LO SPIRITO E IL CONTRIBUTO ORIGINALE DELLA LETTERATURA BRASILIANA Conferenza di Apertura del Seminario “Storia della letteratura brasiliana”, all’Ambasciata del Brasile a Roma, il 15 Ottobre 2009 Julio Monteiro Martins
Vorrei iniziare con un saluto all’ambasciatore del Brasile in Italia, José Viegas, e ai consiglieri Paulo Marcos de Moraes e Acir Pimenta Madeira, con i miei complimenti e la mia gratitudine per questa straordinaria iniziativa dell’Ambasciata del Brasile.
Il mio intervento sarà quello di uno scrittore, non di un professore o di un critico letterario. Di uno scrittore appassionato della letteratura del suo paese d’origine e che da quasi una quarantina d’anni vive felicemente immerso in questo universo straordinario.
Vorrei iniziare dal racconto di un’esperienza personale, accaduta ormai trent’anni fa. Nel 1981 ero tornato in Brasile dopo aver passato qualche anno nelle università degli Stati Uniti imparando le tecniche dei laboratori di scrittura, i writers workshop, una vecchia tradizione anglo-sassone allora ancora sconosciuta in Brasile. Proprio in quegli anni un anziano critico letterario e allora professore alla Universidade di Rio de Janeiro, Afrânio Coutinho, aveva trasformato la sua propria casa, in Ipanema, in una Scuola di Scrittura, la OLAC, la prima del paese, e mi ha invitato a creare lì il mio Laboratorio di Narrativa. I suoi figli erano già grandi, e lui ormai vedovo e, già ottantenne, era quasi cieco. Dormiva in una brandina messa tra due librerie al terzo piano, tutto il resto della grande casa era dedicata alla scrittura, e quell’amore e sacrificio per lo sviluppo della letteratura in Brasile mi hanno così colpito che non mi sono mai scordato di quell’esempio di letteratura vissuta non come parte dell’industria dell’intrattenimento, ma come missione e sacerdozio.
Tra i libri scritti dal Professor Coutinho, che negli anni, dopo un lungo periodo negli Stati Uniti aveva introdotto il new criticism in Brasile, ce n’era uno sulla famosa polemica Alencar/Nabuco, una discussione pubblica tra due grandi intellettuali brasiliani dell’Ottocento, combattuta sulle pagine dei giornali nell’anno 1875, su quale dovrebbe essere l’identità della futura letteratura brasiliana. La questione centrale dell’identità si faceva presente per la prima volta in quella polemica, per diventare la grande questione della letteratura brasiliana fino ai giorni nostri. Partita come “ricerca di un’identità”, la nostra letteratura finisce con creare e costruire brillantemente questa stessa identità.
La cultura brasiliana si rivolge al futuro, non perché abbia paura o vergogna del proprio passato, con cui fa i conti tutti i giorni, ma perché è innamorata del progetto del Brasile, dell’idea stessa di Brasile, di ciò che il Brasile ha la possibilità, anzi la forte probabilità, l’intima certezza di diventare, di essere.
Tornando alla polemica Alencar/Nabuco, non era la prima volta che quella polemica era stata oggetto di studio e di analisi. Già negli anni ‘50 Múcio Leão, e in seguito Brito Broca avevano sottolineato la sua importanza germinale per la nostra letteratura. Ma senz’altro il libro di Coutinho è stato quello più completo a riguardo.
La polemica coinvolgeva due grandi scrittori: José de Alencar, romanziere del Ceará, accusato dagli avanguardisti di essere ancora troppo legato ad una visione romantica della letteratura. Autore dei grandi classici dell’Indianismo, “Iracema”, “Ubirajara”, “O Guaraní”. Opere che dipingevano con tinte eroiche e sentimenti nobili, da paladini del medioevo, i nativi del Brasile di allora, in realtà a quel punto ormai sconfitti dal conquistatore europeo e in via di estinzione come cultura incontaminata.
Dall’altra parte c’era Joaquim Nabuco, intellettuale di Recife, città dello stato di Pernambuco. Aveva vissuto all’estero, in Europa, dal 1873 al 1878. Portava a Rio de Janeiro le idee più moderne del suo tempo, un uomo di cultura cosmopolita, era stato il più grande teorico dell’Abolicionismo, il movimento per l’abolizione della schiavitù in Brasile, che aveva dato origine alle potenti poesie di Castro Alves, come “Navio Negreiro” e “Vozes D’Africa”, un poeta di ferventi convinzioni anti-schiaviste, morto “romanticamente” all’età di 24 anni.
Joaquim Nabuco, il mentore di Castro Alves, era un cittadino del mondo, attratto dallo “spettacolo del suo secolo” come ha scritto in “Minha Formação”. E al contrario di José de Alencar, non dava particolare enfasi all’ambiente brasiliano, ma cercava nel Brasile quello che lo accomunava alle nazioni sviluppate dell’Occidente, la Francia, l’Inghilterra e già gli Stati Uniti, dove sarebbe stato ambasciatore negli anni successivi. Le sue idee accentuavano e valorizzavano la dipendenza occidentale della cultura brasiliana. Un’influenza secondo lui fortunata e benedetta per il futuro del Brasile.
Erano due visioni diverse, in conflitto tra di loro, che cercavano di conquistarsi il territorio dell’immaginario nazionale: La visione “nazionalista” e la visione “occidentalista”.
Il grande romanziere Joaquim Maria Machado de Assis, che ancora giovane aveva accompagnato da vicino la polemica tra Alencar e Nabuco, anni più tardi, già alla fine dell’Ottocento, avrebbe costruito un’opera che sarebbe stata la sintesi di queste due posizioni apparentemente inconciliabili, un’opera allo stesso tempo universale e profondamente brasiliana. Susan Sontag considera Machado il più grande scrittore delle Americhe del Diciannovesimo secolo, una sorta di Balzac del Nuovo Mondo, superiore a Melville o a Hawthorne, costruttore di una narrativa ancora più alta. Il romanzo “Memórias póstumas de Brás Cubas”, per esempio, ha anticipato alcune grandi innovazioni nella narrativa, presentando una sofisticazione psicologica che sarebbe riapparsa soltanto alcuni decenni più tardi nelle opere di autori come Svevo, Marcel Proust o Virginia Woolf.
La ricerca tormentata di un’identità nazionale finisce per diventare – e questa è la grande fortuna della letteratura brasiliana – un esercizio straordinario di creazione di un’identità, utilizzando i fatti storici e sociali come spunto per una vera effervescenza dell’immaginario collettivo, ancora oggi attiva, e cercando di stabilire – e qui uso le parole dell’antropologo Roberto da Matta: “Ciò che rende il brasile, Brasile”. Una ricerca dell’identità che si trova per esempio in un libro magnifico dell’antropologo Darcy Ribeiro, “O Povo Brasileiro”, e nell’opera che in un certo senso è stata la sua origine e ispirazione, “Casa Grande e Senzala” di Gilberto Freyre, pubblicato in Italia col titolo di “Padroni e schiavi”, due libri stupendi, in cui il Brasile si spalanca dinanzi a noi, sensuale, molteplice e pieno di energia storica, gravido di futuro, con l’odore delle sue piante, delle sue spiagge, delle sue case, dei suoi corpi lucidi di sudore.
Agli albori del Novecento è apparso un altro grandissimo romanzo, “Os Sertões”, de Euclides da Cunha, che lo scrittore argentino Jorge Luis Borges considerava il più bel romanzo delle Americhe, era il suo romanzo preferito. Da Cunha racconta la guerra intestina al Brasile del 1896, più tardi riproposta da Mario Vargas Llosa in “La guerra della fine del mondo”, tra i fanatici religiosi di Antônio Conselheiro, leader carismatico e messianico del territorio libero di Canudos, e l’esercito dell’appena nata Repubblica del Brasile. Dopo diverse battaglie in cui l’esercito repubblicano è stato sconfitto, alla fine c’è il ribaltamento della situazione e il completo annichilimento di Canudos, una Cartagine in pieno sertão di Bahia. Su quel Brasile profondo, sulla gente che l’abitava, Euclides da Cunha scrisse: “O sertanejo é antes de tudo um forte!” (L’uomo del sertão è innanzitutto un forte.) E potrebbe aver detto lo stesso, per estensione, del popolo brasiliano nel suo insieme, che con quell’opera era emerso in modo dirompente nella nostra letteratura, e da quel momento in poi sarebbe stato il protagonista indiscusso.
Questo crocevia delle possibili identità del Brasile si è manifestato fortemente un’altra volta all’inizio degli anni 20, nel Centenario dell’Indipendenza del paese, quando dei giovani intellettuali e artisti, soprattutto di São Paulo, tornati dall’Europa dove erano stati a contatto con le avanguardie nascenti, con il Futurismo soprattutto, ma anche con il Surrealismo, il Dadaismo e il Cubismo, hanno allestito la Settimana di Arte Moderna a São Paulo, un evento sconvolgente per l’epoca, che sovvertiva il gusto e il canone fino ad allora imperanti, con accesi scontri tra i suoi difensori e i suoi detrattori, un po’ come era avvenuto a Parigi nella prima mostra degli Impressionisti al Salon des Refusées.
Uno dei frutti più straordinari della Settimana paulista è stato il Manifesto Antropofagico , creato da Oswald de Andrade, un manifesto poetico radicale che proponeva agli artisti brasiliani di prendere ad esempio gli indios che praticavano il cannibalismo per “cannibalizzare” la cultura importata e l’arte europea. Il Brasile avrebbe affermato la sua identità “mangiando” e digerendo l’arte dell’invasore, invertendo così la dominazione culturale post-coloniale. La frase chiave del Manifesto Antropofagico era "Tupi or not Tupi: that is the question.", sostituendo con il nome della tribù indigena del nostro litorale, i tupi, il verbo essere, il “to be” del dubbio hamletiano. E ancora oggi, nell’ambiente accademico degli Stati Uniti per esempio, si studia la validità possibile nel nostro tempo del concetto che ha trovato la sua sintesi nelle Antropofagic Strategies create dai brasiliani nel 1922.
Il romanzo “Macunaima - L’eroe senz’alcun carattere”, scritto da Mario de Andrade nel 1928, è in un certo senso la materializzazione del “nuovo eroe” brasiliano, nella forma di un anti-eroi mutante, allo stesso tempo pigro e ambizioso, che assume le sembianze di un negro, di un indio, di un gigantesco neonato, figlio della natura selvaggia ma affascinato dalla macchina, dall’aeroplano, dalla modernità rumorosa delle nuove metropoli. Macunaima è l’anti-eroi mitico brasiliano, il protagonista di quello che Lukács riconosceva come “l’epopea negativa dei tempi moderni, l’epopea di un mondo senza Dio.”
La letteratura dei Modernisti brasiliani, nata intorno alla rivista Klaxon, ha potuto contare sul prezioso apporto di intellettuali di origine italiana, come Menotti del Picchia e i pittori Emiliano Di Cavalcanti e Anita Malfatti. Quella era una letteratura rivoluzionaria non solo nel pensiero, nella visione della società, ma anche nella forma, ora spoglia dagli orpelli eccessivi, dalla metrica rigida e dal “perbenismo” stilistico del secolo precedente. L’impegno dello scrittore modernista con il mondo si legava all’impegno con la forma; in quello che Rolland Barthes ha chiamato “la responsabilità della forma”. E la forma da loro scelta per esprimersi era spesso troppo cruda, franca e disadorna per il gusto borghese prevalente.
Molti anni più tardi, negli anni Sessanta, gli intellettuali e gli artisti avrebbero ripreso le riflessioni del Modernismo riguardo all’identità del paese, al progetto culturale futuro del Brasile. Manifestazioni come il Teatro di Avanguardia di José Celso Martinez Correia, che ha riproposto la pièce teatrale “O Rei da Vela” di Oswald de Andrade, o il successivo Teatro dell’Oppresso, di Augusto Boal, ma anche romanzi come il delirante e psichedelico “Panamérica” de José Agripino de Paula, oppure le poesie di Paulo Leminski e di Ana Cristina César, poetessa radicale ed estrema, morta suicida all’età di trent’anni.
E non possiamo dimenticare il “figlio tardivo” del Modernismo, il Movimento Tropicalista, che è esploso nel 1968 nelle canzoni di Gilberto Gil e di Caetano Veloso, come “Alegria, Alegria” e “Soy Loco Por Ti, America”, che già dialogavano con il rock e il pop in piena cultura globalizzata, l’arte di Lygia Clark e di Hélio Oiticica, con i suoi Penetrabili e i Parangolés, strane sculture di tessuto, come tunnel o tende, in cui lo spettatore doveva penetrare, per abitarle momentaneamente, come nella dirompente istallazione “Tropicália”, nel 1967. Questa esuberanza di arte e di creatività nasce dalla fertile dialettica tra il passato e il futuro del paese, tra la foresta Amazzonica e le metropoli postmoderne, tra il primitivismo e l’avanguardia più radicale, dalla quale anche l’architettura di Oscar Niemeyer, creatore della nuova capitale, Brasilia, è un esempio grandioso. Come ha ben notatoAndrè Breton: “L’opera d’arte non ha alcun valore se non nella misura in cui è attraversata dai riflessi del futuro”.
L’energia esplosiva e le pulsioni iconoclaste del primo Modernismo non si sono mai affievolite nei decenni successivi, e l’avanguardia letteraria è stata la punta di diamante di questa brama di futuro, che a volte somigliava ad una visione utopica e apocalittica, ma che in ogni modo incoraggiava gli artisti brasiliani nelle loro sperimentazioni, serviva da propellente per le loro idee più ardite e gli confermava l’inestricabile intreccio tra il destino della loro arte e il destino della loro patria.
La maturazione letteraria, psicologica e politica dei Modernisti negli anni successivi alla loro comparsa sulla scena, parlo degli anni Trenta, che è stato il periodo delle rivoluzioni utopiche e della tentazione dei totalitarismi, ha dato origine anche all’opera di alcuni dei nostri più brillanti poeti, penso a Manuel Bandeira, a Cecilia Meirelles, l’autrice del poema “O Romanceiro da Inconfidência”, opera monumentale, che parla della lotta spesso ingrata in favore della libertà, e ambientata tra i giovani rivoluzionari della fine del Settecento che, condotti dal Tiradentes e ispirati dal successo della Rivoluzione Francese, hanno provato a costo della propria vita di anticipare l’Indipendenza del Brasile.
Penso a un poeta molto amato anche dagli italiani, Vinícius de Moraes, che insieme al cileno Pablo Neruda ha cantato l’amore, anche quello erotico, in modo allo stesso tempo semplice e struggente. Quante volte in Italia ho sentito ripetere questa sua definizione dell’amore: “Che non sia immortale in quanto fiamma, ma che sia eterno mentre dura”.
Penso a João Cabral de Melo Neto e ai suoi “retirantes”, in “Morte e Vita Severina”, le famiglie del Nord Est, che assediate dalla siccità prolungata seguivano a piedi i letti secchi dei fiumi, portando sulle spalle le loro povere cose, in lunghe processioni, verso le spiagge del litorale che non avevano mai visto. Viaggi che duravano settimane e durante le quali si partoriva e si moriva: l’uomo al suo limite più estremo, davanti alla catastrofe della carestia e della siccità, la stessa che era stata il leitmotiv di un altro nostro grande romanziere, Graciliano Ramos, nel suo romanzo più toccante, “Vidas Secas”, trasformato negli anni ’60 in un capolavoro cinematografico da Nelson Pereira dos Santos.
E penso anche a quello che è forse il più grande di tutti i poeti del Brasile, Carlos Drummond de Andrade. Poeta civile, poeta dei sentimenti semplici e sacri della gente brasiliana. Lo stesso Drummond che una volta ha scritto “Sono stanco di essere moderno. Ora voglio essere eterno”, una sorta di “sfogo estetico” ma anche un atto di fede che ho preso in prestito come motto per la Scuola di Scrittura Sagarana.
Il Brasile si sprovincializzava e si apriva alle questioni del suo tempo, partecipava alla Seconda Guerra Mondiale in Europa, con la sua Força Expedicionária che ha combattuto sulla Linea Gotica, proprio nella Toscana dove vivo. A Pistoia, dove ha sede la Sagarana, sta il piccolo cimitero dei caduti brasiliani sugli Appennini, soldati venuti dai tropici per morire nella neve sulle cime delle montagne toscane. Non a caso è un cimitero senza lapidi, quello, progettato dagli stessi architetti di Brasilia.
Nei decenni successivi alla Seconda grande guerra, i romanzi di Jorge Amado cominciavano a essere conosciuti internazionalmente, e i suoi personaggi femminili, Gabriela, Dona Flor e Tereza Batista, erano una sintesi delle migliori virtù e della forza vitale di quel popolo che Amado celebrava. Ma era stato nei suoi primi romanzi, quelli più sociali, come “Capitães da Areia”, “Jubiabá”, “Mar Morto” e o “País do Carnaval” che l’essenza epica del quotidiano sofferto dai brasiliani era emersa come mai si era visto prima. “Tocaia Grande”, l’ultimo dei suoi grandi romanzi, propone la nascita, lo sviluppo e la fine di una città, era quella la metafora definitiva di tutto ciò che Jorge Amado aveva visto, vissuto e ritrattato.
Il periodo dell’uscita di Gabriela e Dona Flor era il periodo in cui il Brasile rifioriva con Juscelino Kubitschek, nei suoi “anni d’oro”, e lanciava i primi veri ponti artistici verso il mondo. Era il momento dell’architettura moderna, della Bossa-nova, di João Gilberto e Tom Jobim, del Cinema Novo di Glauber Rocha, dei gol di Pelé e di Garrincha nei mondiali di calcio, di una nazione per la prima volta ottimista, quasi euforica del proprio futuro; e il mondo, in sintonia, restituiva il messaggio brasiliano con il primo vero sguardo attento sulla nostra cultura, attraverso per esempio l’opera di Levi-Strauss sugli indios del Brasile o quelle di Roger Bastide e di Pierre Verger sui riti afro-brasiliani, o di un film come l’Orfeo negro di Marcel Camus. Lo stesso Drummond scriveva in quegli anni, in una frase sintesi di questa apertura: “Ho due mani e il sentimento del mondo”.
All’inizio degli anni ‘50 la letteratura brasiliana, sempre più riflesso delle luci al neon della città al posto del chiaro di luna della campagna, diventa con Lucio Cardoso e Clarice Lispector, una letteratura anche esistenziale e psicologica, e inseguiva così la lezione del nostro maggior critico letterario, Antônio Cândido, che insegnava che “La marcia del romanzo moderno è andata in direzione di una crescente complessità psicologica dei personaggi, accompagnata da una inevitabile semplificazione della tecnica narrativa.” E aggiungeva: “La rivoluzione subita dal romanzo consiste nel passaggio dalla trama complessa con personaggi semplici, alla trama semplice con personaggi complessi.” Come esempio di narrativa esistenziale per i miei allievi italiani di Scrittura Creativa utilizzo spesso il romanzo “La passione secondo G.H.” di Clarice Lispector. Si tratta di un romanzo con un intreccio praticamente inesistente, una donna di mezz’età, sola nel suo appartamento, che vede salire sullo stipite della porta uno scarafaggio. Pensa di ucciderlo, chiudendo semplicemente la porta, ma quando si avvicina, il suo passato emerge, si alzano le onde emotive delle sue questioni irrisolte, e lei non ha il coraggio di distruggere l’insetto con il quale si è stranamente identificata. Questa trama quasi inesistente si sviluppa lungo più di 200 pagine. E tuttavia, il lettore non si annoia mai, non riesce a fermarsi fino all’ultima riga, tanta è la concentrazione di saggezza presente nello stile di Clarice, la sua bizzarra originalità e gli insight sorprendenti ma veri sulla soggettività dell’uomo contemporaneo.
Ho conosciuto Clarice Lispector nei suoi ultimi anni di vita, quando era già malata di cancro, dopo essere stata vittima di un incendio che lei stessa aveva provocato ingerendo tranquillanti e addormentandosi con la sigaretta accesa sul divano. È stato quello il periodo più tragico e ritirato della sua vita. Nel 1977, subito dopo la sua morte, il direttore della rivista Ficção, Cicero Sandroni, oggi Presidente dell’Academia Brasileira de Letras, mi ha chiesto di scrivere la recensione sul suo splendido romanzo postumo “L’ora della stella”, in un’edizione speciale di Ficção dedicata a Clarice, e quel mio testo è diventato alla fine una sorta di necrologio della scrittrice. In quel libro, “L’ora della stella”, Clarice Lispector presenta anche delle riflessioni profonde sulla scrittura stessa, attraverso il personaggio-narratore, come questa:
“Scrivo perché non ho niente da fare in questo mondo: sono rimasto fuori e non c’è posto per me sulla terra degli uomini. Scrivo perché sono un disperato e sono stanco, non reggo più la routine di essere me stesso, e se non fosse la sempre novità che è scrivere, ogni giorno mi morirei simbolicamente.”
Scrive, in Portoghese, “eu me morreria”, io “mi morirei”, e non “mi ucciderei” o semplicemente “morirei”. E cosi ri-inventa il senso dell’espressione.
Oppure quest’altro brano:
“… sto cercando, sto cercando. Tento di capirmi. Tento di offrire a qualcuno ciò che ho vissuto e non so a chi, ma non voglio rimanere con quello che ho vissuto. Non so che fare con quello che ho vissuto, ho paura di questa disorganizzazione profonda.”
O ancora quest’altro:
“Scrivere è il modo di chi usa la parola come esca: la parola che pesca quello che non è parola. Una volta che si è pescata l’interlinea, si può con sollievo buttar via la parola. Ma qui cessa l’analogia: la non-parola, al mordere l’esca, l’ha incorporata”.
La stessa modernità, lo stesso spessore intellettuale e consapevolezza della propria scrittura che si trovano in Clarice Lispector possiamo trovarli anche in un altro grande scrittore, scomparso 10 anni fa, mio grande amico e compagno di generazione, Caio Fernando Abreu. La sua opera è oggi molto apprezzata anche in Europa. Proprio quest’anno è uscita in Italia la sua raccolta di racconti “I draghi non conoscono il paradiso” e ho avuto l’onore di presentarla a Milano.
Caio ha scritto il più bel racconto che ho mai letto sull’epidemia dell’Aids. Il racconto si chiama “Linda, una storia orribile”. Insieme a opere come “Angels in America” di Tony Kushner e a “Les Nuits Fauves” di Cyril Collard, è l’opera più bella in assoluto su questo drammatico argomento. Parla di un giovane uomo che deve abbandonare la sua piccola città natale nel Sud del paese per cercare lavoro ma soprattutto libertà a São Paulo, nella grande metropoli, dove lavora come giornalista. All’epoca della sua partenza gli avevano regalato un cucciolo di cane, a cui si era affezionato, ma che era rimasto con sua madre nell’antica casa. Più di una dozzina di anni dopo, già malato di Aids, decide di tornare alla casa materna per morirci, e lì trova, morente anche lei, Linda, la vecchia cagna, con macchie rosse cosparse sulla pelle spelacchiata simili alle sue, a quelle del sarcoma di Kaposi. E uomo e cagna si riconoscono e si accomunano nel complice avvicinamento alla propria morte.
Gli anni dell’esistenzialismo sono anche gli anni della rivoluzione della poesia Concreta, della poesia Praxis e della poesia Processo. Esperimenti sempre più audaci e inventivi dei fratelli Augusto e Haroldo de Campos, oltre quelli di Décio Pignatari, sovvertivano l’estetica anche grafica della poesia. Ma anche il romanzo ha accettato le grande sfide formali del periodo, penso a uno straordinario romanziere di Recife, Osman Lins, che nel suo romanzo “Avalovara” utilizza simboli grafici e figure geometriche come personaggi. Una riflessione di Osman Lins su cosa significa la parola per lo scrittore è stata l’epigrafe che ho scelto per il mio ultimo romanzo. Dice lui: “La parola consacra i re, esorcizza i posseduti, rende effettivi gli incantesimi. Capace di molti usi, è anche proiettile dei disarmati e l’animale che scopre le carcasse putride.”
Facciamo un passo indietro e torniamo agli anni del dopo-guerra per parlare di altri due grandissimi scrittori brasiliani: Nelson Rodrigues e Guimarães Rosa. Nelson è il nostro più grande drammaturgo, ha scritto piéce teatrali scandalose per l’epoca, quasi tutte proibite dalla censura del periodo di Getúlio Vargas, pièces come “Vestido de noiva”, “A Dama do Lotação”, “Bonitinha Mas Ordinária” e “Os Sete Gatinhos” che mettono a nudo, a volta letteralmente, le patologie psicologiche e sessuali della piccola borghesia carioca, i loro incubi e le loro ossessioni, e fanno una vera radiografia dei valori profondi, esemplari, anche negativamente esemplari, degli uomini e delle donne brasiliane.
“Vivere è molto pericoloso… perché imparare a vivere è il vivere stesso” scrisse João Guimarães Rosa, medico e diplomatico di Minas Gerais, che è probabilmente il più completo e innovativo scrittore brasiliano del Ventesimo secolo. In “Grande Sertão: Veredas”, un romanzo monumentale, ha inventato una specie di lingua propria, ha ricreato la lingua portoghese per poter sviluppare la sua opera appieno, carica di storie allo stesso tempo fantastiche e sagge. Una visione dell’uomo in situazioni limiti, la vita e la morte in un dialogo costante e infinito. E è suo il più bel racconto sulla pazzia, sul crollo improvviso della lucidità, che ho mai letto. Si chiama “La terza sponda del fiume”, e il titolo è una metafora trascendente della follia stessa.
Da una sua raccolta di racconti, chiamata “Sagarana”, ho preso il nome della mia Scuola di Scrittura e della rivista letteraria di cui sono il direttore. Tanto si parla oggi del realismo fantastico, o “realismo magico” latino-americano, quello per intenderci di Garcia Márquez e de Julio Cortázar. Ma ciò che raramente si ricorda è che le prime opere che rispecchiarono e ispirarono questo genere sono state le opere di Guimarães Rosa, dove il sopranaturale è sempre presente e mischiato in modo indistinto alla realtà, dove il “jagunço”, il guerriero contadino del sertão, incontra il diavolo in persona sul ciglio della strada e con lui intraprende una singolare contrattazione. Nessun’altro scrittore ha mai offerto alla sua letteratura, come ha fatto Rosa, un mondo a parte, integro, completo, quasi un’altra letteratura a sé stante, così tanto ricca e sconfinata.
E ora facciamo un ultimo salto nel tempo, avanti questa volta, andiamo al Brasile del regime che ha preceduto l’attuale democrazia, agli anni bui della dittatura militare, gli anni ’70, quando i libri erano letti e censurati da ottusi ufficiali dell’Esercito che fungevano da censori all’interno delle case editrici. Era proibita nel paese la circolazione di opere come quelle di Ferreira Gullar, José Louzeiro, Rubem Fonseca o Loyola Brandão, l’autore del romanzo “Zero” che è dovuto uscire prima nella traduzione italiana per, solo anni più tardi, avere una prima edizione brasiliana. Libri che erano proscritti e messi al bando in indici compilati nelle caserme. Era il tempo in cui riviste come Realidade, Cadernos de Civilização Brasileira o il settimanale O Pasquim, dove scrivevo allora, erano ritirati in fretta dalle edicole la mattina presto da zelanti sergenti e caporali. Il periodo in cui i giovanissimi poeti “sovversivi” stampavano le loro poesie in ciclostili clandestini e le vendevano o regalavano nei locali notturni e nelle università, rischiando la prigione per un verso o una strofa poco “rispettosa” dei galloni e della divisa verde-oliva. In quel periodo, amici miei italiani, è stata la letteratura brasiliana, l’arte di quegli scrittori scapestrati e trasgressivi, con opere spesso oscure, inedite o dimenticate, ma sempre incredibilmente coraggiose, a far tornare nell’immaginario della gente intorpidita, impaurita dal dispotismo, l’idea della possibilità del suo superamento.
Proust diceva che “si entra in letteratura come si entra in religione”, ma a volte il contenuto sacro e irresistibile della letteratura è proprio la partecipazione molto laica e concreta alla verità del mondo. E ispirati da questa sete di verità gli scrittori brasiliani del “boom letterario”, avvenuto durante e in opposizione alla tirannia, hanno saputo presentarsi come la riserva etica e la coscienza critica che ci voleva, nel momento più drammatico. E a me è capitato proprio di scrivere i miei primi libri in mezzo a quel turbinio.
Siamo gli autori della storia letteraria che ha tessuto, poesia dopo poesia, racconto dopo racconto, la trama della libertà, e alla fine siamo riusciti a ripristinare la vera identità del paese e abbiamo saputo restituire il Brasile a sé stesso.
Oggi, coordinando a Roma questo seminario, invito ognuno di voi a conoscere o a rivisitare questa letteratura, questo universo inesauribile di storie. Con questo invito, non posso non sentire il giusto orgoglio di proporre al vostro sguardo il Brasile nel suo meglio. E ringrazio tutti per l’interesse, che sono sicuro sarà largamente ricompensato. Julio Monteiro Martins , (Niterói, 1955), scrittore di origine brasiliana, ha pubblicato in Italia Racconti italiani, La passione del vuoto, Madrelingua e L’amore scritto, tutti usciti per Besa editrice. Insegna all’Universitŕ di Pisa ed č il direttore della rivista “Sagarana”. Altre informazioni: http://www.sagarana.net/speciale/index.html
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