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Sagarana FADUL ABDALLA


Brano tratto dal romanzo Tocaia Grande


Jorge Amado


FADUL ABDALLA



 

Le piante di papaia spuntate sulle tombe del cimitero im­provvisato stavano dando i primi frutti, quando Fadul Abdal­la, avendo perso la strada, scoprì quella meraviglia di posto. Libanese di statura gigantesca, la persona tutta smisurata — dalle mani e i piedi enormi, al contrattone del petto e al testone — si era guadagnato nei cabaré di Ilhéus e Itabuna il sopran­nome di Gran Turco; ma sui sentieri del cacao era conosciuto come Turco Fadul, o più semplicemente sor Fadu, secondo la versione dei braccianti che in lui vedevano la provvidenza di­vina. Abbagliato da quella vista, pensò di essere arrivato nella valle dell'Eden, di cui si parla nel libro sacro che portava con sé nella sua valigetta di venditore ambulante visto che, in casi di occasione propizia e necessità, il sor Fadu battezzava i pargoli a prezzo di liquidazione.
Mise giù la valigia pesante, più pesante ogni giorno, il metro piegato in due di cui si serviva come segnale sonoro per annun­ziare a ricchi e poveri la presenza del commercio e della moda in quelle piaghe dimenticate. Dentro la valigia aveva di tutto, il necessario e il superfluo: tessuti, sete e cotonine, cambrí, stivaletti, borsellini, fili aghi e ditali, nastri e trine, saponette, spec­chietti, profumi, tisane, stampe a colori di santi e reliquie effi­caci contro le febbri.
Si tolse la giacca e la camicia, i pantaloni e le mutande — sulla schiena i segni lasciati dalle cinghie della valigia, il callo sulle spalle — si tolse anche i sandali, si buttò nel fiume che in quel punto si allargava in un bacino di acque limpide, che formavano una cascatella sulle pietre nere. Nuotò, si divertì a spruzzare l'acqua come faceva da ragazzino quando si bagnava nel torrente del villaggio natio. Trovò qualche somiglianza fra i due luoghi, solo che le palme che crescevano là, sulla collina e nella vallata, non erano palme da datteri. Saziò la sua fame, papaie profumate e dolci, frutti del paradiso, dono di Dio, del Dio dei maroniti.
Cajá maturi erano sparpagliati al suolo sotto l'albero alla cui ombra si riparò dal sole. Raccolse i frutti ridendo di sé stesso, un omaccione così, completamente nudo; si ricordò ra­gazzino, vestito di un djellabah, a raccogliere i datteri: già allora un grandiglione piuttosto goffo. Stavano per terminare quindici anni dalla data della sua partenza. Sapore acidulo e selvatico dei cajá, così diverso dal gusto soave e morbido dei datteri, frutti ambedue creati dal buon Dio per il piacere degli uomini.
Fadul aveva imparato a credere e fidare in Dio da suo zio, Said Abdalla, un sacerdote maronita di senno e appetito cele­bri. Da lontano venivano a consultarlo, portandogli datteri e uva che lui trangugiava a manate mentre risolveva controver­sie e prediceva il volume dei raccolti; il miele dei frutti gli scorreva per la lunga barba nera.
Era molto cambiato in quei quindici anni, lo zio non l'a­vrebbe riconosciuto, constatò Fadul assaporando i cajá uno a uno; era cambiato di fuori e di dentro, preferisce i cajá ai datteri, e dell'uva non sente la mancanza, gli bastano i frutti di jaca, preferibilmente ben maturi. Era nato a nuova vita in quelle intricate boscaglie, il ragazzino vestito di un djellabah era rimasto per sempre dall'altro lato del mare.
Dio ha ripartito la vita degli uomini fra il dovere e il piacere, il pianto e il riso. Il piacere immenso di trovarsi là a succhiare cajá nella brezza del tardo pomeriggio, ascoltando il canto degli uccelli, vedendoli volare, gioie dello scrigno del Signore. Riposando del duro lavoro delle ultime settimane, del cammi­nare senza fine, dei pericoli di ogni istante, un venditore ambulante non conosce domeniche né giorni festivi. Dio gli aveva fatto perdere l'orientamento perché potesse avere un giorno di riposo, calma per il corpo e per lo spirito.
Perché non restare lì per sempre, in quella vallata idilliaca, allo stesso modo degli animali che si scaldavano al sole, allun­gati sui sassi, lucertoloni e teiú — aveva imparato dai brac­cianti a mangiare la carne del teiú e ad assaporarla leccandosi i baffi e le dita. C'era cibo in abbondanza, gran quantità di cacciagione e frutta, jacas profumate, l'acqua pura scendeva dalla sorgiva, il paradiso. Fadul Abdalla si abbandonò a una grossa risata fragorosa, proporzionata alla sua taglia, spaven­tando pappagalli e lucertoloni: in quel paradiso mancava la cosa principale che era la donna.
Pensando a una donna gli venne in mente Zezinha do Butiá, che a quell'ora gli stava mettendo le corna a Itabuna. D'altra parte non poteva pretendere che chiudesse a lucchetto la topa — un abisso! — solo perché lui, in un raptus di follia, le aveva mollato due biglietti da dieci cruzeiros e uno specchio con cornice, acciocché vi si potesse mirare, sospirosa. Sospirosa? Quella gli rideva in faccia:
«Turco d'una figa, magna-cipolla-cruda!».
«Turco, no, morditi la lingua. Gran Turco, mia odalisca, tuo signore e tuo schiavo...», gli piacevano le frasi galanti, peccato che la pronuncia non l'aiutasse.
 
 
Tanto gli piacque il posto che ci pernottò. Raccolse alcuni rametti, fece un fuoco per tener lontani i serpenti, si mise le mutande e la camicia, si sdraiò sulle foglie secche. Tardò ad addormentarsi, riflettendo. Sulla riva del fiume, annunziando il sorgere della luna, il rospo-cururu gracidò.
Arrivato in Brasile quindici anni prima, Fadul era venuto per lavorare ed arricchirsi. Arricchirsi è la meta di tutti gli uomini, a tale scopo Dio li ha forniti di anima e d'intelligenza.
Alcuni compiono a puntino gli ordini del Signore, guadagnano denaro e fanno carriera, altri non ce la fanno: spirito ristretto, intelligenza corta o semplicemente scarsa disposizione per il lavoro, pigrizia, poltroneria. Aveva un esempio sottomano, al tavolo di poker dell'Hotel Coelho a Ilhéus: animo intrepido, audace, un'aquila per l'intelligenza, Alvaro Faria, se avesse voluto, avrebbe potuto essere un colonnello, come suo fratello, padrone di edifici e aziende, milionario. Invece non era che un girellone, un vagabondo senz'arte né pane, che viveva come viene viene. Non fossero state la buona tavola del fratello João, la fortuna al gioco, motivo costante di dubbi e sospetti, e l'abili­tà con cui concepiva e metteva in atto bricconate, avrebbe fatto la fame.
Fino a quel momento Fadul non aveva fatto che lavorare con l'energia disperata di una bestia da soma, affrontando ogni rischio: i serpenti, le febbri, le minacce dei criminali, assassini a sangue freddo. In quel commercio ambulante, la pistola dono del capitano Natário, era altrettanto importante della valigia piena di cianfrusaglie.
Ancora non si era arricchito, lungi di là. Neppure si era sta­bilito da qualche parte, come aveva deciso di fare, aprendo un negozio in uno qualunque dei villaggi che spuntavano al segui­to delle piantagioni di cacao, ai crocicchi delle aziende, sulle orme del bestiame e dei mandriani. Ciò malgrado non si pote­va lamentare: stava mettendo insieme qualche economia. Spe­cialmente da quando aveva cominciato a prestare a interesse.
Si moltiplicavano le stelle nella lontananza infinita del cielo. Fuad Karan, che a Itabuna leggeva libri in arabo e in portoghe­se, cittadino illuminato, più istruito di mezza dozzina d'avvo­cati — creatore del nomignolo di Gran Turco che aveva inven­tato nel vedere Fadul circondato dalle ragazze del cabarè — gli aveva assicurato che non erano quelle stesse stelle che vedeva che brillavano nei cieli dell'Oriente dov'erano nati. Il Gran Turco non ne dubita, ma non riesce a cogliere la differenza: le stelle si somigliano tutte, belle e lontanissime gemme, bastereb­be una di esse per far la fortuna di un figlio di Dio. Quanto alla luna, che si specchia nelle acque del fiume, è la stessa, qua e laggiù: una medaglia d'oro opaco, grossa e gialla, con stampato San Giorgio sul suo cavallo, occupato con la faccenda del dra­go. L'Oriente di cui parlava Fuad, la terra natia, si era perduto nella distanza, per ritrovarlo sarebbe stato necessario attraver­sare il mare, da lato a lato, nel ventre delle navi. Altre sono le stelle, la frutta anche, non ne sente la mancanza: preferisce i cajá ai datteri, e per le stelle è ben servito.
Distante e dimenticata, la terra natia. Fadul Abdalla, il Gran Turco delle puttane, il Turco Fadul delle case padronali, il sor Fadu dei miseri tuguri, sa che è venuto per restare, non ha portato con sé il biglietto di ritorno. Sul vapore di emigranti ha pianto tutte le sue lacrime, non glien'è rimasta nessuna. Non ha cambiato solo paese e paesaggio, ha cambiato patria. Libanese di nascita e di sangue, lo chiamano turco per ignoranza; se sapesse vedere e constatare, proclamerebbe ai quattro venti la sua qualità di grapiúna.
La patria di un cittadino è dove lui suda, piange e ride, dove pena per guadagnarsi la vita e costruirsi una bottega e una casa dove abitare. Solo con la notte e le stelle, in quel luogo di riposo sconosciuto dove l'ha condotto la mano di Dio, Fadul Abdalla riconosce e adotta la nuova patria. In essa non ha visto la luce, né vi è stato battezzato. Piccolezze, trascurabili dettagli: più importante che la culla è la tomba, e la sua sarà scavata in terra da cacao. Non una fossa poco profonda come quelle del cimite­ro creato lì — da chi, quando e perché? Ah! Sarà una tomba da lord, in marmo, con il qui-giace in lettere dorate. In questi quindici anni il ragazzotto orientale, nel farsi uomo, s'è fatto brasiliano.
Tant'è vero che si è già messo d'accordo con Ubaldo Madu­reira — scrivano del servizio anagrafico e complice di imbrogli — sul prezzo dei documenti, con la riduzione. Brasiliano con tanto di documenti, commerciante con negozio proprio, sposa­to e padre di figli, gli affari in espansione, il denaro chiama denaro: tutto ciò in un tempo molto breve, a Dio piacendo. Obbedirà al suo destino come gli aveva ordinato di fare padre Said nel dargli la sua benedizione, al momento triste e felice degli addii, quando riso e pianto si erano mescolati.
«Vai a compiere la volontà di Dio, Fadul, figlio della mia defunta sorella Marama, vai a guadagnar denaro in Brasile, che qui è difficile e non ti posso più mantenere. Vai ad arricchirti, l'uomo ricco è rispettato dai suoi simili e prediletto da Dio».
Tracciò nell'aria il segno della croce, gli dette la mano da baciare. Appoggiato al suo bastone da pastore l'adolescente discese la montagna, iniziò il lungo viaggio. Il Dio dei maroniti è lo stesso, là e qui. (…)




Brano tratto dal romanzo Tocaia Grande, La faccia oscura, Garzanti editrice, Milano, 1985. Traduzione di Elena Grechi.




Jorge Amado
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