IL CANTO DI WARSAN Poesia africana al femminile. Un’intervista con Warsan Shire Maria Salluzzo
A poco più di venti anni, gira il mondo dando voce con i suoi testi e le sue performance ai diseredati e agli incompresi. Nei suoi versi si ritrovano echi della lunga ricerca di asilo, della guerra, l’attraversamento dei confini, la perdita, la follia.
“Scrivo perché altrimenti non saprei cos’altro fare con le mani. Ma se ci penso bene, scrivo perché la condizione umana non è semplice, e a volte neppure bella. E il più delle volte non la vogliamo neppure guardare…”.
Ho conosciuto Warsan alla libreria Griot di Roma, durante la presentazione di alcune sue poesie. Da poco è uscita in Inghilterra la sua prima raccolta per la casa editrice “Flipped Eye Publishing”, mentre in Italia sono state pubblicate solo alcune poesie, tradotte in italiano dalla prof.ssa Paola Splendore, docente di Letteratura inglese all’Università Roma Tre, sul numero di febbraio della rivista “Lo Straniero”. Warsan è arrivata in Italia per partecipare al “Tributo a Miriam Makeba”, nell’ambito della manifestazione culturale “Imola in musica”, che si è svolta dal 4 al 6 giugno scorsi. Tra le sue poesie, infatti, ne ha dedicata una alla celebre cantante africana, “Questions to Miriam” (“Domande a Miriam”), l’indimenticabile Mama Africa, sua importantissima fonte d’ispirazione e modello identitario. La storia di Warsan Warsan Shire è nata in Kenya nel 1988, i suoi genitori fuggirono dalla Somalia negli anni ’80 durante la guerra civile. Si trasferirono in Inghilterra, a Londra, quando Warsan aveva sei mesi. Sin da piccola aveva iniziato a mostrare la sua predilezione per la scrittura di poesie e racconti e, all’età di 15 anni, un suo insegnante di liceo, che aveva notato la sua esuberante creatività letteraria, la incoraggiò a coltivare questa passione e a impegnarsi seriamente. E così oggi, a poco più di venti anni, gira il mondo dando voce con i suoi testi e le sue performance ai diseredati e agli incompresi. Nei suoi versi si ritrovano echi della lunga ricerca di asilo, della guerra, l’attraversamento dei confini, la perdita, la follia. Warsan sceglie di cantare di guerra, violenze, rifugiati, di cuori e vite spezzate. Della Somalia che continua a pulsare nel suo cuore nonostante sia per lei quasi una terra mitica, dell’Africa che ha conosciuto per la prima volta soltanto l’anno scorso, durante un viaggio in Sudafrica.
Una carriera di successo
Ha vinto numerosi premi alle cosiddette “Slam Competitions”, ovvero competizioni letterarie in cui i poeti recitano o leggono i loro lavori. È considerata una “spoken word artist”, che recita cioè con una tipica forma espressiva durante le sue performance attraverso la “parola parlata”, ovvero una cadenza linguistica che si avvicina ai toni di una comunissima conversazione. Fa parte del movimento letterario dei “Black British Poets”, immigrati di diverse nazionalità e paesi che usano la poesia come espressione identitaria e mezzo di continuità della loro cultura, per non dimenticare la propria lingua e le proprie origini. I temi trattati riguardano la contemporaneità e ripercorrono le storie della loro condizione di rifugiati e immigrati. Ha scelto di scrivere in inglese, la sua seconda lingua madre come la definisce, accompagnando le parole con un’alzata di sopracciglio, una realtà ibrida per intenderci. È questa una condizione sperimentata dalle cosiddette seconde generazioni, quelle generazioni “ponte” tra il mondo delle madri e dei padri e quello che le accoglie, della quotidianità. Ha aperto un blog su internet [http://warsanshire.blogspot.com] dove pubblica bozze dei propri lavori, anche se si potrebbe parlare, a parere di molti, di veri e propri scritti completi. Un blog, come ci racconta lei, visitato da migliaia di persone, compresa sua nonna, una delle sue più fedeli fan. E quindi, con il suo particolare stile da “spoken word artist”, Warsan inizia a leggere i suoi testi in lingua originale, accompagnata nella traduzione in italiano da un’altra scrittrice somala che invece vive in Italia, Igiaba Scego. La platea ascolta incredula ed emozionata quei versi che fanno quasi male ad ascoltarli tanta è la forza e la crudezza che trasmettono, come un pugno nello stomaco che ti mozza il respiro. E, al termine della performance, dopo lunghi applausi e complimenti meritati, noi, incuriositi e affascinati da questa giovane leonessa, le rivolgiamo un fiume di domande. Peccato che il tempo a disposizione sia stato troppo poco.
Qual è la tematica principale delle tue poesie?
Canto soprattutto delle donne somale che vivono in Inghilterra, delle donne della mia famiglia, della loro straordinaria forza e saggezza. Sono le donne che ispirano la maggior parte dei miei componimenti, perché in loro si riflette l’essenza dell’amore e della vita.
Come hai vissuto indirettamente la guerra civile in Somalia?
Mi sono informata in parte attraverso i media e in parte ascoltando testimonianze dirette di rifugiati e fuoriusciti somali fuggiti in Inghilterra. Questi contatti sono stati importanti perché mi hanno fatto capire cosa stesse realmente accadendo nel mio paese e alla sua gente. Sprazzi di questi racconti li ritrovi tra le righe dei miei versi, in quelle parole crude e vere che rappresentano l’essenza dei miei componimenti.
Come si lega la tua tradizione poetica somala con quella inglese?
Devo innanzitutto sottolineare che un po’ tutta la mia famiglia possiede una vocazione artistica. Mio zio e soprattutto mio nonno sono poeti molto famosi in Somalia. Parte di questa eredità culturale ha influenzato la mia creatività, anche se io mi esprimo in inglese, mentre loro in somalo. Sto imparando a scrivere nella mia lingua madre, e mio padre è un bravissimo insegnante. Volevo anche aggiungere che sono stata sempre sostenuta dalla mia famiglia ad andare avanti nella mia carriera artistica, ritengo un luogo comune quello in cui si dice che le donne musulmane non sono libere di poter scegliere la propria strada. Io lo faccio da sempre.
Credi che la poesia possa aiutare gli immigrati e i rifugiati in qualche modo?
Sono convinta che attraverso la poesia si possa riuscire a dare loro voce e si possa far sapere al paese che li ospita che ci sono degli esseri umani con cui si può creare un dialogo, e che si possa riuscire a donare un’immagine più positiva dello straniero. La poesia può esprimere i sentimenti e le esperienze della condizione di ogni immigrato.
Scaduto il tempo, la nostra curiosità viene frenata, è ora di degustare gli squisiti manicaretti preparati dalle esperte mani di volenterose donne somale che presto promuoveranno un progetto di catering della loro cucina tradizionale, a Roma. Chissà, potrebbero essere loro le prossime ad essere intervistate. (Tratto dal sito: http://www.solidarietainternazionale.it/anno-xxi/n-6-giu-2010/2826-il-canto-di-warsan.html)
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