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Sagarana IN QUESTURA


Brano tratto dal romanzo A braccia aperte


Piersandro Pallavicini


IN QUESTURA



 

Samuel si era messo il gessato grigio. Lo sapeva bene che con quel completo sembrava una specie di principe africano in tra­sferta in Lombardia, e l'aveva scelto apposta. La camicia era a righine con il doppio polsino, i gemelli d'oro, la cravatta una regimental blu e viola. Le scarpe, Oxford, nere, erano inglesi. E alla questura di Abbiategrasso si era fatto portare in taxi.
Alle otto e un quarto aveva aperto la portiera ed era sceso maestosamente, facendo leva sull'asfalto con il suo ombrello dal manico in legno. La questura apriva alle otto e mezzo, c'era solo un piccolo gruppo di gente fuori dai cancelli, quindici o venti persone che lo avevano guardato stranite. Erano cinesi, slavi, filippini, arabi, qualcuno con moglie e bimbi in brac­cio, vestiti come si vestivano tutti i giorni, cioè pronti per andare, dopo, al lavoro. Samuel non solo era l'unico vestito a quel modo, ma era anche l'unico nero.
Qualche giorno prima, quando finalmente aveva deciso che avrebbe davvero fatto partire il suo piano a favore di Gael­le, cominciare dalla questura gli era sembrata la cosa più ovvia. Si sarebbe fatto spiegare direttamente alla fonte, aveva pensa­to, perché non voleva chiedere consigli a nessuno. Degli altri camerunesi con cui aveva studiato non ne voleva sapere, paren­ti in Italia non ne aveva e in Francia, dove stava Emmanuel, le leggi erano un'altra cosa. Poi comunque no, non lo doveva sapere nessuno. Questo il punto: erano affari suoi, privati, che dovevano restare insondabili, soprattutto per il girone delle malelingue africane.
E allora via, forza, alla questura come anni e anni prima, così che a testa bassa e scalpitando adesso era sul marciapiede davanti ai cancelli chiusi, pronto ad affrontare una battaglia, ad alzare la voce se necessario, a far valere la sua condizione di laureato, di medico chirurgo in un ospedale, di cittadino italiano da dieci anni. Perché almeno questo gli era rimasto, dal matrimonio con Cristina. Questo, la cittadinanza, e il ricordo angoscioso delle code bibliche di un'altra era, quella delle sanatorie e delle regole che circolavano con il passaparo­la, quella dove ti toccava andare all'alba proprio lì, davanti alla questura, sul marciapiede, per riuscire a entrare prima delle torme dei senza speranza e senza permesso per poi, dentro, farti semplicemente ascoltare.
 
Si era guardato intorno. Gli altri ancora lo stavano sbirciando con dei sorrisetti. Poi aveva visto l'arabo, un uomo di qua­rant'anni con un bambino per mano e la moglie, con il velo, che ne teneva un altro in braccio. Gli era sembrato decente ed educato, aveva chiesto a lui.
«Mi sa dire dove si prende il biglietto?»
«Che biglietto?»
«Il numero. Per la coda. Dove si prende?»
L'arabo gli aveva riso in faccia.
«Ehhh, ma il biglietto non c'è più, professore. Mi sa che è da un po' di anni che non vieni in questura, giusto?»
Samuel si era irrigidito. Professore? Lo stava prendendo in giro?
«Ah non c'è più?» aveva sbottato. «E allora si fa la coda così, alla cazzo?»
L'arabo aveva fatto una specie di sibilo e gli aveva girato le spalle. Con le mani aveva coperto le orecchie del bambino, con un ordine secco aveva fatto girare anche la moglie. Samuel era allibito. Tutto questo perché aveva detto cazzo?
«Signore, l'appuntamento.»
Qualcuno gli aveva posato una mano sulla spalla. Si era girato e aveva trovato questa donnina che non gli arrivava nemmeno al petto. Una donnina cinese che sorrideva e che gli sembrava di aver già visto.
«L'appuntamento. Bisogna telefonare e prendere l'appuntamento» diceva, con tutte le erre girate in elle come dentro una barzelletta. «Io conosco lei. Ha fatto l'operazione a mio figlio.»
Ecco chi era. A Samuel adesso era tornato in mente: il ragazzino cinese era stato uno dei pochissimi che gli erano passati davanti in ospedale. Gente che non gli aveva chiesto niente di più di quella che era la normale assistenza. Non come gli altri stranieri, e gli africani più di tutti: che in corsia lo tiravano per le falde del camice e chiedevano e pretendevano, come se tra loro ci fosse una qualche sotterranea alleanza da rispettare.
«Sì che mi ricordo di lei» Samuel aveva raddrizzato le spalle e sorrideva. «Il ragazzo va bene, ora?»
«Il ragazzo sì, ma lei non ha l'appuntamento, dottore?» Lui aveva scosso la testa. Non sapeva nulla di appuntamenti.
Poi il cancello aveva iniziato a scorrere con uno scatto che aveva fatto sobbalzare tutti. E tutti avevano drizzato la testa, e tutti erano diventati impazienti, frementi, come se fossero grosse macchine elettriche passate improvvisamente dallo stand by all'acceso. Poi ancora, non appena la luce del cancel­lo era stata larga abbastanza da lasciar passare una persona, avevano iniziato a correre dentro.
Samuel era sobbalzato di nuovo: la cinese gli aveva preso la mano.
«Adesso si viene solo con l'appuntamento. Venga con me dottore, subito. Se non ha l'appuntamento chiede allo spor­tello stranieri.»
Samuel aveva sfilato via la mano ma era corso dentro con lei, in coda a quella specie di sprint collettivo. Cosa fosse lo sportello stranieri l'aveva capito dopo, nel salone di cui rico­nosceva la vecchia struttura e i volumi di un tempo dietro il colore delle pareti ritinteggiate e l'arredamento rinnovato. Sportello stranieri stava scritto su un foglio A4 piegato e spil­lato a prisma come un toblerone, posato sul piano di una scri­vania nuovissima di legno chiaro e plastica verde, sistemata in mezzo al salone. Dietro stava seduta Azzurra Cislaghi.
«Sportello stranieri» ripeteva la cinese, che adesso stava sull'attenti di fianco alla scrivania con un sorriso fiducioso. «Se non ha l'appuntamento può chiedere alla signora.»
Lui aveva salutato debolmente la Cislaghi. Lei, Azzurra, era invecchiata, ingrassata, e dimostrava di più dei cinquantadue che aveva. Portava il solito caftano, i soliti sandali senza calze, i soliti capelli lunghi, più biondi di prima, anni prima, quan­do Samuel accompagnava sua moglie alle "iniziative" di quella sua specie di ONG, Pro-Africa, che convogliava denaro pubbli­co verso il conto in banca della famiglia Cislaghi e uomini infi­nitamente più belli e più giovani di lei nel letto di Azzurra.
«Grazie, mi è stata davvero d'aiuto» aveva detto Samuel alla cinese, e le aveva teso la mano. Lei gliel'aveva stretta raggian­te ed era filata via, verso il lato lungo dello stanzone, dove c'e­rano due sportelli veri, solidi e blindati, con il vetro antiproiet­tile e il microfono per parlare con i poliziotti in divisa. Poli­ziotti che Samuel sentiva rispondere già scocciati alle istanze complicate e mal pronunciate degli stranieri in coda.
«Samuel, come sta Cristina?»
Lui aveva guardato Azzurra come si guarda una pazza. Quella donna sapeva benissimo che erano divorziati. Quella donna, a differenza di lui, vedeva ancora la sua ex moglie, che si ostinava a collaborare, gratis, a quella stronzata di ONG. Lo stava prendendo in giro o aveva già fumato di prima manina?
«E cosa vuoi che ne sappia, io?» aveva detto con un sorriso acido, piantandola in asso senza nemmeno salutare. Non vole­va avere niente a che fare con quella suonata in perenne ricer­ca di soldi pubblici e cazzi neri. Aveva programmato di fare di testa sua, così sarebbe stato.
Era andato deciso a uno sportello, aveva tenuto lo sguardo ben fisso sul poliziotto dietro il vetro blindato, si era imposto di ignorare i commenti irritati della gente in fila.
«Scusi.. » aveva detto, gentile.
Il poliziotto l'aveva ignorato. In quella coda non c'era la cinese ma l'arabo di prima. Che gli aveva sibilato qualcosa.
«Senta...» aveva insistito Samuel, bussando con due dita sul vetro.
E il poliziotto era esploso.
«Ma che vuoi tu?» gli aveva urlato, sbattendo giù la penna. «Appena arrivato e già rompi i coglioni? Stai in coda e aspetta l'ora dell'appuntamento, no?»
A Samuel si era stretto lo stomaco. Gli sembrava di essere tornato indietro di vent'anni, ai permessi di soggiorno elemo­sinati in quegli uffici dove pensavano sempre, a priori, che tu li volessi fregare.
«Ci conosciamo?» aveva mormorato, gelido.
«Cosa vuoi dire ci conosciamo? Perché dovrei conoscere proprio te?»
«Lei mi sta dando del tu» aveva continuato Samuel, senza scomporsi «ma non mi sembra di aver mai avuto il piacere.»
 
Venti minuti dopo era tutto finito. Venti minuti dopo l'arabo con famiglia aveva smesso di spintonarlo, la cinese di provare a trascinarlo via mentre lui rispondeva agli spintoni, il poliziotto di urlargli addosso parole mute attraverso la sordina del vetro. Venti minuti dopo lui non sventolava più la sua carta d'identità di cittadino italiano in faccia al manipolo di questurini usciti rabbiosi dagli uffici, venti minuti dopo non aveva più la cami­cia fuori dai pantaloni e non era più chinato per terra a cercare il gemello sfuggito dal polsino, dopo che i questurini l'avevano preso, sbattuto sul pavimento, fermato con un ginocchio sul petto e ricondotto alla calma con parole di certo non cordiali. Venti minuti dopo beveva malvolentieri un caffè al baretto di fronte alla questura, con le mani che tremavano e non riusci­vano a tener ferma la tazzina, mentre Azzurra Cislaghi si pro­strava in scuse come se di quella scena la responsabile fosse lei. (…)




(Tratto dal romanzo A braccia aperte, Edizioni Ambiente, Milano 2010.)




Piersandro Pallavicini
Piersandro Pallavicini (Vigevano, 1962), ha pubblicato i romanzi Il mostro di Vigevano (Pequod. 1999), Madre nostra che sarai nei cieli (Feltrinelli, 2002), Atomico Dandy (Feltrinelli, 2005). Nel suo romanzo pių recente, African Inferno (Feltrinelli, 2009) ha trattato il tema dell'immigrazione africana in Italia e dei reciproci preconcetti tra bianchi e neri, ottenendo l'apprezzamento della cultura e del giornalismo sia della destra che della sinistra, da Liberazione a Il Secolo d'Italia. L'Africa č nel suo cuore e in buona parte del suo lavoro culturale: per le Edizioni dell'Arco cura una collana di autori italiani che scrivono d'Africa e immigrazione, i cui libri sono distribuiti solo per strada dai vendeurs senegalesi. Per lo stesso editore ha anche firmato la raccolta di racconti Afro-Beats (2006) e il libro per la tavola L'Africa nel piatto (2009).




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