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Sagarana UN’INTERVISTA INEDITA CON BILLY COLLINS


Pina Piccolo


UN’INTERVISTA INEDITA CON BILLY COLLINS



 

Nato a New York nel 1941, professore di inglese in varie prestigiose università dello Stato di New York, William “Billy” Collins è uno dei più importanti poeti statunitensi viventi. Nominato alla carica di Poeta Laureato nazionale due volte, dal 2001 al 2003, Billy Collins ha proseguito la sua attività di divulgazione della poesia in tutto il paese attraverso readings. Testimonianza dell’efficacia del poeta nel trasmettere i contenuti della sua poesia sono sia la popolarità di cui godono i suoi readings (viene considerato il più popolare poeta vivente degli Stati Uniti e riesce a riempire i teatri a volte di migliaia di persone che vengono ad ascoltarlo), sia il gran numero di lettori che acquistano i suoi libri. Le sue raccolte di maggiore successo sono “Ballistics” (2008), “The Trouble with Poetry” (2005) Poetry 180: A Turning Back to Poetry (2003) ,“Sailing around the Room (2001)”, “Picnic Lightning” (1998), “The Art of Drowning” (1995), “Questions about Angels” and “The Apple that Astonished Paris” (1988) .
In novembre di quest’anno, mentre Billy Collins era in Italia per una serie di reading a fianco del suo traduttore Franco Nasi, ho avuto modo di approfondire alcune tematiche relative alla sua opera in un’intervista con il poeta su questioni concernenti l’iter della sua evoluzione stilistica, il rapporto tra poesia e demistificazione, la componente comica e “leggera” della sua poesia e il rapporto tra componente orale e scritta della poesia. L’intervista viene qui proposta dopo un breve saggio introduttivo ed è seguita da 3 sue poesie (oltre a quella introduttiva qui di seguito).
 
I morti
 
(da “A vela in solitaria, intorno alla stanza”)
 
I morti ci guardano sempre dall’alto, si dice,
mentre ci mettiamo le scarpe o ci facciamo un panino,
ci guardano dal fondo di vetro delle barche del cielo
mentre remano lenti attraverso l’eternità.
 
Osservano le nostre nuche muoversi in basso, sulla terra,
e quando ci sdraiamo in un campo o su un divano,
intontiti forse dal ronzio di un caldo pomeriggio,
pensano che stiamo ricambiando il loro sguardo,
 
e questo fa sollevare loro i remi e li fa restare in silenzio
ad aspettare, come genitori, che noi chiudiamo gli occhi.
 
 
A differenza delle occasioni montaliane ricche di riferimenti a esperienze e oggetti di un’esistenza borghese italiana dagli anni 10 agli anni 30 del 20 secolo che si tramutano in portali metafisici, le “occasioni” del poeta newyorkese Billy Collins sono nutrite dall’ironia e un tocco di mistero domestico della middle-class suburbana statunitense della seconda metà del 900 che sfocia in più modesti  “viaggi” nei rapporti umani e nel rapporto dell’essere umano con il tempo. Infatti come Billy Collins stesso dichiara nell’introduzione a un reading organizzato dall’Aspen Institute nel 2008, per lui la poesia lirica non tratta della storia ma del tempo. La storia non è che un violento, cattivo uso del tempo, come sottolinea nella poesia “Il futuro” mentre tenta di spiegare la guerra ai posteri che osservano i confini di un mappamondo cercando di capirne il senso. Invece, nei versi de “I morti” il “marker” del viaggio temporale è la barca che collocata in alto, in piena vista e perfino con il fondo trasparente a navigare nei cieli perde la solennità propria dell’imbarcazione dei defunti nell’aldilà sotterraneo degli Egizi e dei Greci per acquisire una dimensione più casareccia legata alla geografia urbana. Potrebbe infatti trattarsi di una squadra di vogatori che si allenano per la regata la domenica pomeriggio in una qualsiasi cittadina della East Coast. In questa loro familiarità essi non incutono più timore: il rapporto tra vivi e morti, divisi dal tempo, si riappropria della tenerezza tipica del genitore  che rimane accanto al letto del bambino fino a quando questi non ha chiuso gli occhi, un nume tutelare che ha dismesso i panni del sacro. È solo giusto che i viaggi che costituiscono le poesie di Billy Collins siano  preannunciati  non da trombe d’oro della solarità, né da muri sormontati da cocci o da suoni di ocarine ma da umili oggetti che richiamano la quotidianità di una tranquilla esistenza borghese nella provincia newyorchese nella seconda meta’ del 900: un accappatoio bianco, la bicicletta di un bambino appoggiata al garage “con tutta la sua velocità blu prosciugata”, uno scobidou intrecciato da un bambino nei pomeriggi afosi di un campo solare donato alla madre per sdebitarsi di tutte le cose da lei ricevute, o dall’abbaiare insistente di un cane che non bisogna odiare perché poteva essere previsto nello spartito di Beethoven. Nel Poeta Laureato degli Stati Uniti dal 2001 al 2003 (pure lui poco avezzo a muoversi tra bossi ligustri e acanti), lo stile e la sostanza poetica si stacca in maniera palpabile dal mondo poetico della lirica alta, particolarmente di quella che abbiamo imparato sui libri di scuola. Proposte per la prima volta nella bella versione italiana a fronte dal traduttore e studioso Franco Nasi nel libro “A vela, in solitaria, intorno alla stanza” (Medusa 2006) e qualche anno dopo, sempre a cura di Franco Nasi, nella rivista “Lo straniero”, sezione Arte e Parte (numero 113, novembre 2009), le poesie di Billy Collins trovano, sempre secondo il suo traduttore “ ...  le parole necessarie, esatte per dire ciò che i non poeti, coloro che non sanno fare (poiein) con le parole, sentono nel cuore, nella testa, ma non sanno dire.”Continua poi la sua introduzione con l’osservazione che il poeta è “...  come colui o colei che intreccia le cose che servono. Questa dimensione pragmatica della poesia è vista spesso con sospetto dalla nostra cultura, come se fosse contraria alla natura stessa dell’arte”.
 
A un mio commento a proposito dell’importante ruolo giocato dalla poesia statunitense  in Italia negli anni 50 e 60 nel demistificare la nozione stessa di poesia, specialmente attraverso l’influenza dei poeti  Beat, nell’intervista del 6 novembre 2009 a Ravenna,  Collins risponde rievocando l’importanza che questi ebbero anche nella sua formazione poetica:
 
Billy Collins: Per me i Beat sono stati un modello a cui guardare durante gli anni della high school e da adolescente iniziai a imitarli perché la loro era una poesia ribelle. C’era una mancanza di formalità, era molto diversa dalla poesia che ci insegnavano a scuola in quei tempi. Ma per quanto riguarda la demistificazione, è una questione alla quale non penso. Mentre scrivo non sto lì a pensare “Adesso demistificherò la poesia”. Il mio stile di scrittura è il risultato di un insieme di influenze. Mentre facevo progressi nella scrittura (il mio primo libro di poesia è stato pubblicato che avevo già quarant’anni) per molti anni ho continuato a scrivere cattive imitazioni di molti poeti diversi, alcuni dei quali molto mistificatori. Sono stato influenzato da Gertrude Stein e Wallace Stevens. Per molti anni ho continuato a esprimermi in una poetica molto difficile perché credevo, si vuole credere, ai modelli ai quali si è esposti. Ero convinto che la poesia dovesse essere densa. Credevo che lo stile poetico dovessere essere semi-comprensibile e muoversi sempre su molteplici livelli. Il contenuto emotivo era generalmente l’infelicità, c’era sia un senso di infelicità che di confusione. Ma volevo essere un poeta dal profondo dell’anima quindi ero anche disposto a scrivere una poesia confusa che sprizzasse infelicità. In verità io sono una persona solare, in genere direi, ma se era proprio necessario...
 
PinaPiccolo: E che cosa ti ha fatto cambiare strada?
 
BC: Influenze diverse, la lettura di poeti come Philip Larkin, ed alcuni dei poeti della scuola di New York, come Kenneth Koch, e dei poeti californiani meno conosciuti. Cito  Philip Larkin, come esempio, anche se non so se sia famoso qui in Italia. Tom Gunn e Ted Hughes, hanno anche anche avuto grande influenza su di me, nel senso che mi hanno dimostrato che è possibile essere umoristici senza diventare per questo sciocchi. Si può essere ironici ed essere molto ‘dark’ allo stesso tempo, l’ironia la si può modulare in maniera diversa. Questi poeti, mi hanno dato l’autorizzazione ad essere chiaro, in un certo qual modo, e di lasciar trapelare nella poesia la mia personalità spontanea e naturale, basata sull’umorismo o almeno sull’ironia. Fino ad allora avevo represso queste mie caratteristiche perché ritenevo che non potessero entrare nel territorio della poesia, che non fossero sufficientemente poetiche. Tutti abbiamo un senso di ciò che costituisce il ‘decoro poetico’, quello che è poesia. E infatti io scrivevo cercando di ‘innalzarmi’ al livello dovuto di “decoro poetico”, cioè una combinazione di infelicità e confusione. Ci sono voluti altri modelli per indicarmi la strada, per aiutarmi a fare breccia. Comunque, ti dirò che se osservi a struttura di una delle mie poesie tipiche, una buona, ho l’impressione che cominci con grande chiarezza, con una cosa semplice da accettare.
 
PP: Il lettore o l’ascoltatore deve essere in un territorio che gli è familiare...
 
BC: Il lettore ed io condividiamo lo spazio. Io sto guardando un albero dalla finestra – questo è un fatto che non si può negare, ma da lì la poesia prende una strada che ci porta verso una zona misteriosa.
 
PP: Quindi c’è uno spostamento..
 
BC: Allora la poesia è un viaggio che inizia da un territorio chiaro e va verso qualcosa di misterioso. Mi piace fare viaggi immaginari mentre leggo poesia. Io non so come potrebbe essere possibile viaggiare da un posto a un altro se già dall’inizio ti manca l’orientamento. Molte poesie iniziano in un luogo misterioso mentre a me piace arrivare a quel luogo misterioso. Spesso attraverso chiarezza ed umorismo, così che alla fine della poesia ci troviamo in un terreno ipotetico, una zona che è un po’ difficile afferrare.
 
PP: Le tue poesie mi sembrano meditazioni. Quando i miei studenti hanno ascoltato la tua poesia “Scoubidou”, hanno apprezzato molto lo spostamento da un oggetto banale come quel giochino di plastica a qualcosa di più difficile, come la meditazione sul fatto che non ci può essere equivalenza tra l’amore filiale e l’amore materno.
 
BC: Ho cominciato da un piccolo oggetto come lo scoubidou, poi da lì il discorso si è instradato verso mia madre poi verso la sproporzione “Tu mi hai dato la vita e io ti ho dato uno scoubidou”, per spostarsi infine verso la domanda “Si può mai ripagare una madre?” e i vari sentimenti di gratidudine e di ingratitudine.
 
PP: E nella tua voce, mentre la recitavi, si sentiva un certo dispiacere anche se non lo esprimevi esplicitamente. Secondo me, quindi è importante che un poeta legga la sua poesia, cosa che qui in Italia non accade spesso. Di solito si limitano a far leggere la poesia a un attore o a un’attrice, perché viene considerata principalmente un’esperienza estetica...
 
BC: Il mio traduttore, Franco Nasi, è molto bravo, siamo diventati amici anche se ci siamo conosciuti di persona solo questa settimana. Gli ho detto, “Immagino che la mia poesia sia facile da tradurre, il lessico, la dizione sono davvero semplici, il fraseggio è logico, uso frasi...” E lui replica, ” Ciò che dici è vero, ma è il tono che è difficile. La poesia italiana tende ad avere un tono elevato, quindi mi tocca abbassarlo un po’ evitando però di arrivare al punto di renderla piatta”. La sua sfida è stata quella di trovare il registro giusto, ed è per questo che mi fido di lui come traduttore. Alla fine della poesia dico “... ero certo come certo può essere un bambino/che quell’oggetto inutile e senza valore, che avevo intrecciato/per pura noia, bastava per pareggiare i conti.” Dico quello che pensavo da bambino, ma adesso mi rendo conto che quel debito non si può saldare, si passa ai propri figli.
 
PP: Quindi alla fine c’è un po’ di mistero, non si può prevedere esattamente dove ti porta. L’altro elemento della tua poesia che colpisce è l’umorismo.
 
BC: Ma, nella poesia italiana l’umorismo è una merce rara?
 
PP: Alcuni poeti lo usano ma è piuttosto raro, per questo si nota nella tua poesia.
 
BC: C’è stato un ritorno dell’umorismo. Era quasi sparito nei poeti Romantici ma credo che adesso si stia riprendendo il suo territorio. Se pensi a Chaucer, Shakespeare, Pope, John Donne, in Inghilterra, l’umorismo c’è, c’è spazio per l’umorismo dappertutto. Può essere osceno, può essere ironico. È stato solo a iniziare dall’800 che l’hanno prosciugato. Riguardo all’umorismo direi che il suo dispiegamento o uso migliore è come strategia. Allora, parliamo della poesia “Scoubidou”. Inizia in maniera piatta e poi diventa umoristica, “Lei mi diede la vita, io le diedi uno scoubidou”, quella sproporzione è buffa, ma alla fine l’umorismo sparisce e diventa una meditazione seria, come dici tu, sull’amore filiale. Quindi a un certo punto apri il rubinetto dell’umorismo e poi lo chiudi. Il tipo peggiore di umorismo nella poesia, ed è questo il motivo per cui ha acquisito una reputazione così cattiva, è il genere ‘poesia comica’ cioè quelle poesie che cominciano in maniera umoristica, continuano con quel tono e così finiscono. La potenza di una poesia si vede invece quando inizia in maniera umoristica e poi diventa seria o inizia in maniera seria per poi cogliere la propria comicità. La poesia ha un proprio moto interno che non si può controllare. Non è governata da un desiderio esterno “Adesso divento comica”, non c’è controllo. Tu hai usato la parola meditazione, e quelle più lunghe sono infatti meditazioni, e non si sa dove quella meditazione ci porti. Potrebbe portarci in un territorio serio o potrebbe portarci verso il comico.
 
PP: Quando penso alle meditazioni mi viene in mente il buddismo. Pensavo in particolare alla tua poesia “Spalando la neve con Budda”. Negli Stati Uniti alcune correnti di poesia sono state influenzate dal buddismo. Che cosa ne pensi? La tua poesia ne ha subito in qualche modo l’influsso?
 
BC: Ci sono alcuni poeti come Philip Whalen e i poeti della scuola di San Francisco che hanno portato il buddismo nella loro poesia, particolarmente attraverso l’influenza di Alan Watts.  Io non pratico il buddismo, sono troppo pigro per meditare. Francamento non credo di avere la testa per una cosa del genere. Sono stato allevato cattolico ma non sono praticante. Ma se il buddismo significa il rispetto per la natura, certamente il desiderio di vivere nel momento e non essere materialista, non avere un punto di vista strumentale dell’esperienza, potersene stare seduti tranquillamente ed osservare la natura. E questo si trova anche nei poeti Romantici. Ma penso che quello che mi piace del buddismo sia la sua tranquillità, il fatto che non necessita di sacerdoti, statue o affreschi, la sua sobrietà, tutto questo mi attira.
 
PP: L’altro elemento che mi colpisce nella tua poesia è la sua “leggerezza”. Mi fa pensare alle categorie di Calvino in Lezioni americane, la categoria “leggerezza” in particolare che dovrebbe essere una caratteristica del mondo post-moderno. Lo trovi pertinente?
 
BC: Se si parla del Modernismo nella letteratura, i Futuristi e i primi modernisti in generale sono stati una reazione al senso generale di un mondo in frantumi, attraverso Freud, la Prima guerra mondiale, etc. Il senso di un mondo allo sfacelo che richiede rispecchiamento in un’arte anch’essa disarmonica e paurosamente priva di senso, non si può più dipendere dalle vecchie misure. Adesso anche se possiamo dire di vivere in un periodo di grande crisi, abbiamo ancora le armi nucleari e tutto ciò, non credo che abbiamo più quella sensibilità dei Modernisti. Quando ero giovane ci insegnavano a ripararci sotto i banchi quando c’era la sirena per le prove di salvataggio in un attacco nucleare, avevamo rifugi anti-atomici  e tutta l’idea di un disastro nucleare era molto presente nella mente delle persone fino alle fine della Guerra Fredda. E non credo che una nuova paura abbia rimpiazzato quella. Il terrorismo non è la stessa cosa del pericolo nucleare. Credo che la nostra non sia la stessa sensibilità del Modernismo, per il quale la poesia significava mimesi, imitazione. Questo dunque lascia un’apertura per la leggerezza e l’ironia.
 
PP: In Lezioni americane si parla anche della leggerezza in termini di uno spostamento verso la società dell’informazione, più leggera e veloce rispetto al mondo delle macchine della rivoluzione industriale e del mondo delle merci.
 
BC: Beh, questa è una questione complessa, la svolta dalla produzione di merci alla produzione di informazione. Ho l’impressione che una delle ripercussioni di questa svolta sia che la poesia ci perda, nel senso che è una forma di informazione antiquata. Ti chiede di rallentare, di togliere la testa da questo flusso di informazioni. È difficile particolarmente per i giovani che sono abituati ad informazioni che si muovono a gran velocità, informazioni conservate e reperibili quasi istantaneamente. Io trovo difficile perfino chiamare poesia informazioni perché quella parola ha tanti significati, anche opposti, nella nostra cultura.
 
PP: Ma le tue poesie danno accesso a un qualche tipo di conoscenza..
 
BC:  Come sottolineavo prima, le mie poesie non offrono conoscenza . Offro viaggi verso territori ipotetici dove sprofondi nella tana di un coniglio o scivoli in una zona di instabilità ed incertezza. Se analizzi i tempi verbali delle mie poesie più lunghe, quasi sempre iniziano al presente indicativo mentre alla fine i tempi sono sempre molto confusi “sarebbe stato”, o un qualche altro passato condizionale. È un tempo ipotetico, una zona che non esiste... sarebbe stato così se fosse esistito. Allora passiamo da quella che chiaramente è la situazione attuale verso qualcosa che potrebbe essere se segui il sentiero della poesia.
 
PP: Con il tuo libro 180 Poesie hai dimostrato il tuo impegno a portare la poesia alla gente. Volevo che tu parlassi un po’ di quell’esperienza. In altre tue interviste che ho letto, sostieni che le tue poesie non affrontano mai un terreno politico, ma il tuo stesso atto di far entrare la poesia in uno spazio pubblico è in un certo senso un atto politico.
 
BC: È politico nel senso che innalza la bandiera della demistificazione, perché tutte le poesie contenute in quel libro sono poesie che usano un linguaggio chiaro. Quando mi hanno nominato Poeta laureato c’era pressione perché facessi qualcosa, che diventassi un propugnatore della poesia. Ho avuto, e continuo ad avere difficoltà a rullare i tamburi per la poesia, andare in giro per le scuole e dire ai ragazzi “Dovreste tutti leggere opere di poesia!’ perché tante poesie non vale la pena leggerle..
 
BC: Perché non “parlano” ai ragazzi..
 
BC: Non “parlano” a nessuno. Quindi ho raccolto 180 poesie che sentivo veramente di poter propugnare, che sentivo di poter sinceramente dire ai ragazzi o al pubblico in generale “Queste poesie sono belle. Penso che dovresti leggerle e vedrai che ti piaceranno, oppure se il tuo gusto è più ristretto, tra queste 180 ce n’è almeno una dozzina che ti piaceranno”. Non è che cercassi di mettere la gente in contatto con la poesia, quando mi hanno nominato Poeta laureato mi hanno messo in posizione di essere un prougnatore di poesia e ho deciso che l’unico modo in cui avrei potuto farlo era se fossi stato io a decidere quali poesie avrei sostenuto e proposto. Ma i risultati ottenuti hanno sorpassato perfino le più rosee aspettative. Letteralmente centinaia di insegnanti di liceo, che incontro quando faccio i poetry reading in giro per il paese, mi dicono che utilizzano il libro 180 Poesie e che fa una grossissima differenza in classe. Il libro si basa sulla mia didattica che prevede l’insegnamento della poesia all’incontrario, cioè partendo dalla poesia contemporanea, con poesie demistificatorie, narrative e chiare per poi passare, a mano a mano, a stili poetici più difficili o che appartengono a paesi lontani, o casi in cui la dizione non assomiglia affatto all’eloquio attuale. Si potrebbe dire che qualsiasi cosa sia un atto politico, ma per me.... 
 
PP: Quando ti dicevo di un atto politico, pensavo anche a ciò che sta accadendo  alla lingua oggi, questi eccessi di doppiezza e falsità del linguaggio, il “doublespeak” di Orwell, i tentativi di deumanizzare la gente facendo in modo che ogni esperienza sia mediata dalla tecnologia, o utilizzando porole come “danno collaterale” che vengono poi accettati dalla società. In un certo senso la poesia potrebbe essere un antidoto...
 
BC: Sono pienamente d’accordo. Sono stato nominato Poeta laureato qualche mese prima delle Torri Gemelle e poi dopo l’11 settembre la gente mi chiedeva “Come si reagisce a questa cosa? Hai scritto una poesia su questo argomento? La poesia deve rispondere a queste genere di cose?” La mia risposta solitamente era, “ Una poesia che parla dell’esperienza di portare il cane a spasso o di notare un fiore o di stare a guardare un lago è di per sé una poesia contro la guerra, è una poesia a favore della vita (un altro di quei termini usati male). Una poesia che parla di fare l’amore o di mangiare un bel pranzo o di guardare il cielo è poesia contro la guerra perché convalida l’importanza della vita. E se ammazzi una persona, quella non potrà più fare l’amore, guardare il cielo o portare il cane a spasso. Perciò non credo che sia esagerato dire che perfino un semplice haiku è essenzialmente una poesia contro la guerra perché sostiene la vitalità e la preziosità dell’esperienza.
 
PP: Le letture pubbliche di poesia. Credi che faccia differenza per quanto riguarda la percezione della poesia?
 
BC: Mah, mi è capitato di sentire persone che leggendo il testo della mia poesia non si erano accorte che avesse un aspetto umoristico, ma venendo poi a un mio reading hanno sentito il pubblico ridere e si sono rese conto dell’aspetto comico. Anch’io ho avuto la stessa esperienza con Charles Simic. In principio credevo che la sua poesia fosse molto buia, mi piaceva molto, ma l’associavo a una specie di tetraggine sovietica. Ma quando l’ho sentito leggere, ho visto che faceva dei sorrisetti furbi, che era divertito dalla sua stessa poesia ..
 
PP: Aveva reso esplicito il tono...
 
BC: con il suo tono di voce. Ma si tratta di due tipi di esperienza ben diversa. Io non scrivo per un pubblico di ascoltatori, scrivo per un lettore seduto che legge da solo nella sua stanza. Mentre scrivo me la rileggo e penso “Sta prendendo una via comica” o “Scritta così non funziona”, ma non penso a un pubblico, penso sempre alla mente del lettore, che non sia fruibile in maniera efficace per la sua mente. Se invece recita bene nella mia mente, so che arriverà bene alla mente di un lettore empatico.
 
PP: Allora, scrivi pensando alla pagina...
 
BC: Per me la pagina è di primaria importanza. So che molti sostengono che i reading di poesia ci riportano alle radici orali della poesia...
 
PP: Forse per una persona che è arrivata alla poesia attraverso la scolarizzazione, cioè la poesia gli arriva attraverso l’occhio e non l’orecchio...
 
BC: Penso che siamo persone orientate verso la pagina o lo schermo. I reading di poesia hanno i propri riti, non credere. Uno di questi aspetti rituali è che la maggior parte delle persone che vi partecipa vuole scrivere.
 
PP: Allora quello che facevi con i ragazzi del liceo, con il tuo libro 180 Poesie era molto sovversivo, perche’ loro ai poetry reading non ci vanno. Allora eccoli, che si preparano per la loro giornata di scuola e tu li aspetti al varco con la poesia (in alcuni casi letta e trasmessa attraverso i megafoni della scuola)...
 
BC: Sí, lí c’è un certo potere, nel senso che non è un posto dove si aspettano di trovare poesia. Li coglie di sorpresa, non sono in biblioteca. Anche la radio va bene. La gente ascolta poesia anche con l’i-pod. È una cosa positiva avere la poesia in questi posti imprevedibili ed è anche bene che la poesia stia al passo con la tecnologia.
 
 
 
 
Per terminare ho scelto altre tre poesie di Billy Collins che illustrano la sua poetica, nella traduzione italiana di Franco Nasi:
 
 
 
Lo scoubidou
 
(da The trouble with poetry, traduzione italiana inedita di Franco Nasi)
 
L’altro giorno mentre rimbalzavo lentamente
tra le pareti azzurre di questa stanza,
saltando dalla macchina da scrivere al piano,
dalla libreria a una busta caduta sul pavimento,
mi sono trovato nella sezione S del dizionario
dove i miei occhi sono caduti sulla parola Scoubidou.
 
Nessun biscotto sgranocchiato da un romanziere francese
avrebbe spedito qualcuno più in fretta nel passato –
un passato dove io stavo seduto a un tavolo in un campeggio
accanto a un profondo lago dell’Adirondack
imparando a intrecciare strisce sottili di plastica
in uno scoubidou, un regalo per mia madre.
 
Non avevo mai visto nessuno usare uno scoubidou
né indossarne uno, se è a questo che servono,
ma questo non mi trattenne dall’incrociare
filo con filo, e poi di nuovo,
fino a farne uno scoubidou
quadrato, bianco e rosso, per mia madre.
 
Lei mi diede la vita e il latte dal seno,
io le diedi uno scoubidou.
Si prendeva cura di me, quand’ero a letto ammalato:
mi avvicinava alle labbra cucchiai di medicine,
mi appoggiava alla fronte freddi panni bagnati,
poi mi portava fuori alla luce ariosa;
 
e mi insegnò a camminare e nuotare,
io in cambio le regalai uno scoubidou.
Ecco qui migliaia di pasti, disse,
ed ecco i vestiti e una buona scuola.
Ed ecco il tuo scoubidou, le risposi,
che ho fatto con l’aiuto dell’istruttore.
 
Ecco un corpo che respira e un cuore che batte,
gambe, ossa, denti forti,
e due occhi chiari per leggere il mondo, sussurrò.
Ed ecco, dissi, lo scoubidou, che ho fatto in campeggio.
Ed ecco, vorrei dirle ora,
un dono più piccolo – non l’antica verità
 
che non si può mai ripagare una madre,
ma la triste confessione che quando lei prese
lo scoubidou a due colori dalle mie mani,
ero certo come certo può essere un bambino
che quell’oggetto inutile e senza valore, che avevo intrecciato
per pura noia, bastava per pareggiare i conti.
 
 Giappone
 
(traduzione italiana di Franco Nasi  in A vela, in solitaria, intorno alla stanza)
 
Oggi passo il tempo a leggere
uno dei miei haiku preferiti,
a ripeterne e ripeterne le parole.
 
Sembra di mangiare
e tornare a mangiare
lo stesso piccolo chicco d’uva, perfetto.
 
Cammino per la casa recitandolo
e lascio che le sue lettere cadano
nell’aria di ogni stanza.
 
Sto accanto al grande silenzio del piano e lo dico.
Lo dico davanti a un quadro del mare.
Batto il suo ritmo su un vuoto scaffale.
 
Mi ascolto dirlo,
e lo dico senza ascoltarmi,
e lo ascolto senza dirlo.
 
E quando il cane guarda in su verso di me,
mi inginocchio sul pavimento
e lo sussurro in ciascuna delle sue lunghe orecchie bianche.
 
È quello sulla campana del tempio
di una tonnellata
con la falena che dorme sulla sua superficie,
 
e ogni volta che lo dico, sento l’atroce
pressione della falena
sulla superficie della campana di ferro.
 
Quando lo dico alla finestra,
la campana è il mondo
e io sono la falena che lì si riposa .
 
Quando lo dico allo specchio,
io sono la pesante campana
e la falena è la vita con le sue ali di carta.
 
E più tardi, quando te lo dico al buio,
tu sei la campana,
e io sono la lingua della campana, che ti fa suonare,
 
e la falena è volata via
dal suo verso
e si muove sul nostro letto come un cardine nell’aria.
 
 
 
 
Il futuro
 
(traduzione di Franco Nasi, dalla sezione Arte e Parte, nella rivista Lo straniero)
 
Quando alla fine ci arriverò –
e ci vorranno molti giorni e molte notti –
mi piace pensare che ci saranno altri in attesa
e che vorranno perfino sapere com’era.
 
E così mi abbandonerò al ricordo di un cielo particolare
o di una donna con un accappatoio bianco
o della volta in cui ho visto uno stretto molto angusto
dove si era svolta una famosa battaglia navale.
 
Poi squadernerò su un tavolo
una grande mappa del mio mondo
e spiegherò al popolo del futuro
dagli abiti sbiaditi com’era –
 
come le montagne si alzavano tra le valli
e questa era detta geografia,
come le navi cariche di merci percorrevano i fiumi
e questo era detto commercio,
 
come il popolo di questa zona rosa
si spostava in questa zona verde chiaro
e come incendiava e uccideva chiunque trovasse
e questa era detta storia –
 
e loro ascolteranno, con lo sguardo gentile e in silenzio,
mentre altri arriveranno a unirsi al cerchio,
come onde che non si allontanano,
ma si muovono verso un sasso lanciato in uno stagno.
 
 
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In lingua originale:
 
 
 
The Dead
                                   (from Sailing Alone around the Room, 2002)
 
The dead are always looking down on us, they say.
while we are putting on our shoes or making a sandwich,
they are looking down through the glass bottom boats of heaven
as they row themselves slowly through eternity.
They watch the tops of our heads moving below on earth,
and when we lie down in a field or on a couch,
drugged perhaps by the hum of a long afternoon,
they think we are looking back at them,
which makes them lift their oars and fall silent
and wait, like parents, for us to close our eyes.
 
 
 
 
 
The Lanyard
                                   (from The Trouble with Poetry, 2005)
 
The other day I was ricocheting slowly
off the blue walls of this room,
moving as if underwater from typewriter to piano,
from bookshelf to an envelope lying on the floor,
when I found myself in the L section of the dictionary
where my eyes fell upon the word lanyard.
No cookie nibbled by a French novelist
could send one into the past more suddenly—
a past where I sat at a workbench at a camp
by a deep Adirondack lake
learning how to braid long thin plastic strips
into a lanyard, a gift for my mother.
I had never seen anyone use a lanyard
or wear one, if that’s what you did with them,
but that did not keep me from crossing
strand over strand again and again
until I had made a boxy
red and white lanyard for my mother.
She gave me life and milk from her breasts,
and I gave her a lanyard.
She nursed me in many a sick room,
lifted spoons of medicine to my lips,
laid cold face-cloths on my forehead,
and then led me out into the airy light
and taught me to walk and swim,
and I, in turn, presented her with a lanyard.
Here are thousands of meals, she said,
and here is clothing and a good education.
And here is your lanyard, I replied,
which I made with a little help from a counselor.
Here is a breathing body and a beating heart,
strong legs, bones and teeth,
and two clear eyes to read the world, she whispered,
and here, I said, is the lanyard I made at camp.
And here, I wish to say to her now,
is a smaller gift—not the worn truth
that you can never repay your mother,
but the rueful admission that when she took
the two-tone lanyard from my hand,
I was as sure as a boy could be
that this useless, worthless thing I wove
out of boredom would be enough to make us even.
 
 
 
Japan
            (from Sailing Alone around the Room)
 
Today I pass the time reading
a favorite haiku,
saying the few words over and over.
 
It feels like eating
the same small, perfect grape
again and again.
 
I walk through the house reciting it
and leave its letters falling
through the air of every room.
 
I stand by the big silence of the piano and say it.
I say it in front of a painting of the sea.
I tap out its rhythm on an empty shelf.
 
I listen to myself saying it,
then I say it without listening,
then I hear it without saying it.
 
And when the dog looks up at me,
I kneel down on the floor
and whisper it into each of his long white ears.
 
It's the one about the one-ton temple bell
with the moth sleeping on its surface,
 
and every time I say it, I feel the excruciating
pressure of the moth
on the surface of the iron bell.
 
When I say it at the window,
the bell is the world
and I am the moth resting there.
 
When I say it at the mirror,
I am the heavy bell
and the moth is life with its papery wings.
 
And later, when I say it to you in the dark,
you are the bell,
and I am the tongue of the bell, ringing you,
 
and the moth has flown
from its line
and moves like a hinge in the air above our bed.
 
 
 
The Future
                               (from Ballistics, 2008)
 
When I finally arrive there—
and it will take many days and nights—
I would like to believe others will be waiting
and might even want to know how it was.
 
So I will reminisce about a particular sky
or a woman in a white bathrobe
or the time I visited a narrow strait
where a famous naval battle had taken place.
 
Then I will spread out on a table
a large map of my world
and explain to the people of the future
in their pale garments what it was like—
 
how mountains rose between the valleys
and this was called geography,
how boats loaded with cargo plied the rivers
and this was known as commerce,
 
how the people from this pink area
crossed over into this light-green area
and set fires and killed whoever they found
and this was called history—
 
and they will listen, mild-eyed and silent,
as more of them arrive to join the circle
like ripples moving toward,
not away from, a stone tossed into a pond.

 






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