprio in quanto portatori di una diversità di esperienze “non italiane” ? Pur volendo mantenere la posizione che non esiste il “noi” e il “loro”, contrapposizione tanto cara alla Lega, e purtroppo anche molto diffusa a livello popolare, ciò che potrebbe risultare davvero dannoso per il movimento contro il razzismo e per i diritti dei migranti sarebbe chiudere gli occhi sul fatto che i migranti per le loro esperienze di vita sono portatori di ottiche, esperienze, punti di vista, e strumenti diversi e che infatti tutte queste cose arricchiscono un territorio. Non si tratta quindi di “tollerarli”, ma di far proprie alcune esperienze umane che sono state elaborate da altri esseri umani altrove. Per essere realistici, alcuni di essi , particolarmente tra chi emigra per motivi economici, possono incarnare aspetti deteriori delle aspirazioni capitaliste, come qualsiasi popolazione che vada in cerca di fortuna: accanto ai grandi lavoratori possono esserci anche soggetti con mancanza di scrupoli e forme di criminalità. Alcuni migranti possono anche essere portatori di forme retrive per i diritti, superate, almeno formalmente, a livello della società italiana, ed è giusto che queste tendenze vengano contrastate e che facciano nascere un dibattito (per esempio il caso dei “delitti d’onore"). Ma l’esistenza di queste forme non deve essere poi descritta come connaturata in maniera univoca e irrevocabile nella loro cultura e tradizioni, ignorando che le culture e le tradizioni non sono fenomeni monolitici. Spesso queste sono le accuse rivolte dai leghisti, ma esiste anche una forma più insidiosa che si sta facendo largo tra chi si erge a difensore delle vittime. E’ quanto è accaduto in Italia con lo sforzo compiuto ed in corso attualmente da parte di alcune femministe nostrane di riprendere dal 2007 un dibattito che si era svolto in ambito statunitense ed europeo dieci anni prima sulla questione dei diritti delle donne, divulgando l‘interrogativo provocatorio della studiosa nuovo-zelandese/statunitense Susan Moller Okin “Il multiculturalismo fa male alle donne?”5. La risposta data dal gruppo di femministe in causa a questa domanda è stata affermativa, e qualunque altra risposta è stata in pratica tacciata di relativismo culturale. Infatti, purtroppo, dopo aver introdotto in Italia e ripreso uno dei termini di un dibattito svoltosi in maniera molto più esauriente in altre sedi, in maniera poco rispettosa dell’integrità intellettuale, esse non si sono affatto premurate di rendere note e le argomentazione utilizzate da chi sosteneva posizioni contrarie proposte anni prima in convegni negli USA, e in Europa proprio da studiose e studiosi provenienti dal sud del mondo6. Pretendendo di aver esaurito tutte le posizioni possibili estendendo l’invito a intervenire a rappresentanti di organizzazioni di donne maghrebine che, guarda caso, sostenevano la loro stessa posizione, esse hanno in pratica annullato il diritto di replica.7 Questa tendenza sfocia quindi in arroccamento in una presunta superiorità di diritti delle società europee, un presunto monopolio e rappresentanza universale del concetto dei diritti da parte del liberalismo europeo, in cui poi in verità si pone poco l’accento sulla applicazione effettiva dei diritti delle donne nell’occidente (se così fosse le donne italiane non si troverebbero certo nella squallida situazione in cui versano oggi) e non si prendono in considerazione, come possibili fonti di ricerca o di soluzione, altre forme di pensiero e di pratiche provenienti da altre parti del mondo.
A mio parere è fondamentale dare ascolto a alle “differenze di taglio e di visione”, non zittirle in nome di “noi” definito sempre secondo standard europei che preclude un vero dibattito. Forse si tratta di mettere in circolo l’esortazione di “ Fare nostra la diversità” (Embrace diversity), concetto che si è fatto strada nel movimento contro il razzismo negli USA negli ultimi 15 anni, grazie a una lotta interna alle organizzazioni stesse contro le radicate vestigia dell’eurocentrismo, cosa sulla quale c’è stato poco dibattito in Italia. Farebbe davvero male agli italiani progressisti confrontarsi con queste esperienze su un terreno di parità e nello spirito di reciprocità invece che rifugiarsi nel ruolo di disinteressato portavoce e difensore delle istanze altrui, ultimamente edulcorato con termini quali “mixitè” o “metissage", secondo le quali "o ci si muove tutti insieme (autoctoni e migranti) o non ci muove affatto”? Sarebbe forse sbagliato che le varie organizzazioni preposte al“welfare” degli immigrati, le varie iniziative indette per rappresentarli anche a livello culturale cominciassero ad essere occupati in buona parte dagli immigrati stessi e non quasi esclusivamente da italiani? O che almeno ci si cominciasse ad interrogare sul perché di tale fenomeno? Non è raro che gli italiani preposti ad affrontare la questione migranti nei vari enti e nelle varie organizzazioni, usufruendo anche dei benefici economici provenienti da tali attività, continuino a parlare dei ed ai migranti usando il solito burocratese e politichese del professionista, dell’esperto o dell’intellettuale italiano (sia esso di sinistra o di destra o ecclesiastico), che continuino a considerarli “utenti di un servizio”. Non potrebbe essere questo uno dei motivi della ritrosia e diffidenza che molti migranti esibiscono nel rapportarsi a tale organizzazioni presumibilmente fondate a loro favore, e del mancato sviluppo della stima che potrebbe essere la base per lavorare insieme su questioni politiche e relative ai diritti di tutti?
Genesi del vecchio e del nuovo italiano: aspetti farseschi
Ma procediamo secondo qualche criterio di ordine seppure rispettando lo spirito di creatività caotica della polemica: per riagganciare il discorso dei presunti “nuovi italiani” a quello delle imminenti celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia andiamo a ripescare la frase che si suole attribuire allo scrittore Massimo D’Azeglio “Fatta l’italia adesso si tratta di fare gli Italiani”, che è una sintesi un po’ fuorviante di quello che lo scrittore aveva espresso in maniera più critica nelle seguenti citazioni:
(...) Gl'Italiani hanno voluto far un'Italia nuova, e loro rimanere gl'Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; [...] pensano a riformare l'Italia, e nessuno s'accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro.
(...) Il primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl'Italiani.8
Quindi lungi dall’essere uno slogan ottimista che invita a intraprendere una nuova avventura, già il punto di vista dello stesso D’Azeglio addita dei problemi, che si possono collegare anche alle invettive che i più grandi poeti italiani hanno nel corso dei secoli scagliato contro quella entità geografica denominata Italia. Forse a guardarci bene quella difficoltà poteva essere messa in relazione alla debolezza delle motivazioni per la creazione di una “nazione” così tardiva rispetto alle altre che in Europa. La maggioranza delle nazioni europee erano sorte in seguito a secoli d lotte e rivoluzioni che avevano coinvolto nel progetto larghe fette della popolazione, forgiando quindi una più carnosa comunità nazionale anche se spesso dietro all’istanza nazionale si nascondevano dettami economici e classi sociali, ossia la borghesia, che traeva grossi benefici della creazione della nazione. Nel caso dell’Italia, bisogna anche prendere in considerazione gli interessi di alcuni stati nazionali europei, quali la Francia e l’Inghilterra9 a favorire la nascita di questa nuova nazione intesa come satellite e volta ad indebolire potenze rivali (basti pensare che Cavour parlava il francese e non l’italiano e che la dinastia che dava i natali alla nazione era il piccolo, periferico casato dei Savoia, appollaiato quasi sulle Alpi e avente l’isola di Sardegna come maggiore estensione territoriale ). Già dall’inizio i personaggi del Risorgimento italiano e la molteplicità di progetti che si escludevano a vicenda (chi voleva una monarchia, chi una repubblica, chi una federazione con a capo il papa, chi un assetto anarchico e così via) e le transitorie alleanze e i frequenti colpi di scena (basti pensare al ferimento di Garibaldi sull’Aspromonte avente come mandanti i Savoia per impedirgli di liberare Roma e quindi scatenare l’ira del papa) presagivano forme di governance colme di contraddizioni interne quali il pentapartito o l’attuale polo governante. Già centocinquanta anni fa, la neonata Italia si prestava a prognostici poco lusinghieri (per un brillante trattamento della questione, vedere il film “Allonsanfan” dei fratelli Taviani). Il fallimento del progetto risorgimentale fu già oggetto di riflessioni cento anni fa, da parte di teorici illustri quali Gramsci10, Salvemini11, etc). Già quasi cento anni fa si era cominciato a parlare del Mezzogiorno come colonia interna e negli ultimi decenni si sono moltiplicati le ricerche, i saggi e i libri12 che mettono in discussione la versione ufficiale di un nord civilizzatore che libera il sud dalle catene di regimi feudali per portarlo verso i verdi pascoli del progresso (celtico?).
Fin dagli albori si possono intravedere le affinità del processo di nation building italiano con una forma teatrale minore, la farsa. E’ interessante la vocazione italiana a tale genere caratterizzato dalla mendacità e dalla meccanicità, una sua natura di congegno mistificatore che però strizza l’occhio al pubblico sulle cose che cela, ricche gallerie di personaggi stravaganti colti spesso in situazioni di banale quotidianità, un deficit di verosomiglianza, parossismo, colpi di scena, deus ex machina. E potrebbe non essere casuale il riconoscimento internazionale tributato a Pirandello e a Dario Fo, cultori di farse e del grottesco, o il successo mondiale della “commedia all’italiana” che racchiude elementi di entrambi i generi. Forse proprio perché abitavano nella terra in cui società e politica arrivavano a punte massime delle contraddizioni espresse dai sopracitati generi comici.
Riassumendo le caratteristiche della farsa si potrebbe cominciare dall’etimologia del nome: farsa deriva dal latino farcire, ripreso dal termine francese farce, vocabolo della gastronomia che indica riempire un alimento esterno/involucro con altri alimenti che l’insaporiscono. Questa immagine di scatole cinesi culinarie torna utile perché ci invita a considerare che l’involucro esterno può contenere ben altra cosa, perciò già ci mette in guardia contro le apparenze. Nel teatro del XIII secolo francese si era scelta l’ immagine della farcitura per indicare che il genere minore della farce stava in mezzo, era una breve rappresentazione giocosa che interrompeva la seriosità delle opere drammatiche principali, da cui garantiva un momento di evasione. Il teatro aveva preso in prestito il concetto di farsa dalla liturgia ecclesiastica che aveva introdotto l’uso di interpolare brevi rappresentazioni per rendere i testi liturgici più comprensibili ai fedeli. Benché la struttura e trama siano basate su situazioni e personaggi stravaganti, nella farsa in generale lo sviluppo della situazione mantiene un certo realismo pur seguendo un andamento grottesco. Si susseguono a gran velocità colpi di scena, interventi di deus ex machina , capovolgimenti, inganni e smascheramenti, ripetizioni13. Chi ha visto Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo, si trova davanti all’esemplare quintessenziale del genere, declinato in maniera politica, un congegno teatrale che utilizza le strutture del comico a servizio della demistificazione della politica e del potere14. Spostandoci dal palcoscenico al reale, non è difficile richiamare una numerosa e immaginifica galleria di personaggi stravaganti della politica italiana a cominciare da tutta la dinastia Savoia, agli uomini forti in tutta la gradazione da Mussolini a Maroni, ai grandi Trasformisti, che, non si sa se per alchimia dei numeri o come esemplari evoluzionari dell’equilibrio punteggiato, spuntano puntualmente a fine secolo, basti pensare ai tardo ottocenteschi Crispi e Giolitti e ai tardo novecenteschi comu-socio- berlusconiani, tipo Ferrara, c’è poi il grande, inossidabile Statista la cui gamma varia da Andreotti, Fini a D’Alema, Cossiga potrebbe interpretare O’ Pazzariello, ci sarebbe poi la figura di Bossi e il delfino Trota, le ampolle con l’acqua sacra di uno dei fiumi più contaminati d’Europa, tra i deus ex-machina non dimentichiamoci Berlusconi, salvatore della Patria, l’uomo del destino Mussolini e così via. Per spiegare la politica italiana all’estero, di solito il primo passo è di stabilire con chi ti ascolta che si tratta di una attività seria, che quello che di solito viene interpretato come irrazionalità o istrionismo del personaggio politico in realtà adombra la serietà di rapporti economici e sociali, non è puro gioco. Ricordo le difficoltà nelle quali regolarmente mi imbattevo nello spiegare agli studenti californiani le raffinatezze del pentapartito mentre un provocatorio interlocutore mi chiedeva, “What about Cicciolina?”
Tra le caratteristiche farsesche della genesi della nazione italiana e del “popolo italiano” possiamo annoverare il parossismo. Centocinquanta anni fa l’Italia arrivava, fanalino di coda, a costituirsi come stato nazionale, quindi, come costretta da un meccanismo inarrestabile, brucia le tappe. Incorpora in un unico processo quelle fasi che altrove erano state svolte separatamente nel corso di secoli. Cioè quella entità denominata Italia, velocissima, in un periodo di 25-30 anni nella seconda metà dell’800 consegue la costruzione dello stato nazionale e l’acquisizione di colonie, alcune contigue come il Mezzogiorno altre più lontane, come i primi insediamenti nel Corno d’Africa (per proseguire l’analogia, nazione farcita di colonie). Naturalmente per il Meridione non si riconosce che si tratta di un’impresa coloniale, ma il linguaggio che si usa verso chi vi abita, il tipo di politiche che si praticano verso le industrie come quella tessile che sono già impiantate per esempio in Sicilia, verso le banche, le infrastrutture, etc. già presenti in quel territorio non lasciano dubbi. Non manca poi un certo istrionismo nel recarsi in una parte di territorio appena “liberato” come territorio nazionale e domarlo, quasi con il caschetto coloniale, debellando briganti e “cannibali”. Già Gramsci a distanza di alcuni decenni dalla conclusione dell’impresa risorgimentale parla del Mezzogiorno come questione di colonia interna. Questa puntualizzazione non intende essere digressione storica, ma cerca di risalire all’evoluzione di un certo discorso razzista diretto dal Nord verso il Sud fin dall’inizio della sua incorporazione nel territorio della nazione e che negli ultimi anni è stato ampiamente documentato da vari studiosi, tra cui in maniera esauriente dall’antropologo Vito Teti, nel libro La razza maledetta15. Visti questi natali, non è difficile immaginare che costruire un popolo italiano nel senso di nation state sarà un’ardua impresa.
Centocinquanta anni di migritudine
Circa cento anni dopo, nella grande migrazione dal Sud verso il Nord a partire dal boom economico degli anni 60 non si è veramente affrontato il problema del razzismo di cui erano vittima i meridionali, e questa insistenza ad occultare la piaga, questa questione irrisolta, continua a sortire i suoi malefici effetti tuttora. È comprensibile che in un paese che da 150 anni si esercita a considerare una gran fetta della sua popolazione alla stregua di esseri inferiori non sia poi difficile adattare a chi viene da fuori un’ ideologia ampiamente rodata negli anni. Purtroppo le esercitazioni in stereotipi non si limitano solo agli abitanti del Nord ma vengono riprese anche da una sostanziale porzione di quelli del Sud, anche questo con ritmi e modalità che sembrano scimmiottare quelle della farsa, struttura teatrale votata sia a una sorta di coazione a ripetere sia ai ribaltamenti. Si hanno quindi esempi di meridionali che votano Lega, non solo tra quelli che si sono insediati al nord ma perfino nel sud stesso, e tra quelli più meridionali ancora si può annoverare la prima sindaca nera in Italia che si è candidata con quella formazione politica (inversione sempre in sintonia con i meccanismi della farsa).
Sorvolando sui meccanismi politici italiani quali il trasformismo, le teatralità dell’Impero mussoliniano, sulla cui rassomiglianza al territorio della farsa mi pare eccessivo infierire, e compiendo invece, con la nostra macchina del tempo, un salto velocissimo in avanti di 150 anni, cosa succede quando una entità geografica che si è tardivamente immessa nel processo di formazione dello stato nazionale si trova davanti al disfacimento su scala mondiale della nazione, di quella forma di organizzazione che accentuava e celebrava i confini? Il tutto in nome di una globalizzazione commerciale che però si comporta in maniera schizofrenica quando a varcare i confini non sono le merci ma le persone. Seguendo le modalità della farsa, gli abitanti della nazione con tali caratteristiche tendono a raffazzonare, sfruttano il razzismo al quale si sono allenati da anni sui loro conterranei meridionali trasferendolo ai nuovi arrivati (usando il meccanismo della ripetizione). Come contorsionisti evitano lo specchio che gli rimanda l’immagine delle ondate di giovani italiani condannati da un susseguirsi di assetti politico-sociali-economici clientelistici diversi alla fuga all’estero per continuare gli studi o praticare i propri talenti. Evitano anche uno specchio ancora più profondo, quello che gli rimanderebbe l’immagine degli abitanti della penisola stessa come risultato di “misture” genetiche di diversi popoli che da sud, da nord, da est, da ovest nel corso di millenni si sono mescolati con gli aborigeni creando una grandissima varietà di tratti somatici, per cui quando loro stessi migravano all’estero venivano talvolta classificati come “negri”, come accadeva negli Stati Uniti a fine Ottocento. Tali processi hanno lasciato anche impronte nella cultura che non sempre gli autoctoni sono ansiosi di decifrare, come, la processioni con in testa Madonne Nere e santi neri come San Calogero16, le feste popolari, in superficie religiose, aperte da laicissimi giganti di cartapesta neri, feste in cui primeggiano ebrei, etc .
Ritornando alle migrazioni moderne, quelle caratterizzate da password e da loghi, oggi, guarda caso, gli italiani registrati all’AIRE (l´anagrafe della popolazione italiana residente all´ estero) si aggirano sui 4 milioni e mezzo. Corrispondono in numero ai nuovi arrivati che la nazione adibisce a ruoli umili benché muniti spesso anch’essi di un alto livello di scolarizzazione (risulta che le donne immigrate, per esempio, leggono più di quelle italiane) e, in molti casi, dall’attestato di arrivo in Italia in condizioni di estrema difficoltà (la perversa selezione naturale per cui solo “il fior fiore” tra chi è partito approda poi ai nostri lidi). Comunque ai giovani italiani all’estero, come si conviene a chi viene da un paese europeo seppure di secondo ordine, vengono in genere risparmiate le esecrabili condizioni che invece attendono, in genere, chi viene dal sud del mondo e, in certi casi, dall’Europa orientale.
Con mossa degna della migliore farsa, mentre da un lato agita lo spauracchio della clandestinità, con grande creatività, a livello individuale, un popolo abituato ad arrangiarsi nelle situazioni in cui lo stato non provvede, utilizza questa disprezzata forza lavoro per prendersi cura (a prezzi inferiori di quelli del mercato) dei propri vecchi e dei malati. Ironia della sorte, le donne straniere che fanno questi lavori sono costrette a trascurare i propri vecchi e le proprie famiglie lasciati nel paese d’origine (per una esauriente indagine a livello internazionale su questo fenomeno derivante dallo sbilenco rapporto tra nord e sud del mondo, vedere il libro Donne globali – Tate, colf, badanti di Barbara Ehrenreich e e Arlie Hochschild17). In un paese abituato ad attribuire grande importanza alle apparenze, non poteva mancare che questa nuova forza lavoro venisse reclutata per aiutare a mantenere in ordine le case, a pulire le strutture, etc. Non a caso sono principalmente migranti le donne che provvedono a mantenere linda la casa delle “sorelle” italiane occupate in lavoro di rango medio-alto e gli uomini stranieri adibiti al lavoro pericoloso di trattamento dei rifiuti. Ancora più importante che la soluzione che i migranti costituiscono per le famiglie a livello individuale è la soluzione che i migranti costituiscono per le imprese, per l’industria italiana, l’edilizia l’agricoltura, in cui vanno a essere impiegati come manodopera spesso sottopagata e semi-schiavizzata. Strumentalmente, attraverso la ricattabilità a cui sono soggetti dalle leggi inique sull’emigrazione, i migranti fungono da anello debole utilizzato dagli imprenditori per attaccare i diritti e le protezioni conquistate dei lavoratori in Italia nel corso di decenni di lotta. A Mordano, vicino alla civilissima Imola colonna di legalità, dove persino i cestini per la spazzatura sono stati dotati di posacenere per evitare i mozziconi nelle strade, sono lavoratori africani a scartare i presunti rifiuti riciclabili. E la cooperativa che, bontà sua, li impiega non fornisce le attrezzatura di sicurezza appropriate: quindi solo mascherina e guanti usa e getta per maneggiare rifiuti di ogni sorta compresi quelli tossici, tra cui è stato trovato perfino un piede umano mozzato. A differenza dell’omertoso contesto di Rosarno dove il progetto di schiavismo fa scattare ormai da cinque anni l’intervento degli assistenti sanitari di Medici senza frontiere per prendersi cura della salute dei migranti, nella “legale” Imola che si preoccupa di utilizzare un lessico sensibile al genere nelle assemblee del consiglio comunale, lo schiavismo viene messo in atto da un dispositivo di stampo progressista, cioè la cooperativa, che costringe però i suoi “soci” ad accettare, oltre alle pessime condizioni di sicurezza, nella busta paga circa metà delle ore lavorate, a non usufruire di malattia o di vacanze o di tredicesima e di firmare fogli in bianco per il licenziamento volontario. Dopodiché, nella migliore tradizione delle “company towns” americane, per farsi proteggere in maniera adeguata da un sindacato, questi stessi lavoratori sono costretti a rivolgersi fuori paese. Solo che ogni tanto i “minatori” non ce la fanno più e compiono incursioni sul consiglio comunale per interrompere bruscamente lo scorrere tranquillo dell’ordine del giorno e portare alla loro cortese attenzione le loro esecrabili condizioni di lavoro. Il seguito della vicenda ha ancora del farsesco, sfuggiti dalle grinfie della cooperativa cosiddetta “spuria” dopo pochi mesi, a dicembre, gli stessi lavoratori si trovano a vedere negato il diritto d’assemblea dalla nuova cooperativa “virtuosa”, il Solco, a cui in seguito alle polemiche era stato affidato l’appalto per lo smaltimento dei rifiuti dello stabilimento Akron. Quando si dice “togliere la parola!”
Come non farti sbranare dalla lupa che ti sta allattando
Per gli immigrati rimane l’interrogativo, ripreso nel filone aperto da Amara Lakhous, sul come farsi allattare dalla lupa senza che ti morda (titolo che l’autore aveva dato al suo romanzo pubblicato prima in arabo in Algeria, ma trasformato, guarda caso, in italiano nel più appetibile ai palati intellettuali autoctoni “ Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio”18). Credo che negli ultimi due anni il protagonismo dei migranti nella difesa dei propri diritti, il coraggio dimostrato, la disponibilità al sacrificio, manifestati nella maggior parte dei migranti in tutto il mondo, dimostrino la volontà di seguire un paradigma diverso, che non li vede subalterni. Mi faceva notare l’amico scrittore Hamid Barole Abdu la quantità di sofferenza che è stata a sopportata dai giovani lavoratori migranti che hanno trascorso diciassette giorni sulla gru, esposti al freddo e alle intemperie del rigido inverno bresciano, sospesi ad un’altezza di 35 metri, lo sconforto e la solitudine, la rabbia e la caparbia che li hanno nutriti per non arrendersi, pur sapendo che alla fine non ci sarebbe stato nessun condono e che i più determinati, come è poi davvero successo per i due leader egiziani della protesta, sarebbero stati rimpatriati. Lo stesso discorso vale per i 2 immigrati che hanno resistito quasi un mese sulla torre Ex Carlo Erba a Milano. La futilità dell’azione nell’immediato non li ha distolti dal prendere posizione. Non ha mitigato la loro indignazione verso i meccanismi perversi della sanatoria truffa. Anche se non riconosciuta da molte persone, la struttura stessa del termine sanatoria truffa si rifa a un celebre Italian job parlamentare del periodo della Guerra Fredda, quella che venne chiamata la legge truffa, cioè la legge elettorale del 1953 manovrata da Scelba - altro personaggio farsesco della Prima Repubblica - che attraverso trabocchetti procedurali, in assenza di una maggioranza di voti a favore fece approvare la norma composta da un singolo articolo che aboliva la proporzionale a favore del premio di maggioranza.
Come dimostrato dai vari episodi di protagonismo illustrati in questo saggio/polemica, nonostante la loro grande ricattabilità, spesso accade che dopo avere sopportato soprusi per una vita in patria le persone siano meno disposte a sopportarli nella terra eletta a possibile patria di riscatto per sé e i propri figli, specialmente quando in quella terra la farsa è palese, e la sensazione di essere stati presi in giro ti grava addosso assieme a tutte le altre tristezze come la discriminazione, la mancata accettazione da parte degli altri.
Non si tratta solo di condizioni ed esperienze di vita che a un tratto si materializzano a migliaia annualmente sul suolo italiano, ma rappresentano piuttosto l’incarnazione della contraddizione nord/sud del mondo all’epoca della globalizzazione. Proprio nel momento di massima crisi economica, culturale e sociale dell’Occidente, in una dimensione ridotta e contraddittoria all’interno dello stesso nord, il protagonismo dei migranti ci rimanda allo specchio la determinazione delle popolazioni di molte parti del sud a non accettare l’ordine mondiale esistente. Prendiamo per esempio il movimento contro la privatizzazione dell’acqua che è sorto anni fa come ribellione popolare in Bolivia ed è giunto da noi con anni di ritardo, quando il nostro governo ha applicato la stessa misura estrema qui. Spesso i paesi del nord del mondo, con la complicità di regimi da essi installati o classi della borghesia compradora locali, usano il sud come laboratori di sfruttamento estremo che poi, in periodi di grave crisi cercano di applicare nei propri paesi, cominciando spesso dai soggetti più deboli che sono appunto i migranti. In questo contesto la figura del migrante è un po’ come quella del trickster19 evocata da molte culture comprese le popolazioni indigene nord americane, una mutevole figura che richiama Mercurio e che viaggia tra i due mondi. Da un lato è portatore del sud del mondo al nord, ma dall’altro, con la sua fuga dal sud e la sua volontà di insediarsi al nord, la sua fiducia in un mondo migliore da trovare al nord conferisce in un qualche modo legittimità all’ordine attuale del mondo. Salvo poi per contestarlo quando la verità gli viene rivelata sotto forma di razzismo e supersfruttamento. Questa sua posizione di mezzo, oltre ad un’ottica particolare e privilegiata, in un certo senso, gli offre inoltre la possibilità di allearsi a quelle fasce della popolazione locale del nord che non accetta l’ordine costituito e spesso è questo il punto di intersezione tra queste due realtà nel mondo sindacale, delle associazioni, dei movimenti contro il razzismo e per i diritti. Ed è precisamente per l’importanza che tale alleanza può assumere come resistenza all’assetto attuale che è cruciale capire il potenziale di ciascuna delle componenti, arrivare ad un piano di uguaglianza e reciprocità non solo formale ma soprattutto concreta.
L’immagine della lupa che ti allatta ma che, da un momento all’altro, potrebbe anche sbranarti, oltre a indicare un paradosso sembra particolarmente adatta a dipingere la situazione italiana e non solo per gli immigrati. Il mito di Crono/Saturno che sbrana i propri figli per assicurarsi la sopravvivenza, mito fondante del panteon di Zeus, può essere applicato tuttora alla situazione italiana, nonostante la predominante immagine dei figli mammoni. Infatti mentre i vecchi simulano gioventù a colpi di botulino e di tinte, sono i giovani a pagare i costi dell’immobilità economica del paese, e sembra che negli ultimi mesi molti giovani italiani si siano messi in moto. Ma ritornando alla questione migrazione che è anche una soluzione adottata attualmente dai giovani italiani, sono ormai centocinquanta anni che l’Italia manda fuori i figli più intraprendenti. Le punte più elevate, cioè 16 milioni emigrati si sono registrate tra il 1861 e il 1916 e continuando negli anni, anche se in proporzione minore come illustrano in maniera esauriente i libri di Gian Antonio Stella20. Che cosa ha significato per il paese, per il patrimonio genetico e culturale della nazione perdere quelle potenzialità? Spesso nelle scienze sociali vediamo l’esplorazione e la misurazione statistica di quello che c’è, quindi mentre si può misurare l’impatto quantitativo delle rimesse, che numero si può assegnare all’assenza, a quelle decine di milioni di “italiani mancati e mancanti”, le generazioni dei loro discendenti che adesso sono conteggiati in Brasile, USA, Belgio, Argentina, Australia e Germania? Se volessimo fare un discorso socio-biologico, forse possiamo rintracciare la fonte di quella “pavidità” che per anni ci ha rimproverato Comencini, nella mancanza di quel patrimonio genetico dei più intraprendenti che è stato invece assorbito da altre nazioni? Che azioni e conseguenze sarebbero implicite nell’accettare con riconoscenza e rispetto la dignità e le competenze che i figli e le figlie più intraprendenti di altre terre ci portano oggi in questo suolo invece di sottopagarli, umiliarli relegandoli ai lavori più duri e pericolosi per poi anche beffarli deprivandoli, attraverso diabolici dispositivi legali come la sanatoria truffa, dei loro diritti e dei soldi accumulati con tanto sacrificio? Quale riallineamento cerebrale sarebbe necessario per far capire ai “vecchi italiani” che la ragazzina marocchina, verso cui nutrono tanto disprezzo, ha già forse maggiori capacità rispetto ai figli degli autoctoni per il suo doversi destreggiare tra due culture, per le sue capacità linguistiche costretta com’è ad assumersi ruoli più adulti nel mediare per la famiglia con il mondo degli italiani? Guarda caso, è quello che capitava anche ai figli degli immigrati italiani, senza che nessuno stuolo di psicologi si preoccupasse del fardello eccessivo a livello psicologico messo sulle loro spalle. E, ironia della sorte, forse questa stessa iper-responsabilizzata ragazzina potrebbe essere quella che da adulta, se le venisse data l’opportunità, diventata primario, salva la vita al vecchio autoctono operandogli il tumore al cervello.
Nella farsesca, parossistica velocità con cui il fenomeno migrazione internazionale ha investito l’Italia esiste forse paradossalmente un vantaggio rispetto alle esperienze di altre nazioni in cui il fenomeno migrazione si è sviluppato ad un ritmo più lento e ha avuto modo di sedimentarsi e di elaborare maschere e travestimenti vari. Per esempio negli Stati Uniti, nella società civile termini quali pregiudizio, discriminazione, integrazione, razzismo istituzionale, tolleranza, “embracing diversity” si sono susseguiti ad ondate cronologiche e connotavano fasi particolari della lotta per i diritti civili e contro il razzismo. Hanno impiegato decine di anni ad essere assorbiti come concetti, a volte in guerra tra di loro, ma sicuramente indicatori dello stato di assimilazione della capacità di vivere insieme di popolazioni dalle diverse origini e circostanze in un determinato momento. Nel calderone italiano invece questi concetti sono tutti buttati insieme alla rinfusa, anche a causa della mancata lotta contro il razzismo quando si manifestava verso i meridionali. Sono mancati qui in Italia movimenti come quello per i diritti civili che negli Stati Uniti hanno chiamato in causa la società civile, sia nera che bianca o di altri colori, che hanno avuto il merito di far confrontare la popolazione, anche attraverso una dura lotta, su questioni di razzismo in senso lato, razzismo istituzionale, sulle capacità e i talenti effettivi delle persone. Da quella fucina sono nate canzoni, discorsi, film i cui contenuti sono percolati in dibattiti nelle famiglie di tutto il paese. Si lamenta qui in Italia quindi anche un mancato sviluppo di strumenti e lessici appropriati da parte della società civile. Di conseguenza, non si hanno gli strumenti per capire, per esempio, che tolleranza implica un grado di accettazione dell’altro minore vis-a-vis rispetto del diverso e forse al concetto di “embracing diversity” non siamo ancora arrivati. Il protagonismo dei migranti potrebbe però aprire la strada per la creazione in Italia di un concetto e lemma equivalenti, elaborati nel crogiolo delle lotte per i diritti e contro il razzismo. Ma da questo grande guazzabuglio di cose, paradossalmente precisamente perché il razzismo viene espresso in maniera così eclatante e senza camuffamenti (cosa che puntualmente fa sbalordire le persone provenienti da luoghi dove il processo è stato più lento), forse il confronto con il fenomeno razzismo potrebbe avvenire in maniera più radicale, se la società civile, in massa, prendesse l’impegno di affrontarlo, se gli immigrati continuassero a svolgere il loro ruolo di protagonisti, se si venisse a creare una vera alleanza tra le fasce più progressiste degli autoctoni e quelle dei migranti .
Oggi che i concetti di frontiera e di nazione sono più che mai labili e liquidi, forse l’ unica cosa per cui dovremmo ringraziare il capitalismo nel suo attuale stato di collasso è di aver inferto un grosso colpo, per ulteriori motivi tutti suoi, al concetto di nazione, e di questo passo avanti nella storia del mondo dovremmo approfittare ed andare fieri, invece di guardare indietro nella storia umana. Il destino di chi risiede in un territorio, siano essi vecchi italiani, nuovi italiani o immigrati o migranti forse in questo momento della storia si gioca sui paradigmi che vogliamo seguire: uno di resistenza al tentativo in atto da chi detiene il potere di distruggere il pianeta e disumanizzare la popolazione, di svilirla o come dice John Trudell, il poeta/cantante nativo americano Sioux utilizzando la metafora della miniera, “Non lasciamo che ci estraggano l’energia, la mente, l’essenza, come hanno fatto per i metalli nelle miniere”21, non lasciamoci estrarre ed estorcere dalle viscere della nostra umanità ciò che ci rende umani.
Io sarei dell’opinione che ci conviene starcene tutti sulla gru, reggendoci l’un l’altro, riconoscendo le ricchezze di diversità che ci portiamo dentro, dibattendone e cercando di sintetizzare il meglio, forgiando insieme gli strumenti di lotta, tenendoci alla giusta distanza da questo incubo di morte che sono i meccanismi della politica istituzionale attuale, a meditare e a escogitare insieme i mille diversi modi per salvare il pianeta e gli esseri umani per le sette generazioni future che, a detta delle popolazioni indigene americane, ci competono.
Note
[1] Saviano, Roberto, numerosi articoli, tra cui The New York Times, 25/17”010 “Italy’s African Heroes”; Il Sole 24 Ore, 12/11/2010, “La mia Gomorra può sperare negli immigrati, Riotta intervista Roberto Saviano”.
2 Mangano, Antonello, Gli africani salveranno l’Italia, Rizzoli, 2010.
3Patel, Shailja, Migritude, Kaya Press 2010; Migritude, edizione bilingue con traduzione italiana a fronte di Marta Matteini e Pina Piccolo, Lietocolle 2008.
4 Chakravorty Spivak, Gayatri, “Can the subaltern speak?”, saggio in Marxism and the Interpretation of Culture, a cura di Cary Nelson e Lawrence Grossberg, University of Illinois Press, 1988.
5 Moller Okin, Susan,” Is Multiculturalism Bad for Women?”, in Boston Review, October-November, 1997.
6Il volume Is Multiculturalism Bad for Women? a cura di Joshua Cohen e Matthew Howard, edito nel 1999 da Princeton University Press raccoglie sia il saggio della Mollen Okin sia le risposte di un gran numero di studiosi e studiose che confutano le sue tesi, tra cui Homi K. Bhabha, Azizah Y. Al Hibri, Yael Tamir. La questione continua ad essere molto controversa e a generare dibattiti sia in ambienti femministi, che di studi post-coloniali e di “public policy”.
7Vedere locandina del convegno organizzato da Trama di Terre, http://www.tramaditerre.org/tdt/articles/art_1834.html
8D’Azeglio, Massimo, I miei ricordi, Barbera, Firenze, 1891, pagg. 4-5.
9 Di Fiore, Gigi, Controstoria dell’Unità d’Italia, Fatti e misfatti del Risorgimento, Rizzoli, Milano, 2007.
10Gramsci, Antonio, La questione meridionale, curatori De Felice, Franco e Parlato, Valentino, Editori Riuniti, Roma, 1966.
11Salvemini, Gaetano, Movimento socialista e questione meridionale, Feltrinelli, Milano, 1973.
12 Aprile, Pino, Terroni, Edizioni Piemme, Milano 2010.
13Milner Davis, Jessica, Farce, Methuen, London, 1978; la voce “Farsa”, Enciclopedia Italiana Treccani, Rizzoli, Milano, 1932; Toschi, Paolo, Le origini del teatro italiano, Einaudi, Torino, 1955.
14Piccolo, Pina, “Farce as the Mirror of Bourgeois Politics: Morte Accidentale di un Anarchico," in Forum Italicum, Vol. 20, No. 2, pagg. 170-181, Fall 1986.
15Teti, Vito, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Manifestolibri, Roma, 1993.
16 Chiavola Birnbaum, Lucia, Black Madonnas: Feminism, religion and politics in Italy, Northwestern University Press, 1997, Darkmother: African Origins and Godmothers, IUniverse, 2002, Roediger, David, What’s White Got to Do with it? Giuliani ‘the Holy Virgin Mary’ and the Critical Study of Whiteness”, Working Paper Series on Historical Systems, Peoples and Cultures, Bowling Green State University, Ohio, 2000, Fiume, Giovanna, Il santo Moro.I processi di canonizzazione di Benedetto di Palermo (1594-1807), Franco Angeli, Milano, 2002.
17Erhrenreich, Barbara e Hochschild, Arlie, Donne globali – Tate, colf, badanti (traduzione di Valeria Bellesi e Antonio Bellomi), Feltrinelli, Milano, 2004.
18Lakhous, Amara, Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda, Alikhtilaf, Algeri, 2003.
19Hyde, Lewis, Trickster Makes This World: Mischief, Myth and Art, Farrar, Straus and Giroux, New York, 1998; Radin, Paul, The Trickster: A Study in Native American Mythology, 1956, Radin, Paul, Jung, Carl Gustav e Kerényj, Karl, Il briccone divino, Bompiani, Milano, 1979; Miceli, Silvana Il demiurgo trasgressivo. Studio sul trickster, Sellerio, Palermo, 1984.
20 Stella, Gian Antonio, L’Orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli, Milano, 2003, Carmine Pascià (che nacque buttero e morì beduino, Rizzoli, Milano, 2008, Negri, froci, giudei & Co- L’eterna guerra contro l’altro, Rizzoli, Milano, 2009.
21Trudell, John, “They are mining us”, dall’album, DNA- Descendants Now Ancestors, 2008. Pina Piccolo, è una traduttrice ed insegnante italo-americana. Nata in California, cresciuta in Italia, ritornata negli USA e vissuta lì per 30 anni ed infine riapprodata in Italia, si considera bilingue e "multicultural" e scrive sia in inglese che in italiano. Formatasi come italianista all'Università di Berkeley, ha svolto attività di promozione culturale in entrambi i paesi organizzando iniziative politico-culturali, promuovendo la conoscenza di figure della cultura progressista in entrambi i paesi anche attraverso interviste, saggi e poesie. Negli ultimi anni ha pubblicato poesie e racconti che affrontano, tra altre cose, il tema del razzismo e della xenofobia, purtroppo di grande attualità su scala mondiale.
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