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Sagarana L’UNTO DEL SIGNORE


Carlo Galli


L’UNTO DEL SIGNORE



 

     L’Italia ha un sistema politico bloccato dal 1978, l’anno dell’uccisione di Aldo Moro. Negli anni Ottanta (gli anni del CAF, l’alleanza di potere fra Craxi, Andreotti, Forlani) l’Italia ha mostrato una generale carenza di obiettivi politici, di slancio riformatore, e una crescente decadenza del senso civico, unita al progressivo estinguersi della legittimità costituente repubblicana: l’antifascismo. Nonostante si sia parlato di Grande Riforma, non si è mai chiarito che cosa si intendesse, e ancor meno si è fatto qualcosa. Soltanto due obiettivi sono stati realizzati in pieno, dall’Italia: dotarsi di un sistema di televisioni private, e entrare nel sistema dell’euro; il primo a opera di Berlusconi (grazie al suo alleato Craxi), il secondo del suo avversario Prodi; la grande infrastruttura dell’Alta Velocità ferroviaria (voluta tanto dai governi di destra quanto da quelli di sinistra) è ancora incompiuta, ed è realizzata a spese della sicurezza della rete tradizionale.
     Ogni altra trasformazione è avvenuta nel segno della crisi, della passività, o su iniziativa di soggetti non politici, a partire dall’inchiesta giudiziaria Mani Pulite che pose fine ai partiti della Prima Repubblica; non c’è stata nessuna riforma istituzionale (il federalismo fiscale approvato qualche mese fa per accontentare Bossi è una scatola vuota), si sono avute due riforme elettorali contraddittorie – benché la legge attualmente in vigore sia stata definita dal suo autore, il leghista Calderoli, una ‘porcata’, al referendum che ne voleva abrogare alcuni tratti è stato fatto mancare il quorum da Berlusconi, ricattato da Bossi –, e il sistema politico è stato solo apparentemente semplificato: il Pd (centrosinistra) è ancora privo di anima, il Pdl (destra) esiste solo come partito di Berlusconi, mentre crescono forze plebee e populiste come la Lega e l’Italia dei Valori.
     Dagli anni Ottanta è quindi venuto meno il ruolo regolatore della politica e del diritto, ed è cresciuto il peso delle esigenze dell’economia; ma di un’economia che solo ideologicamente è definibile ‘liberista’, mentre nella sostanza è invece un’economia neocorporativa sregolata. L’Italia è infatti un Paese frammentato in gruppi di interessi, dai più potenti ai più miserabili, tutti in guerra gli uni contro gli altri, e tutti dimentichi di ogni quadro comune di legalità, per non parlare di uno spirito civico generale. La società italiana è una giungla (chiazzata da qualche radura più ospitale) in cui non agiscono pienamente né le logiche del mercato né quello dello Stato, ma quelle del privilegio, dell’appartenenza, del risentimento e della paura. E’ non a caso è l’insicurezza il tratto caratterizzante di questo ‘stato di natura’: l’insicurezza dei giovani che non trovano lavoro se non precario; l’insicurezza dei lavoratori che sono a rischio licenziamento; l’insicurezza degli artigiani, dei commercianti e dei piccoli imprenditori che vedono contrarsi il volume delle loro attività e che sanno di non ricevere dallo Stato servizi adeguati; l’insicurezza dei risparmiatori, colpiti da numerose catastrofi finanziarie (tuttora impunite, come il caso Parmalat) ancora prima della crisi del 2008; l’insicurezza dei cittadini davanti al degrado urbano e all’aumento del potere delle mafie, oltre che all’incremento dei reati di particolare allarme sociale come furti, rapine, stupri.
     L’insicurezza, soprattutto, deriva dall’affievolirsi della percezione della necessità delle norme per la civile convivenza; gli italiani intuiscono che la crisi della legalità li penalizza tutti, ma ciascuno preferisce essere un free rider, provare a cavarsela fra le maglie della legge, senza fare mai il primo passo per il ripristino di un agire collettivo rispettoso delle regole. L’aumento della corruzione sia privata sia nella Pubblica amministrazione – denunciato dalla Corte dei Conti nel giugno di quest’anno, e noto anche a Transparency International, che colloca l’Italia in posizioni mortificanti nella graduatoria globale della corruzione, reale e percepita – è la conseguenza di questa logica del ‘particolare’ o del ‘familismo amorale’ che è ormai la norma dell’agire in Italia: lo spazio pubblico della legalità, della trasparenza e della universalità, è sempre più eroso e sempre più si trasforma in un agglomerato di interessi privati, di particolarità, di diverso peso e influenza, in lotta o in precario compromesso fra loro. Non solo nel Meridione la società si struttura sempre più non secondo la legge ma secondo dipendenze personali, secondo clientele: anziché in termini di doveri e di diritti, si preferisce agire in termini di astuzia, di favoritismi. Alla crisi economica, sociale, politica si aggiunge anche la crisi morale, lo sperpero del capitale sociale della fiducia.
 
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     Berlusconi non è un fulmine a ciel sereno nel cielo limpido della storia d’Italia, un Ufo piombato nel bel mezzo di una democrazia funzionante e di un mercato trasparente ed efficiente. È invece la sintesi e la garanzia di perpetuazione di tutto ciò, e in parte ne è anche la causa. La sua avventura di potere è stata resa possibile da tutte le crisi che abbiamo nominato, e, naturalmente, anche dalla crisi della sinistra, che da tutte è stata investita in modo radicale e distruttivo. I suoi ceti sociali di riferimento sono scomparsi o si sono indeboliti, oppure sono disorientati e spesso si sono rivolti alla destra; la sua prospettiva politica, legata al mondo di fabbrica e allo Stato sociale, è poco credibile; inoltre, la crisi generale della politica nei suoi assetti categoriali moderni colpisce in particolare la sinistra, la sua idea che la politica abbia un forte rapporto con la cultura, e che debba essere il quadro teorico e pratico che dà forma alla società e che esprime i diritti individuali e collettivi. Danneggiata anche da incertezze e contraddizioni quando era al governo, la sinistra si è alleata con una parte minoritaria dei cattolici e costituisce con essi il polo politico degli intellettuali (sempre meno), dei dipendenti pubblici, dei pensionati; la sua forza resta egemone (con difficoltà) solo in alcune regioni dell’Italia centrale, mentre altrove è un sistema di clientele come la destra.
     È stato quindi Berlusconi, e non la sinistra, a intercettare la ‘ribellione delle masse’ che ha generato e accompagnato la fine del sistema dei partiti della Prima repubblica e della legalità costituzionale, a mettere a frutto la rivolta contro la politica, contro la cultura, contro le élites che attraversa l’Italia dagli anni Novanta in poi, a servirsi – a scopi politici – dell’antipolitica degli italiani.
      La sua forza politica consiste in un populismo plebiscitario che si nutre di potenza mediatica, di autentico carisma personale, e di un patto politico con gli italiani, fondato su idiosincrasie, interessi, paure, passioni. Berlusconi offre infatti ai suoi elettori una retorica e una cultura politica ciniche (i valori che a parole propugna, e che non pratica, sono credenze tradizionali anti-intellettualistiche e piccolo-borghesi) e anti-istituzionali: la sua polemica contro il parlamento, nel quale pure ha la maggioranza, oltre che contro la magistratura per difendersi dalla quale ha voluto una legge che gli garantisce l’immunità giudiziaria personale, e la sua interpretazione muscolare e decisionistica del premierato, mostrano che non gradisce limiti al proprio potere. Questo è per lui l’espressione diretta del favore popolare, un’investitura che colloca l’Unto del Signore (com’egli si definì) al di sopra delle leggi e delle istituzioni. Per lui, la rappresentanza non è razionale-parlamentare ma una rappresentazione simbolica, personale, plebiscitaria, grazie alla quale un popolo trova la propria identità nel corpo mistico del Capo, e lo ama perché lo capisce e ne trae sicurezza, almeno quanto odia (e viene indotto a odiare) i ‘comunisti’, termine col quale la retorica di destra indica i critici e chiunque non sia allineato col sistema di valori della maggioranza.
      Una politica autoritaria e carismatica che è naturalmente estranea all’antifascismo (nel primo governo Berlusconi, nel 1994, non era rappresentato alcun partito storico del CLN antifascista) e alla democrazia liberale, come dimostrano i reiterati attacchi alla libertà di stampa e alla libera informazione televisiva, l’abbandono di ogni nozione di laicità della politica (i privilegi economici a favore della Chiesa, l’ossequio plateale alle direttive della gerarchia sulle tematiche bioetiche e biopolitiche), la mancanza di scrupoli nell’alimentare xenofobie e paure sociali (si pensi alle recenti parole su Milano che ‘sembra una città africana’). Una politica che vede il passaggio dal potere dei partiti al potere delle persone (di una persona), e soprattutto dall’arco costituzionale (che fondava la legittimità dell’intero corpo politico della repubblica sull’esclusione originaria del fascismo) a una politica di spaccatura verticale del Paese fra due blocchi contrapposti fino nelle antropologie.
        La costante riproposizione della logica amico/nemico (per Berlusconi – dichiarazione del 30 giugno – la sinistra è ‘nemica dell’Italia’) serve a produrre unità simbolica (un’unità raggiunta attraverso il conflitto interno) in un Paese che nella realtà economica e sociale viene deliberatamente fatto rimanere frammentato e disuguale. Più che ‘l’uomo del fare’ – com’egli si definisce, per contrapporsi ai politici di professione, che non andrebbero al di là delle parole – Berlusconi è l’uomo del ‘lasciar fare’. Ma non nel senso del proto-liberalismo di Guizot; il suo è piuttosto un ‘lasciar fare’ corporativo, che consente a ciascuno (a ciascun gruppo di potere o di interessi) di tenersi i privilegi che ha e di cercare di estenderli a spese degli altri più deboli, e anche del fisco (la lotta all’evasione ha perso mordente e efficacia), e in generale della dimensione collettiva della convivenza. Il primo a beneficiarne è naturalmente lui, Berlusconi, il cui irrisolto conflitto d’interessi fa ormai, per gli italiani, parte naturale del panorama domestico, e passa inosservato; anzi, la posizione anomala del Capo è la garanzia dell’impunità anche per tutti i normali cittadini e per le loro piccole o grandi anomalie. La legge universale della Repubblica italiana è l’anomalia, che ha la propria icona in Berlusconi: nel saturare la scena pubblica con logiche e con pratiche private sta la forza della sua posizione politica, la ragione del consenso di cui gode (ad eccezione del lavoro dipendente, soprattutto pubblico, contro cui– ultimo capro espiatorio – si esercita il controllo di legalità e di efficienza del ministro Brunetta, che ha dato voce ai risentimenti della maggioranza degli italiani contro la Pubblica Amministrazione, senza peraltro migliorarne le prestazioni).
      Sia chiaro: non sono solo i ricchi e i potenti l’elettorato di Berlusconi; anche i ceti medi, impiegatizi e operai lo votano perché, disillusi dalle politiche di sicurezza collettiva delle sinistre (dello Stato sociale, ma anche del principio di legalità), preferiscono affidarsi alle speranze e alle illusioni (e ai rancori) che la destra alimenta. Perché sperano che Berlusconi consenta loro di cavarsela, magari con l’aiuto, tradizionale, della mano pubblica. Al contrario, tra le parole di Berlusconi e le sue azioni c’è un abisso più grande di quello che di solito si riscontra nei più spregiudicati politici di professione; anche senza rivangare il fallimento della promessa elettorale ‘meno tasse per tutti’, è facile constatare che le politiche reali di Berlusconi sono rivolte contro gli interessi dei ceti più deboli: basti pensare alla sorte a cui sono andate soggette le misure anti-trust e a favore della concorrenza di mercato (che, tra l’altro, introducevano, pur con grande prudenza, la possibilità di qualcosa di simile alla class action) avanzate dell’ultimo governo Prodi, vanificate da un’incredibile quantità di modifiche tutte rivolte a favorire le grandi compagnie. Oppure al saccheggio del territorio e del paesaggio realizzato attraverso pubblici appalti e regolamenti compiacenti dai soliti signori del cemento.
    Insomma, com’è ovvio, la corsa all’interesse immediato, a breve termine, premia i più forti: gli italiani si credono furbi sono in realtà ingannati (e si auto-ingannano); sono cinici e illusi allo stesso tempo. Si affidano a Berlusconi per non crescere, per rimanere prigionieri dei vizi e delle pigrizie di sempre. E non vogliono sapere che la pretesa di rimanere bambini – di non fare i conti con la realtà – è perdente.
    Se Berlusconi è un mago che disincanta e incanta al contempo, non è per nulla colui che opera, in un Paese arretrato e riluttante, una modernizzazione autoritaria, neppure indiretta. Invece di agire come la vecchia Democrazia cristiana – della quale ha ereditato solo l’elettorato ma non la politica, se non quella andreottiana degli anni Ottanta – che prendeva voti a destra e li riciclava al centrosinistra, perseguendo un’idea di sviluppo democratico, Berlusconi chiede voti alla pancia del Paese, e se ne serve per lasciare l’Italia com’è, e per affermare il proprio potere.
 
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     Può darsi che gli italiani si sveglino dall’incantesimo berlusconiano – che rompano il patto con lui – quando si accorgeranno che la politica del non far nulla è rovinosa, e che non basta non voler vedere la crisi (come sta facendo la destra in Italia) per superarla. Ma intanto, nonostante nel giugno di quest’anno abbia conosciuto – per motivi solo indirettamente politici – la sua crisi più grave, che avrebbe distrutto ogni altro uomo politico occidentale pare, gli italiani, sia pure un po’ meno che nel recente passato, continuano a manifestargli fiducia nei sondaggi e nelle elezioni, come se la vera essenza della politica di Berlusconi, la sua funzione pubblica, restasse intatta.
      E quindi si deve porre la domanda: proprio perché Berlusconi è così adatto agli italiani – tanto che se non è l’autobiografia della nazione, è certo definibile il diario e il sogno degli ultimi trent’anni – quando egli prima o poi uscirà di scena come potrà ritornare alla politica un Paese che da molti anni non la sta più facendo? Come farà, insomma, l’Italia a cessare di non voler diventare adulta, quando il suo popolo, ma anche le sue élites, si prenderanno le proprie responsabilità?




Carlo Galli
Carlo Galli è professore ordinario di Storia delle dottrine politiche presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Bologna. Laureato in Filosofia presso l'Università di Bologna nel 1972, assistente ordinario di Storia delle dottrine politiche dal 1978, dal 1983 al 1999 è stato professore associato di Storia del pensiero politico contemporaneo presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Bologna, afferendo al Dipartimento di Politica, Istituzioni, Storia. Quindi, è stato professore di Storia delle dottrine politiche e Preside della Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Bologna – sede di Forlì, fino al 2003. Dal 2004 insegna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Bologna, e afferisce al Dipartimento di Discipline storiche. I suoi interessi di ricerca riguardano in particolare la storia del pensiero politico moderno e contemporaneo; ha pubblicato volumi e saggi sulla Scuola di Francoforte, sui pensatori controrivoluzionari francesi, su Machiavelli, Hobbes, Weber, Arendt, Strauss, Voegelin, Löwith, Jünger, Schmitt, Vitoria (degli ultimi tre autori ha anche tradotto diversi testi). Inoltre ha pubblicato saggi e partecipato a diversi progetti di ricerca dedicati ad alcuni dei principali concetti della teoria politica, quali autorità, rappresentanza, tecnica, Stato, guerra, etica, natura, politica, totalitarismo, modernità, cittadino/straniero, nichilismo, male, spazio, globalizzazione, multiculturalismo. Attualmente sta lavorando alla preparazione di libri, antologie e edizioni critiche dedicati alle relazioni fra guerra e politica analizzate da un punto di vista sia teoretico, sia storico, sia pratico. Ha partecipato e organizzato numerosi convegni e seminari nell'ambito di incontri nazionali e internazionali. E' stato responsabile nazionale e locale (per Bologna) di diversi PRIN, ed è titolare di un progetto di ricerca strategico presso l'Università di Bologna. Dal 2006 è presidente del Comitato Internazionale di Bologna per la Cartografia e l'Analisi del Mondo Contemporaneo, istituito fra il Dipartimento di Discipline storiche e “Le Monde Diplomatique”. Dal 2003 al 2009 è stato membro del Comitato direttivo del Sistema Bibliotecario d'Ateneo. Dal 2003 è membro dell'Osservatorio della Ricerca dell'Università di Bologna. E' membro del Collegio dei docenti dei dottorati “Filosofie della comunità e ontologia del presente” dell'Istituto Italiano di Scienze Umane (SUM), “Europa e Americhe: Costituzioni, Dottrine e Istituzioni Politiche” del Dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia dell'Università di Bologna, Storia e Geografia d'Europa del Dipartimento di Discipline Storiche dell'Università di Bologna. Dal 1985 al 1990 è stato membro della redazione della rivista “il Mulino”; dal 2006 al 2008 è stato membro della direzione. Nel 1987, insieme a Nicola Matteucci, Roberto Esposito e Giuseppe Duso, ha fondato la rivista “Filosofia politica” (Bologna, Il Mulino), di cui è stato vice-direttore; dal 2005 ne è direttore responsabile. Nel 1986 ha contribuito alla fondazione del “Centro per la Ricerca sul Lessico Politico Europeo” e nel 2000 del “Centro Interuniversitario per la Ricerca sul Lessico Politico e Giuridico Europeo”, di cui è vice-presidente. E' ideatore nonché direttore delle seguenti collane editoriali: “Libertà nella storia” per l'editore La Rosa (dal 1994), “Lessico della politica” (dal 1999) e “L'identità europea” (dal 2004) entrambe per Il Mulino. Presso questa casa editrice ha ideato e dirige la collana “I 7 vizi capitali”; inoltre, con Alberto De Bernardi ha ideato e dirige la Collana “XX secolo”. Con Roberto Esposito ha curato l'Enciclopedia del pensiero politico (Roma-Bari, Laterza, 2000, 2005 nuova edizione) e, ancora per Laterza, dal 2001 dirige la serie “Comunità e libertà”. Dal 1993, infine, è condirettore della collana “Per la storia della filosofia politica” (Milano, FrancoAngeli). Dal 2006 è presidente del Consiglio editoriale della casa editrice Il Mulino, e membro del Comitato direttivo dell'Associazione Il Mulino, della quale è vice-presidente; dal 2008 è presidente della classe di Scienze Morali dell'Accademia delle Scienze di Bologna. E' Presidente della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna. Collabora con diversi periodici culturali e politici. E' stato editorialista politico per “Il Messaggero”, per “Il Secolo XIX” e per la “Gazzetta del Mezzogiorno”; attualmente lo è di “Libertà”, del “Gr3” e di "la Repubblica". E' membro delle seguenti associazioni scientifiche: - Deutsche Gesellschaft zur Erforschung des politischen Denkens - Accademia delle Scienze di Bologna (Presidente della classe di Scienze Morali) - Associazione di Politica e Cultura “Il Mulino” (membro del Comitato direttivo) - Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente - Associazione italiana storici delle dottrine politiche (membro del Comitato direttivo) - Associazione Anna Maria Battista per lo studio del pensiero politico moderno e contemporaneo - Centro Interuniversitario di Storia del Pensiero e delle Istituzioni Rappresentative - Centro interdipartimentale di studi sull'Ebraismo e il Cristianesimo – Bologna - Centro interdipartimentale di ricerca sull'Utopia – Bologna - Centro Interuniversitario per la ricerca sul Lessico politico e giuridico europeo (Vicepresidente) - Centro di Studi sulla storia e il pensiero politico del Novecento (membro del Comitato direttivo) - Comitato Internazionale di Bologna per la Cartografia e l'Analisi del Mondo Contemporaneo (Presidente)




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