PALMINA CHIARAMONTE Gesualdo Bufalino
Palma di Montechiaro, una volta nella vita bisogna andarci. Non bastano gli occhi e gli orecchi degli altri se si vuole veramente capire, al di là dei luoghi comuni più pittoreschi (poiché esiste anche il luogo comune della compassione e dell'ira), quanto le ferite del Sud siano dovute all'inimicizia del cielo, quanto alla forza dei potenti, quanto alla docilità e ignavia delle vittime stesse.
Ci si vada, dunque, e con premeditazione: rifiutando al momento giusto l'invito dello svincolo anulare che sfiora il paese e lo scansa. Sarà un malizioso sospetto, ma come non dubitare che la strada nuova abbia inteso negarci l'esperienza dell'attraversamento e disporre attorno ai ventimila invisibili che qui vivono una benda di ipocrita asfalto? Una benda che è anche un cordone sanitario. Se uno non lo forza, se uno non ci va apposta, Palma non esiste più, l'Italia se n'è lavata le mani.
La prima vista, in verità, è una visione. Si esita a credere che si tratti di un paese reale. Sorge su crinali e strapiombi d'un colore livido e antico, si capisce subito che sono rocce di prima del diluvio. Sparsa per l'erta e simile a un avamposto di fantaccini scheletrici, una selva di pilastri: smozzicati, inerti, terminati in cima da storti tondini di ferro. Niente muri né porte; niente strade per arrivarci. Le case sui dossi di tufo sembrano ciuffi di ortiche secche cresciute dal vento. Macerie d'una guerra perduta, avanzi d'uno sconquasso tellurico? Qualcuno ci dice di no, non sono case morte ma case neonate; non fatiscenze scampate a un disastro ma abbozzi e feti rimasti a metà. Appartengono agli emigranti, che da lontano le pagano e le lasciano così, finché non trovino i soldi per un altro avanzamento dei lavori, un altro pilastro, un'altra colata di cemento.
Si procede. Alle larve di abitazioni incompiute, che non si sa quando sapranno salvarsi dalle intemperie con un intonaco e un tetto, subentra la città vecchia, nobile di chiese e palazzi (uno è gattopardesco, appartenne ai Lampedusa), ma inchiodata su una graticola di viuzze in terra battuta, scolatoi permanenti e discariche d'acqua piovana. Cos'è cambiato dal 1919, quando una guida del Touring deplorava gl'itinerari polverosi e lutulenti, e una «sfrenatezza di ragazzi verso l'auto che sorpassa ogni limite»? Non molto, temiamo, dal momento che i motori arrancano ancora per i vicoli ripidi e c'incalza un dileggio di bande scapigliate, sebbene il frangente non possa paragonarsi alle probabili violenze di gomme squarciate e sputi sui vetri che indignarono il virtuoso turista in transito del primo dopoguerra. Oggi il visitatore, si senta o no fischiare nelle orecchie le tiritere della cattiva coscienza, incontra una sorte migliore anche se altrettanto difficile. Si cammina per strade di rara frequenza, salvo che nel corso, nella piazzetta centrale. E i passanti tacciono, nemmeno curiosi della faccia nuova. Uno che interrogo per averne un'indicazione mi risponde con cortesia. Poi aggiunge una frase misteriosa e bella, sul cui senso riposto non mi stanco di rimuginare: «Ci l'aiu dittu picchí è forestieru sennò non ci lu dicía» («ho risposto perché lei è un forestiero, altrimenti avrei taciuto»). Ne consegue che indicare la strada a un estraneo può essere cosa lieta e ospitale; mentre a uno del posto non si deve? A uno del posto... ma costui non ha bisogno di chiedere, l'omertà verso di lui (che curiosa omertà, poi, riguardo all'indirizzo di una barbieria!) non avrebbe senso. A meno che... a meno che la richiesta d'informazione non venga da uno che, a guardarlo in faccia, è dei nostri, ma qui non s'è visto mai, arriva da fuori, meglio non fidarsene. Chissà se rispondergli non significhi insegnare a un cacciatore la preda...
Mortificanti pensieri per uno che ha nelle vene lo stesso sangue languido e superbo, diffidente e facinoroso; ma che ha vissuto i suoi giorni sotto stelle più amiche; e si è educato secondo una temperie di libri, colline lievi, marine fino a ieri pulite. Qui veramente si tocca con mano il punto dove si scontrano e s'impennano, come fanno groppo Scilla e Cariddi, le onde dissimili e simili dei nostri destini: di noi-loro, siciliani della sponda ionica; e di loro-noi, della Sicilia più torva, quella della affluent misery, del sasso in bocca, della sete... Non siamo certo migliori, noi al di qua dell'Ippari. Abbiamo solo la fortuna d'avere più acqua, più pozzi, più alberi, terre più morbide. A loro è toccato un suolo calcinato, un cielo che non ha pietà.
Il cielo non ha pietà, ma i palmesi ne hanno. È di pochi mesi fa, la vicenda che mi chiama fra loro, della neonata buttata dalla madre in un immondezzaio e morta di freddo e d'asfissia, nella scatola di cartone dov'era stata impaccata. La scopersero i cani, che raspavano fra i rifiuti. Composta in una bara bianca, i cittadini, dopo averla battezzata, l'accompagnarono in processione, piangendo. Ho sotto gli occhi i manifesti che a cura di un comitato civico furono affissi si dovunque e invitavano al funerale gli stessi anonimi genitori omicidi e gridavano loro dal muro, in caratteri cubitali: «Vergognatevi!».
Esemplare episodio, dove in un bagliore momentaneo si svela quel senso di festa tragica e di passione tribale che in Sicilia si affilia sempre alla morte. Con questo in più: che nel nostro caso il dolente non è un privato, ma la comunità tutta. Tanto che, come si usa tuttora per gli addobbi e le funzioni delle ricorrenze religiose (la Pasqua, il giorno del Santo...) un collegio di pochi eletti, s'è fatto carico del sentimento comune e l'ha programmato, organizzato, divulgato. La città s'è solennemente sostituita alla madre infanticida, appropriandosene le incombenze e gli atti mancati, dal battesimo alla sepoltura, immedesimandosi in questa parte di madre supplente e di protettrice eponima sino ad attribuire alla creaturina offesa il proprio nome e cognome, invertito da Montechiaro in Chiaramonte e addolcito in un vezzeggiativo, Palmina, che voleva avere il valore di una mite e solitaria carezza.
Un gesto d'amore. Ma che non sarebbe letto correttamente, se si dimenticasse il pimento di collera che l'accompagna.
L'invettiva contro i responsabili, in calce alla partecipazione funebre, non esprime infatti soltanto l'ingenuo raptus della città giustiziera, ma denunzia la violazione di un patto, ratifica l'ostracismo a un trasgressore senza volto. Qualcosa di simile alla lettera scarlatta imposta a una madre ben piú innocente (e per altro ben nota) dai parrocchiani di Boston, nel romanzo di Hawthorne... Che se poi si volesse guardare la cosa con occhi più pungenti e chiedersi perché mai, per quale trista sopravvivenza di interdizioni storiche e di miopi paure, una madre irregolare non abbia saputo trovar di meglio, nella colpevole e dannata fragilità dei suoi nervi, che sbarazzarsi al più presto del fagottino di carne viva dove temeva scritta la sua infamia presunta; se si procedesse, per dir tutto, a una doverosa chiamata di correo... ebbene, questo è un discorso diverso, al quale qui basta accennare soltanto.
Festa tragica e passione collettiva, dicevo, questo è la morte in Sicilia. E tuttavia nell'episodio di or ora un altro elemento colpisce, ed è l'orrore remoto dell'insepoltura, il complesso, chiamiamolo così, di Palinuro. «Mihi terram inice» («buttami sopra un po' di terra») implora l'ombra virgiliana del marinaio senza tomba. Non altrimenti, dalle mie parti, il malaugurio più feroce che possa lanciarsi a qualcuno suona «manciatu r'ê cani», e cioè «che ti possano mangiare i cani, da morto». E forse traduco male. Poiché, nella fantasia di chi esecra, l'accidente non viene assunto nella sua prospettiva di auspicio futuro, ma è visto come storia accaduta, già il nemico appare immondo quanto un insepolto. La «mala morte», il non morire nel proprio letto, è per noi disonore: doppio, se non è sanato dalla sepoltura dentro la terra: la terra che è «roba», possesso indivisibile ed eterno del defunto.
Viene in mente una novella pirandelliana, Requiem aeternam dona eis, Domina, di risentita e stralunata ispirazione. Vi si racconta la controversia fra un baronello feudatario e una colonia di contadini che hanno messo radici, illegalmente, sulle sue proprietà e vorrebbero rimanerci anche da morti. Chiedono insomma un luogo per il camposanto. Soprattutto ora che il loro caporione e patriarca versa in fin di vita e chiede di riposare sotto quell'erba familiare, dove s'è già fatta scavare la fossa. Anzi vi si è già accampato a lato, su una seggiola, seduto ad aspettare il sì o il no del giudizio. Arrivano le guardie, invece, e allora i suoi se lo portano via, lasciano in abbandono la cassa d'abete, la papalina caduta, le pantofole di pezza.
Ecco, in questo testo che ha l'agrume crudele dei Pirandello di buon'annata, l'idea fissa dell'inumazione ritorna, e con essa talune fra le più famose tendenze dell'animo siciliano: il fanatismo economico e la fisima giuridica, l'immaginazione espansiva e la drammaturgia del morire. Quest'ultima, specialmente, nel suo solito sposalizio con la pietà. Essendo ricorrente da noi la connivenza fra scena e pena: come se chi soffre si ricordasse continuamente che sta recitando; e chi recita se ne scordasse per piangere lacrime vere. La cultura isolana è fortemente incardinata su due fondamenti, che poi ne fanno uno solo: il mimo, che tende a coniugare nell'effusione gestuale i parossismi della passione; e il rito, che, inalveandoli nella sicurezza di una norma riconosciuta, li depura, li domina, li guarisce. Ora non c'è nulla, nessuna occasione sacra, che uguagli la morte nell'esaltare questa disposizione contemporanea verso la liturgia e la maschera; nessuna che, come la morte, pretenda una reale o immaginaria platea. Così, per tornare a Pirandello, il comportamento del moribondo che si fa portare, gonfio d'idropisia, vicino al pezzetto di terra, anzi di sottoterra, a cui ritiene d'avere diritto, mescola in modi eccessivi ma cattivanti l'affetto della proprietà col gusto dell'esibizione istrionesca, e disegna in mezzo ai campi, sotto l'inevitabile sole, attorno alla lampante unicità della morte, quello spazio posticcio e plurale ch'è il luogo predestinato della convenzione teatrale.
C'è quel passo del Cervantes (le referenze letterarie aiutano talvolta il demologo non meno che le deposizioni orali raccolte «porta a porta») che rappresenta appuntino, se vogliamo volgere la citazione al simbolico, quest'alleanza di morte e ribalta frequente nei Paesi mediterranei: «La carretta era scoperta, senza tende né stuoie. La prima figura che si offri agli occhi di Don Chisciotte fu quella stessa della Morte, ma con un viso normale d'uomo...».
Così avviene l'incontro del cavaliere con una compagnia di comici, sulla strada per Saragozza. Sono attori che tornano dall'aver recitato per l'Ottava del Corpusdomini la Commedia della Morte in un villaggio vicino e conservano addosso il trucco della parte per l'imminente replica in un altro villaggio. Questa sequenza, sommandosi nella fantasia alle immagini d'altri cortei (di viatico, d'accompagnamento), sembra volerci suggerire didascalicamente come non ci sia angolo, quaggiù, da cui non possa sbucare d'un tratto, piena di presenze truccate e serie, la carretta di Tespi della morte. Quaggiù, nel Sud nostro, ma intendo anche in Grecia, in Spagna nel Sud America, dovunque c'è un sangue che ci rassomiglia. Le madri dei «desaparecidos», poniamo, nella piazza di Buenos Aires, non hanno facce nostre, sorelle? E il coro taciturno, il grido «figlio, figlio» che s'indovina sulle loro labbra chiuse, la scansione solenne dei loro gesti, non potrebbero ascoltarsi e vedersi anche in una cavea di Epidauro, in un cortile della Vucciria?
Tutte cose vere, probabilmente, ma valide solo ancora per poco, per i soli uomini della mia generazione, e non più che per loro. Poiché i sentimenti di morte, e il codice di contegni che ne discende, sono in declino dovunque, e quindi anche nel Sud. E inutile nasconderselo, la morte qui sta morendo. Non il fenomeno biologico, naturalmente, ma l'imponente apparato di ideologie che l'ha finora sorretto e che così ampiamente censisce e acutamente ragiona il recente Ponte di San Giacomo (Rizzoli, 1982) di Luigi Lombardi Satriani e Mariano Meligrana. Leggendo il quale, mi chiedevo proprio questo: quanto dovessero essere vecchie le labbra dei testimoni interrogati; quanto già materia d'archeologia e di postuma dottrina le credenze testimoniate. E infatti, se dò credito a quel che sento e vedo dintorno a me, non passerà molto e si morirà qui come altrove, a Comiso come a Stoccolma, nella stessa maniera asettica e censurata. Ormai (parlo del mio paese, ma giurerei che altrettanto avviene in cento altri dell'isola) è caduto in disuso il culto di scortare a piedi il defunto fino al cimitero lontano. Ora basta e avanza il tragitto breve dalla casa alla più vicina parrocchia. E la semiologia del lutto è sempre più esangue, castigata. Gli avvisi che fino a ieri pendevano clamorosi e numerosi da tutti i muri della città e facevano coro annunziando non solo i decessi del giorno, ma gli anniversari, i voti, i suffragi, sono ora umiliati per ordinanza municipale in appositi riquadri e hanno perso (o vanno perdendo) le cornici arricciolate, le gonfie maiuscole dove si declamava l'ininterrotto colloquio fra il morto e i viventi.
Altrettanto per l'abbigliamento. Sono sempre meno frequenti le gramaglie totali, da capo a piedi, delle matriarche; le fasce nere sul braccio degli uomini; i bottoni neri sulla camicia; i nastri neri sui cappelli; le velette tenebrose. Quand'ero ragazzo, mi ricordo, mentre nella stanza buona della casa colpita il morto giaceva ancora nel cataletto fra quattro ceri, in cucina le donne rizzavano un'enorme tinozza piena d'anilina nera per stiparci tutti i panni della famiglia e procedere a una generale operazione di tintoria: omaggio alla Negritudine e alla Pena che d'ora innanzi avrebbero regnato, come nei cuori, dappertutto.
Oggi questo è impensabile che accada né c'è da scandalizzarsene. La civiltà del «caro estinto» tende ormai a ovattare la morte entro una nebbia d'omertà e di rifiuto. Una reticenza, un meccanismo di rimozione difensiva, blocca o attutisce la solidarietà attorno alle bare (meno che nei casi di vistoso ed effimero cordoglio pubblico per gli uccisi eccellenti da mafia o da terrorismo). E i riti della pietà rurale e borghigiana, attraverso i quali i parenti, gli amici, i vicini di casa, cooperavano affettuosamente col morto per aiutarlo a morire, coi sopravvissuti per aiutarli a sopravvivere, vanno svalutandosi o addirittura scompaiono di fronte al prevalere della cultura mortuaria metropolitana. Lo stesso raccapriccio delle agonie, che sembrava l'insostituibile climax dell'evento e si offriva come il cibo da mettere in serbo per le future memorie, si sterilizza e si conforma. Lo spostamento dell'ambito scenico dall'alcova alla corsia, dalla casa alla clinica o all'ospizio, è la controprova topografica di come i peculiari trasporti di una razza resistano male alle tentazioni omologatrici che da tutte le parti li insidiano... È un bene o un male? Chi può dirlo... Certo duole vedere sbiadire sotto un uniforme cerone cosmetico quel patrimonio di venerabili e commoventi modalità, lamentazioni estemporanee, marce funebri, barbe lunghe, specchi velati, lumini accesi dinanzi alle immagini dei defunti, visite commemorative, doni di cibarie ai superstiti... tutto quanto garantiva, insomma, la coreografia, la mimica e l'audio di un consolatorio happening funerario. La morte appariva allora, com'è giusto, un accidente tanto iperbolico quanto naturale, che non si doveva addomesticare col silenzio, bensì attraverso un'esplicita macchina cerimoniale e scenica, comprendente corteggiamenti e duelli di tipo quasi amoroso. Nei Viceré di De Roberto, si ricorderà, Chiara Uzeda di Villardita teneva sotto spirito, in una boccia di vetro, il feto della bambina nata morta. E verso la fine del secolo, quando fra benestanti e letterati si diffuse la voga del fotografare, non fu raro che taluno da vivo si mettesse in posa ad occhi chiusi, come se fosse morto (Luigi Capuana, per esempio, che poi mandò copie della foto agli amici); e che, viceversa, l'obiettivo venisse puntato su un cadavere di persona cara, ad occhi sbarrati, per simulare la vita, nella cassa ancora aperta...
Ecco, questa confidenza di specie quasi ludica pare quasi esser venuta meno. E non solo fra i borghesi, ma nella stessa società contadina, man mano che da contadina si va facendo proprietaria e borghese. La morte da ostensibile e glorioso culmine dell'esistenza tende pian piano, come il morbo che la precede e la provoca, a diventare vergogna.
Ma allora il fatto di Palma, che sembra camminare in senso contrario, come spiegarlo, cosa pensarne? Rappresenta un fossile antropologico o denunzia il persistere di archetipi senza tramonto? E in che misura hanno concorso a nutrirlo quei semi di liturgia e di
teatro di cui si diceva prima? Certo gli elementi del grande apparecchio melotragico vi compaiono tutti: da un lato la torbida storia di un amore colpevole; la gravidanza furtiva e terrorizzata; il delitto notturno... Dall'altro la scoperta fortuita; lo scandalo comunitario; il sacrificio lustrale; la pompa funebre vissuta come debito di ciascuno... Dove abbiamo già ascoltato tutto questo? Strano: due sistemi storici e culturali assai lontani fra loro si affacciano al nostro pensiero, secondo che guardiamo l'antefatto e il postfatto. Poiché nel primo si annusa un odore di sinistro Seicento, di clausure e divieti cattolici, fra sciacquii di bacinelle tiepide e bisbigli di mammane dalle mani insanguinate; mentre la pubblicazione delle esequie e la confisca delle doglianze ad opera della folla-madre ci riporta a un'aria sicana di venticinque secoli or sono, quando un brivido di ferinità arcaico-magiche lambiva ancora i telamoni in piedi nella Valle dei Templi, e l'assolo di Antigone seppellitrice veniva subito ripreso e ululato da un coro di supplici in nero.
Singolare sincretismo. Che ci può indifferentemente portare a vedere nella città abbrunata e trafitta una Mater Dolorosa da Venerdì Santo, curva sulla sua bambina Gesù; oppure indurci a ricordare Demetra peregrina e piangente alla cerca di Persefone perduta (non per niente il lago di Pergusa è a due passi da Palma...).
Vorrà dire che il sentimento della morte in Sicilia risente insieme dell'uno e dell'altro di questi ceppi ereditari, il recente barocco post-tridentino e la remota mitopoiesi dei padri? Vorrà dire che la società isolana, sotto la vernice dell'uniforme che via via la va escludendo dalla schiera delle società primitive contemporanee, cova ancora una sua intrinseca vocazione e legislazione di morte? Sta di fatto che una vena nera sembra correre per tutto il corpo della nostra storia. E congiunge Gorgia da Leontini («La morte, già la natura l'ha votata, con un voto manifesto a tutti i mortali, il giorno in cui nacquero») a Sgalambro da Lentini (dl senso del mondo è la sua fine»): e ripete in mille sentenziosità popolari una sola e dura condanna («La morte, nemmeno a Cristo perdonò»; «Fra cent'anni tutti senza naso»...); e moltiplica in mille icone di storia e d'invenzione la stessa inerzia d'occhi ciechi e di bocche murate (La Morte a cavallo nell'affresco di Palazzo Sclàfani; e i cappuccini spolpati nella loro cripta; e Salvatore Giuliano nel cortile De Maria a Castelvetrano; e i morti di Sciascia bocconi nelle trazzere...).
Così noi continuiamo ad opporre alle abbaglianti vociferazioni del sole la certezza immemorabile che su ogni cosa trionfa il niente. E che nei nostri occhi, finché non li chiudiamo, sono destinati a combattersi e ad amarsi per sempre la luce e il lutto. (Tratto da La luce e il lutto, Editori Riuniti/Sellerio, Roma, 1990.) Gesualdo Bufalino (1922-1996) esordì come narratore nel 1981 con Diceria dell’untore, imponendosi immediatamente come uno degli scrittori contemporanei più interessanti e originali. Come il romanzo d’esordio, anche le opere successive, spesso in bilico tra realtà e fantasia, sono caratterizzate da una personalissima riflessione sulla memoria e da uno stile ricco e sapiente: Museo d’ombre, Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, Le menzogne della notte e L’uomo invaso.
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