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Sagarana IN FUTURO, QUANDO PENSERANNO A NOI


Doris Lessing


C’era un allevatore molto ricco e molto rispettato che aveva uno dei migliori allevamenti di bestiame nel paese, tanto che tutti gli allevatori del sud andavano da lui per farsi consigliare. Questo episodio si verificò nella Rhodesia del Sud di un tempo, oggi Zimbabwe, dove io sono cresciuta.
Era poco dopo la seconda guerra mondiale.
Conoscevo bene quell’uomo e la sua famiglia. Era di origine scozzese e a un certo punto decise di importare dalla Scozia un toro eccezionale. Questo succedeva poco prima che la scienza scoprisse come far viaggiare da un continente all’altro, in piccoli pacchi aerei, vitelli potenziali. L’animale dunque arrivò in aereo, naturalmente, e fu accolto da un comitato festoso di agricoltori, amici ed esperti. Era costato diecimila sterline. Non ho idea di che cosa significhi oggi, ma era una somma enorme per l’allevatore. Gli costruirono una stalla tutta per sé. Era una bestia enorme, massiccia e impressionante, ma mite come un agnello. Si diceva che adorasse il solletico sulla nuca, che gli facevano con la punta di un bastone tenendosi a distanza di sicurezza dietro le sbarre della sua stalla. A occuparsi di lui c’era un ragazzino nero di circa dodici anni. Tutto andava bene ed era chiaro che il toro presto sarebbe diventato padre di un bel numero di vitelli. E poi era un’attrazione per i visitatori che la domenica pomeriggio facevano una gita apposta per andarlo a vedere e se ne stavano attorno al suo recinto a fissare quella bestia così forte e così docile. Ma all’improvviso, inspiegabilmente, il toro uccise il suo custode, il ragazzino nero.
Si formò una specie di tribunale. I genitori del bambino chiesero e ottennero un risarcimento. Ma non finì così. L’allevatore decise che il toro andava abbattuto. Quando si sparse la notizia un sacco di gente andò da lui a chiedere che risparmiasse la vita di quel magnifico animale. Dopotutto era nella natura dei tori di inferocirsi all’improvviso, lo sapevano tutti. Il ragazzino era stato avvertito e forse non aveva dato ascolto alle raccomandazioni. Certamente non si sarebbe più ripetuta una cosa del genere e… a che cosa sarebbe servito sprecare tutta quella forza, tutto quel potenziale, per non parlare dei soldi?
“Il toro ha ucciso, il toro è un assassino, e dev’essere punito. Occhio per occhio, dente per dente”, disse l’allevatore, inesorabile, e infatti il toro fu abbattuto da un plotone di esecuzione e sotterrato.
Ora, come ho già detto, l’allevatore non era una persona ignorante, né un bifolco. Inoltre come tutti i suoi simili – la minoranza bianca al potere – passava gran parte del suo tempo ad accusare i neri che vivevano intorno a lui di essere primitivi, arretrati, pagani e così via.
Ma quello che aveva fatto – la condanna a morte di un animale assassino – affondava le radici nel passato remoto dell’umanità, un passato così lontano che non sappiamo situarlo, ma certamente un’epoca in cui l’umanità non riusciva a distinguere chiaramente tra uomini e bestie.
Ogni cauto tentativo di farlo ragionare in quella direzione da parte di amici e colleghi fu da lui rifiutato con un secco “so distinguere quel che è giusto da quel che è sbagliato, grazie tante”.
C’è un’altra storia. Un certo albero un bel giorno fu condannato a morte, alla fine dell’ultima guerra mondiale. L’albero era associato col generale Petain, per un certo periodo ritenuto il salvatore della Francia e poi il suo traditore. Quando Petain cadde in disgrazia, l’albero fu solennemente condannato a morte e giustiziato come collaborazionista.
Penso spesso a questi episodi: fanno parte di quella categoria di eventi che sembrano caricarsi di significato col passare del tempo. Quando sembra che tutto vada liscio – e mi riferisco alle vicende umane in generale – all’improvviso si assiste a qualche orrenda ondata di primitivismo e la gente torna a comportamenti barbarici.
È di questo che intendo parlare nelle presenti cinque conferenze, di quanto e quanto spesso siamo dominati dal nostro passato selvaggio, come individui e come gruppi. Eppure, anche se a volte sembriamo impotenti, andiamo accumulando, e anche molto rapidamente – troppo rapidamente per assimilarle – le informazioni che ci riguardano, non solo come individui, ma come gruppi, nazioni e membri della società.
È spaventoso vivere in un’epoca come la nostra in cui è difficile pensare all’essere umano come a una creatura raziocinante. Dovunque ci volgiamo vediamo brutalità, stupidità, tanto che sembra che non ci sia altro che questo - ovunque una discesa nella barbarie, una discesa che non siamo in grado di controllare. Ma io credo che, se è vero che c’è un generale peggioramento, è proprio perché le cose sono così spaventose che ne restiamo ipnotizzati, e non registriamo – o se registriamo, minimizziamo – le forze altrettanto potenti che si muovono nella direzione opposta, cioè in quella della ragione, della saggezza e della civiltà.
E so bene che mentre dico queste cose tanti staranno borbottando: “Ma dove? Questa deve essere matta per vedere qualcosa di buono in questo casino”.
Io credo che tale saggezza vada cercata proprio nel processo di giudizio cui sottoponiamo il nostro comportamento – quando esaminiamo il caso dell’allevatore che ha ucciso un animale per fargli espiare il suo crimine, o quello della gente che ha condannato e giustiziato un albero. Contro tali istinti primitivi e potentissimi abbiamo questo: la capacità di esaminarci da altri punti di vista. Si tratta di punti di vista molto vecchi – forse molto più vecchi di quanto crediamo.
Non c’è niente di nuovo nella pretesa che la ragione governi le vicende umane. Per esempio, nel corso di un altro studio, mi sono imbattuta in un libro indiano, di duemila anni fa e più, un manuale per il buongoverno dello Stato. Le sue indicazioni sono fredde, ragionevoli e razionali come potrebbero essere quelle di un manuale odierno, dal quale non si discosta neanche rispetto al modo di intendere la giustizia e di reclamarne l’applicazione. Ma il motivo per cui cito questo libro – che si chiama Arthasastra e fu scritto da un tale di nome Kautilya, ma che purtroppo non è facile trovare se non nelle biblioteche specializzate – è che, anche se ci sembra incredibilmente vecchio, il libro in questione fa riferimento a se stesso come l’ultimo nel suo genere.
Si potrebbe sostenere che non c’è da stare allegri se, dopo migliaia di anni che si sa perfettamente in cosa consista il buongoverno, siamo ancora tanto lontani dal realizzarlo. Ma, e questo è il punto di quel che voglio dire, ciò che sappiamo oggi su noi stessi è molto più complesso e articolato, è più profondo di quello che l’uomo sapeva allora su di sé, di quello che ha saputo per migliaia di anni.
Se mettessimo in pratica quello che sappiamo … ma proprio questo è il punto.
Penso che quando le generazioni future ripenseranno al nostro tempo si meraviglieranno soprattutto di una cosa: del fatto che oggi sappiamo di noi stessi più di tutte le generazioni precedenti. Ma di tutto ciò molto poco è stato messo in pratica. C’è stata la grande esplosione dell’informazione…
L’informazione è il risultato della capacità ancora infantile dell’umanità di guardare a se stessa obiettivamente. Ha a che fare con i nostri schemi comportamentali. Le scienze in questione a volte sono chiamate comportamentistiche e hanno a che fare con il nostro modo di funzionare in gruppo e come individui, e non col modo in cui ci piace pensare che ci comportiamo e funzioniamo, che spesso è fin troppo lusinghiero. Riguardano un tipo di osservazione spassionata, come quella con cui osserviamo il comportamento di altre specie. Queste scienze sociali o comportamentistiche sono precisamente il risultato della nostra capacità di distacco e di obiettività nei nostri stessi riguardi. C’è una grande massa di informazioni nuove provenienti dalle università, dagli istituti di ricerca e da dilettanti di genio, ma i nostri modi di governarci non sono cambiati.
La nostra mano sinistra non sa – non vuole sapere – quello che fa la nostra mano destra. È questo che oggi mi sembra il fatto più straordinario da rilevare a proposito della nostra specie, e le generazioni a venire se ne meraviglieranno così come noi ci meravigliamo della cecità e dell’inflessibilità dei nostri antenati.
Mi chiedo spesso come appariremo a chi verrà dopo di noi. E non è una domanda oziosa, ma un tentativo deliberato di potenziare la forza dell’ “altro occhio” che possiamo usare per giudicarci. Chiunque si occupi di storia sa che le convinzioni più radicate e appassionate di un secolo per lo più appaiono ridicole a quello successivo. Non c’è epoca della storia che ci appaia così come deve essere apparsa a chi l’ha vissuta. Quello che sperimentiamo personalmente, in ogni tempo, è il prodotto dell’impatto che hanno su di noi le emozioni di massa e le condizioni sociali dalle quali ci è praticamente impossibile isolarci. Spesso le emozioni generali sono quelle che ci appaiono più nobili, le migliori e le più attraenti. Eppure, nel giro di un anno, di cinque anni, di un decennio, di cinquant’anni, la gente si chiederà: “Ma come avranno fatto a pensarla in quel modo?”, perché nuovi eventi avranno bandito le suddette emozioni diffuse, scaricandole – per così dire – nel secchio della spazzatura della storia.
La gente della mia età è passata attraverso una serie di rivolgimenti storici violenti. Ne citerò solo uno. Durante la seconda guerra mondiale, dal momento in cui fu invasa da Hitler divenne alleate delle democrazie, l’Unione Sovietica cominciò a essere guardata con affetto e simpatia dall’opinione popolare. Stalin diventò l’amico dell’uomo semplice e la Russia una terra di eroi pieni di coraggio e amanti della libertà, mentre il comunismo appariva come una manifestazione interessante della volontà popolare che anche noi avremmo dovuto prendere ad esempio. Tutto questo andò avanti per quattro anni e poi all’improvviso, da un giorno all’altro, tutto si rovesciò. Quegli atteggiamenti divennero sbagliati, traditori, una minaccia pubblica. La gente che prima parlava affettuosamente di “Baffone”, come se niente fosse cominciò a usare gli slogan della guerra fredda. Un estremo, sentimentale e ottuso, alimentato dalle condizioni dei tempi di guerra, fu sostituito da un altro estremo irragionevole e ottuso.
Aver vissuto un voltafaccia del genere una volta è sufficiente a ispirare un permanente atteggiamento di diffidenza nei confronti delle mode popolari del momento.
Credo che gli scrittori siano per natura più portati a raggiungere tale distacco dalle emozioni di massa e dalle condizioni sociali. Chi esamina e osserva in continuazione diventa naturalmente critico nei confronti dell’oggetto del suo esame e della sua osservazione. Basti pensare a tutte le utopie prodotte dagli scrittori nel corso dei secoli. L’Utopia di Moro, La città del sole di Campanella, il Notizie da nessun luogo di Morris, l’Erewhon  (che è poi anagramma di nowhere, “in nessun luogo”) di Butler e le tante ipotesi di futuri possibili prodotte da scrittori di fantascienza e avventure nello spazio che credo s’inseriscano nella stessa tradizione. Si tratta sempre di critiche della società attuale perché non si può scrivere un’utopia nel vuoto.
Credo che i romanzieri svolgano una serie di compiti molto utili ai loro concittadini, ma uno dei più preziosi è senz’altro quello di aiutarli a vedersi come li vedono gli altri.
Naturalmente nelle società totalitarie si diffida degli scrittori per lo stesso motivo. In tutti i paesi comunisti per esempio questo viene proibito.
Va detto che immagino gli scrittori in generale, in tutti i paesi, come un’unità, quasi come un organismo che la società ha sviluppato per esaminarsi. Questo “organismo” è diverso nelle diverse epoche e cambia continuamente. La sua evoluzione più recente è stata nella direzione dello spazio e della fantascienza, e questo non ci stupisce, perché l’umanità è tutta presa dallo studio dello spazio e solo recentemente (storicamente parlando) ha imparato a occuparsi di scienza.
È dunque naturale che l’organismo cambi e si sviluppi, come fa la società. L’organismo non è consapevole di se stesso come organismo, come un tutto, anche se penso che presto sarà così. Ci stiamo avvicinando a un mondo globale e questo permette di vedere le tante diverse società come aspetti di un tutto; un tutto le cui parti sono condivise da ognuna delle società in questione. Vedere gli scrittori in questo modo – come uno strato, un livello, un ceppo, in ogni paese, diversi ma insieme partecipi di un tutto – potrebbe servire a neutralizzare la tendenza alla competizione fomentata dal sistema dei premi letterari e così via. Credo che gli scrittori, ovunque, siano aspetti di una funzione che è stata sviluppata dalla società.
Gli scrittori, i libri, i romanzi sono utilizzati in questo modo ma non credo che gli atteggiamenti nei confronti degli scrittori e della letteratura lo riflettano. Non ancora.
Secondo un mio amico antropologo, i romanzi dovrebbero stare sullo stesso scaffale dell’antropologia. Gli scrittori parlano della condizione umana, ne parlano in continuazione. È questo il nostro campo. La letteratura è uno dei modi migliori che abbiamo per assumere quell’ “altro sguardo”, quel modo distaccato di vederci; un altro modo è la storia. Eppure i giovani guardano sempre di meno alla letteratura e alla storia in questa chiave, non le considerano strumenti indispensabili alla vita… ma su questo tornerò poi.

Quanto all’allevatore e al suo toro, si potrebbe sostenere che la regressione di quell’uomo a uno stadio primitivo non abbia danneggiato altri che lui e la sua famiglia. Dunque si tratterebbe di un episodio davvero secondario sulla scena delle vicende umane. Ma la stessa cosa la possiamo riscontrare in eventi di tutt’altra portata, eventi che coinvolgono migliaia e perfino milioni di persone. Per esempio, i tifosi di calcio italiani e inglesi che tempo fa si scontrarono a Bruxelles sono diventati, come gli osservatori e i commentatori hanno ripetuto in continuazione, veri e propri animali. Sembra che i teppisti inglesi urinassero sui cadaveri di quelli che avevano ucciso. Parlare di “animali” in questo caso non mi sembra appropriato. Può darsi che si tratti di comportamenti animali, non lo so, ma è certo che si tratta del comportamento di uomini, quando questi uomini si lasciano riportare alla barbarie ed è stato così per migliaia, forse per milioni di anni, a seconda di dove vogliamo situare l’inizio della nostra storia come uomini e non animali.





(Brano tratto dal libro Le prigioni che abbiamo dentro - Cinque lezioni sulla libertà Titolo originale Prisons We Choose to Live Inside , Traduzione Maria Baiocchi, Minimum Fax, Roma, 2007.)




Doris Lessing
Doris Lessing ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura nel 2007.




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