IL 10° ANNIVERSARIO DELLA RIVISTA Julio Monteiro Martins La rivista Sagarana festeggia questo mese dieci anni di ininterrotta pubblicazione on-line, un anno in meno rispetto alla scuola di scrittura creata a Lucca nel 1999, a cui la rivista serviva inizialmente da supporto didattico, con i suoi saggi sulle tecniche narrative, i suoi racconti esemplari, i brani di romanzi e poesie. Già a partire dal suo primo anno, tuttavia, si capiva che la vocazione di Sagarana era quella di un’esistenza autonoma, con la presentazione ad ogni trimestre di un’ampia raccolta di testi esemplari: la rivista intendeva riempire la lacuna lasciata dalle riviste italiane del tardo Novecento, che chiudevano una dopo l’altra, in seguito alla scomparsa degli ultimi spazi di vendita di cui disponevano, l’impossibilità di una benché minima distribuzione e lo spegnersi della motivazione di una generazione di scrittori ancorata a una realtà culturale in disfacimento. Quelli però erano anche gli anni dell’espansione dell’utilizzo di Internet nel nostro paese, e con Sagarana la letteratura si sposava felicemente con quel veicolo aperto e democratico, attraverso il quale riusciva ad arrivare ovunque, istantaneamente e a costo zero per il lettore. Sin dal suo primo numero, attraverso la Rete, Sagarana ha avuto un pubblico espressivo sia in Italia che all’estero – circa la metà del totale dei suoi lettori vivono in più di un centinaio di paesi stranieri – dove studenti di italiano, professori e la comunità italofona residente all’estero ci hanno concesso un’attenzione crescente e fedele, estesa poi ai Seminari degli Scrittori Migranti presenti sul nostro sito, origine di saggi critici, tesi di Laurea e di Dottorato. Sagarana è un progetto in espansione, non soltanto perché diventa più conosciuta ed è letta oggi da un pubblico sempre più numeroso, composto principalmente da giovani, ma soprattutto perché cresce in rilevanza, approfondendo la sua capacità di intervento e di influenza formativa nella cultura italiana. E lo fa adoperando una strategia editoriale duttile, sensibile alle tendenze e attenta ai nuovi linguaggi, e intrisa di una visione cosmopolita del futuro: vuole contribuire all’avvento di una nuova società, più aperta, votata all’inclusione e alla giustizia sociale e interessata alla diversità. Una pubblicazione che aiuti a trasformare l’invenzione, spesso perversa, dell’altro nella gioiosa scoperta dell’altro. In questi dieci anni, la letteratura italiana e quella brasiliana sono state forse le realtà più rappresentate sulle nostre pagine, ma è forte anche la presenza della narrativa e della poesia tradotta dallo spagnolo, dall’inglese, dal tedesco e dal francese. Il mondo slavo, quello orientale e la nuova letteratura africana sono anch’esse assidue presenze in ogni edizione di Sagarana. Per celebrare adeguatamente questo primo decennio di vita abbiamo dedicato questo numero a Jorge Amado (di lui ha detto José Saramago: “Poche volte uno scrittore è riuscito a diventare come lui lo specchio e il ritratto di un intero popolo. Una parte importante dell’universo dei lettori stranieri ha cominciato a conoscere il Brasile quando ha cominciato a leggere Jorge Amado.”); inoltre abbiamo deciso anche di realizzare una forma inconsueta di pagina “editoriale”. Nelle pagine successive troverete una sorta di “conferenza stampa” virtuale, con commenti e domande fatte da alcuni degli scrittori e studiosi della letteratura che sono stati più vicini alla rivista in questi anni, e alle quali ho cercato di rispondere con totale franchezza. Il risultato – un “flusso di riflessioni” sull’idea stessa della rivista, e non solo – dovrà servire a chiarire ancor meglio il compito di Sagarana, il senso di quello che abbiamo compiuto finora e di quello che realizzeremo negli anni a venire. Buona lettura!
Julio Monteiro Martins
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MIA LECOMTE
Il 16 agosto scorso, in un ampio articolo su la Repubblica, Valerio Magrelli cita la Sagarana tra le riviste elettroniche più importanti, che concedono ampio spazio alla poesia. È solo l'ultimo dei numerosi riconoscimenti di critica che la rivista negli anni si è guadagnata. Per non parlare del pubblico, numerosissimo, soprattutto all'estero. Che bilancio fai tu di questo tuo percorso editoriale italiano, e dell'insegnamento correlato, che porti avanti con la scuola di scrittura (per cui ho avuto l'onore e il piacere di condurre il laboratorio di poesia)?
JMM – Grazie, Mia. Forse è presto per fare un vero bilancio, perché solo quando l’Italia uscirà finalmente da questo periodo di oscurità politica, ma anche culturale, si potrà valutare a pieno il ruolo che queste pubblicazioni hanno avuto nel salvare il salvabile, nel preservare certi valori etici, il rispetto per la creazione originale, la capacità critica, una certa curiosità di stampo illuminista e un alto livello artistico, tutte categorie fortemente minacciate nell’attuale stato di cose. Comunque, in dieci anni un bilancio provvisorio va fatto, e non può che essere positivo, considerando gli sviluppi di Sagarana che ho menzionato sopra. Cresce soprattutto, secondo me, l’attenzione verso le posizioni della rivista, le sue scelte e lo spirito della sua missione, una maggiore comprensione e adesione alle sue priorità, una comprensione che è forse più intuitiva che razionale, spinta dalla necessità intima e impellente di non rinunciare a certi valori, di non accettare un mondo che ne venga amputato e di scommettere, con entusiasmo e con gioia, su un’Italia futura in sintonia con il meglio che il resto del mondo ha da offrire.
Cosa pensi dell'ultima generazione di scrittori italiani, noti o esordienti, che incontri e conosci tramite il gran numero di testi che leggi come direttore della rivista e della scuola?
JMM – La prima cosa che salta agli occhi è l’incomunicabilità tra le due grandi correnti della letteratura in lingua italiana oggi: quella migrante e quella stanziale, ossia, il fosso persistente che divide gli scrittori italiani nati in Italia da quelli nati altrove, che nonostante scrivano entrambi allo stesso tempo e nella stessa lingua sullo stesso paese, sono percepiti dalla critica, dalle case editrici, dalla stampa e di conseguenza dal pubblico come due letterature diverse, che si ignorano o fingono di ignorarsi a vicenda, come due laghi pescosi divisi da un deserto, ma le cui acque si scambiano attraverso canali e passaggi sotterranei invisibili. Sulla letteratura migrante, in particolare, c’è una lunga e profonda discussione nei Seminari presenti in questo stesso sito, e consiglio vivamente i nostri lettori di conoscerla perché è una discussione che trascende le questioni letterarie e mette a fuoco una vera istantanea dell’Italia contemporanea. Quanto agli scrittori stanziali, quelli nati in Italia, voglio limitarmi qui a sottolineare alcune caratteristiche molto presenti tra i giovani autori, quelli che pubblicano sulla nostra sezione Vento Nuovo, e tra i miei allievi di Scrittura: trovo una presenza frequente di personaggi anziani, nonne, vecchi contadini, prozii, come se gli autori avvertissero l’urgenza di preservare nei loro scritti un’Italia che sta scomparendo, la nostalgia delle tradizioni di un passato descritto come mite, sofferto, povero di beni materiali ma ricco di affetto e di saggezza, un passato in un certo senso edulcorato, ripulito, per esempio, dagli orrori del Fascismo. Fanno capolino anche le descrizioni delle difficoltà gravi e senza via di scampo della generazione attuale, ostacoli nell’ambito lavorativo, nei rapporti con i genitori da cui spesso ancora dipendono economicamente, nei rapporti amorosi frustranti, corrosi dalla noia, svuotati di passione e di un qualsiasi senso, che spesso finiscono nell’incomunicabilità e in una rottura malinconica ed inevitabile (con i cani e altri animali domestici, invece, il rapporto sembra idilliaco: ci arrivano una gran quantità di testi che hanno come protagonista un cane o un gatto, e solo con loro sembra possibile approfondire un rapporto e sdoganare il trasporto affettivo); c’è il rifiuto del proprio paese e l’idealizzazione di una vita ricostruita in un paese straniero, in Spagna o in Germania – Barcellona e Berlino sembrano la Mecca per i giovani europei – ma anche luoghi più lontani, Cuba, il Brasile o l’Australia. C’è l’idea persistente di una patria percepita come vicolo cieco, soprattutto per i trentenni e quarantenni che sono demoralizzati e scorgono solo tenebre all’orizzonte. Ma il sogno di partire spesso sfuma alla fine di questi racconti, si rivela un’illusione, una strategia di evasione mentale spinta dalla disperazione. Quanto allo stile di questi testi, quasi sempre è realista e immune alle sperimentazioni formali, sono testi intimisti, psicologici, narrati dal protagonista in prima persona. La scelta prevalente di questo punto di vista narrativo denota una forte preoccupazione col proprio destino personale e la ricerca di soluzioni individuali alle impasse esistenziali (mai l’ipotesi di una soluzione collettiva, rivoluzionaria, mai una posizione ideologica forte, una scommessa sulla società). Si tratta di uno strano tipo di auto-referenzialità negativa, non narcisistica ma al contrario piena di autocompassione, a volte addirittura di autoflagellazione e di disprezzo per se stessi.
Una letteratura di tipo confessionale?
JMM - Direi di sì, attraverso questi testi non è difficile capire che l’interesse dei loro autori è quello di confessarsi e di utilizzare la scrittura come fonte di riflessione sulla propria condizione, piuttosto che quello di fare letteratura, di proporre innovazioni alla tradizione letteraria, di “fare lo scrittore” insomma. Temo che “l’arte letteraria” sia una motivazione in via d’estinzione, e non solo in Italia ma ovunque. La visione della letteratura come un’arte, la conoscenza e l’impegno con la sua storia artistica e i suoi idioletti, le sue sperimentazioni, le sue audacie, i suoi movimenti, perde significato anno dopo anno, si diluisce per omissione o per ignoranza e rischia fra non molto di non essere più un traguardo possibile o desiderabile, una sfida, un talento da coltivare, come è stato almeno sin dal Seicento in Occidente. Ossia, di non essere più utile, come una sorta di hobby oscuro ed elitario, incomunicabile e senza futuro. Se interpretiamo la logica perversa del sistema, oggi, sembra che fare lo scrittore seriamente, lontano dai best seller e dai “successi” di critica programmati a tavolino, diventi sempre più una sorta di “eccentricità” poco rilevante, nell’immaginario collettivo italiano.
Che rapporto c'è - esistenziale e letterario - tra la tua produzione narrativa e quella poetica? Come vedi inserita la tua poesia, i suoi temi - l'esilio e la morte, l'impossibilità dell'amore compiuto - all'interno del panorama poetico italiano? Migrante? Oppure? Allargando: pensi che sia ancora possibile parlare di letterature nazionali?
JMM – Comincio a rispondere dalla fine. Così come l’assetto geopolitico mondiale, anche la letteratura attraversa un periodo di transizione, dalle letterature nazionali – sempre meno rappresentative, mescolate e assediate come sono da fenomeni letterari transnazionali come la letteratura postcoloniale o la letteratura migrante – a una ancora non compiuta letteratura mondializzata. La crescita delle manifestazioni non collegate alle tradizioni nazionali ci permette di intravvedere nel futuro una confluenza di esperienze multiculturali, di argomenti, di stili e di ossessioni tematiche, e al contempo una grande varietà di scelte linguistiche e di scenari: sono i prodotti letterari dei nuovi scrittori che si spostano, che si sdoppiano dal punto di vista esistenziale e che leggono sempre di più altri che vivono simili processi. Gli scrittori – e di conseguenza le loro opere – rompono le corde che volevano immobilizzarli e tenerli costretti alle tradizioni nazionali di un mondo che si scioglie nell’aria. Si forma così un nuovo patto con i lettori, che nella frammentazione e nella nuova soggettività transculturale vedono rispecchiate più fedelmente di prima la loro stessa visione e le loro stesse trasformazioni. È un fenomeno, questo della letteratura mondializzata, che cresce attraverso l’empatia e la sintonia, un po’ com’è esploso il rock negli anni ’60 riflettendo una nuova visione di mondo dei giovani, una nuova morale e nuovi progetti e desideri, rompendo con la grettezza, i preconcetti e gli stereotipi della generazione precedente. Per quanto riguarda la prima parte della tua domanda, la mia poesia e la mia narrativa, anche se scaturiscono da una stessa soggettività, che è la mia, e da uno stesso tempo storico, che è il nostro, hanno compiti diversi e complementari. La poesia parte dal confine dove si ferma la narrativa. Si avventura per regioni dell’inconscio dove niente è più chiaro o definito, naviga dentro la nebbia, raccoglie impressioni, intuizioni, emozioni diffuse e indistinte; rinuncia alla chiarezza della prosa, con le sue metafore estese, i suoi monologhi interiori e il “chiaro enigma” dei suoi simboli, per perdersi in un mondo più oscuro e più pericoloso, in cui le idee sono fugacemente illuminate da lampi d’intuizione, da insight improvvisi e spaventosi. È possibile che proprio per questo la mia poesia sia impregnata di una verità più essenziale, anche se meno nitida, che della verità imbrattata dalle circostanze che emerge dalla narrativa. Non esiste tuttavia un passaggio nitido tra la prosa e la poesia, entrambe coabitano una zona grigia, e all’interno di un testo di narrativa non di rado compare l’espressione poetica per accrescerlo in profondità, in essenzialità, in mistero. Durante la stesura della mia prosa a volte sento il venir meno della razionalità e la comparsa della voce dirompente della poesia, come in una vertigine, o come il taglio di una lama affilata, a reclamare l’esposizione della natura specifica della sua verità. C’è un titolo di un romanzo di Clarice Lispector che mi piace molto, “Vicino al cuore selvaggio”. Ecco, è come se la scrittura fosse improvvisamente allontanata dal cuore abituale per avvicinarsi a un secondo cuore, più “selvaggio”, quello da dove proviene la poesia, che palpita diversamente e fa circolare un sangue diverso, più fluido e più veloce. La vertigine deriva da questo “sbalzo circolatorio” improvviso.
Personalmente, come tua amica, responsabile dei laboratori di poesia e redattrice di Sagarana, ho trovato sempre un'affinità profonda tra il tuo e il mio modo di intendere la letteratura, di svilupparne esteticamente l'imprescindibile valenza etica. E ho potuto felicemente condividere un universo vastissimo fatto non solo di libri (moltissimi) ma anche di musica, film, politica (nel senso vero del termine) e chiacchiere infinite, risate. In un sentimento profondo di libertà, nella certezza che prima di tutto fosse preservata la libertà, mia e di tutti gli altri. In questo c'è tutto quello che mi fa vivere, nonostante, con leggerezza assorta, che mi fa stare bene. Diversi anni fa l'ho riconosciuto con sorpresa, ed è ancora qui. E dunque prendo l'occasione di questa ricorrenza della Sagarana per essere esplicita: vi ringrazio (te e le tue emanazioni letterarie) di averci (me e le mie) riconfermate e di sostenerci in un'esistenza di parole importanti che questo paese, e questo nostro Occidente, fanno di tutto per rendere tossica, impossibile.
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PINA PICCOLO
Il fenomeno migrazione nell’epoca della globalizzazione. Ci sono delle caratteristiche di questa particolare fase storica che incidono sull’evoluzione dell’identità del migrante con risvolti poi sulla letteratura da essi prodotta? Che impatto hanno gli sviluppi tecnologici, il maggiore accesso ai trasporti che oggi permettono di vivere in contemporanea diverse identità? La domanda mi viene da una certa resistenza ad accettare la tua nozione di emigrazione come “suicidio amministrato”. Cioè questa descrizione potrebbe valere per determinate fasce di migranti esclusi dai contatti con i paesi d’origine o per scelta o per costrizione, ma molti altri non sono costretti a rinunciare completamente alla loro identità precedente. Oggi con Skype, televisioni satellitari, viaggi low cost è molto più semplice mantenere il contatto con le persone, i luoghi, i prodotti del paese di origine e portarli nel paese di residenza.
JMM – Il mio concetto di “suicidio amministrato” è un tentativo di avvicinamento al dramma dell’immigrazione come rinuncia a una identità consolidata, anche se fallimentare, per eventualmente aprirsi all’opportunità di costruzione di una nuova identità nel paese d’arrivo. È un’espressione enfatica che si propone come narrazione di un trauma, là dove questo trauma – come è stato il mio caso personale – si è verificato. L’immigrazione chiaramente può essere vissuta in modo pesante, come un cambiamento definitivo e irreversibile, o in modo più leggero, come una semplice attività lavorativa all’estero (anche se la verità è che questo tipo di “esperienza leggera” nell’intenzione si sa come inizia ma non si sa mai come finisce, e il logoramento dell’illusione del ritorno può diventare anch’esso un trauma ancor più devastante). Nell’ambito degli scrittori, quello che conosco più da vicino, direi che la maggior parte delle esperienze migratorie hanno questa caratteristica più traumatica, più definitiva, di “suicidio amministrato”. Forse a causa della loro particolare sensibilità, o a causa del percorso esistenziale travagliato che segna questa scelta professionale. Infatti, qualcuno ha già dimostrato con i numeri che non esiste categoria professionale con una percentuale così alta di morti per suicidio – quelli veri, non metaforici – come quella degli scrittori. L’utilizzo di tecnologie di comunicazione, come le chat o Skype, non credo che serva come surrogato efficace alla presenza fisica, nel lungo termine. Col tempo si rivela per quello che è: un semplice palliativo. Forse sarà in grado di produrre un’illusione inconscia di “ritorno”, un assaggio quotidiano di familiarità, ma l’inconscio stesso prima o poi se ne accorge, del trucco, e può rispondere con un’improvvisa botta di disperazione e di sentimento di solitudine e di esclusione. Comunque, hai ragione a sottolineare questa distinzione tra gli effetti dell’immigrazione in coloro che sono partiti con una predisposizione a cambiare la propria vita e quelli che avevano obiettivi più pragmatici e più funzionali alla realtà rimasta nel paese d’origine. Questo cambia senza dubbio anche l’immaginazione del migrante riguardo al nuovo paese, da “terra promessa” a mera fonte di sopravvivenza economica della propria famiglia. Penso che il fatto che il migrante provenga da un vuoto esistenziale o al contrario, da una pienezza affettiva sarà determinante per il disegno delle sue aspettative e decisivo per la sua determinazione di abbandonare o invece di cercare di preservare in lontananza l’antica identità.
Un altro fattore da considerare è anche una certa globalizzazione della cultura (anche questa possibile a causa delle tecnologie) per cui un giovane o una giovane che lascia l’Africa, l’Asia o l’America Latina ritrova molte cose di cui aveva esperienza nel proprio paese, specialmente a livello culturale, musica, film, modi di vestire, etc. Questo per esempio non avveniva per gli emigranti che lasciavano l’Italia alla fine dell’Ottocento per andare nelle Americhe.
JMM - È anche vero che, con l’espansione della globalizzazione, il concetto stesso di “emigrare” si sta trasformando in qualcosa di diverso dalle migrazioni tradizionali. Quasi come se, spontaneamente e inconsapevolmente, uomini e donne assumessero il loro diritto a un’esistenza planetaria e occupassero con i loro corpi e le loro madrelingue territori che non appartengono più esclusivamente a chi ci è nato o a chi ne tramanda le tradizioni. Forse è lecito dire che è in atto una metamorfosi antropologica, un nuovo modo di abitare il pianeta intero, di muoversi liberamente sulla sua superficie – contrastato però dalle forze decise a non permettere questi spostamenti, che sentono come un’invasione da respingere. E chiaramente la letteratura – compresa quella che scrivo io – rispecchiano questa metamorfosi in corso.
Letteratura come sorgente di verità. Concordo che a volte le antenne degli scrittori sono in grado di captare l’invisibile e trasmetterlo attraverso la scrittura, ma mi viene da pensare che la vista e l’udito siano i sensi privilegiati negli ultimi due secoli e che quindi forse potrebbero essere il cinema e la musica ad avere un maggiore impatto rispetto alla pagina scritta. A questo proposito, cosa ne pensi della performance poetry che porta a livello visivo e uditivo concetti che magari possono aver origine come scrittura ma che poi vengono riproposti per essere usufruiti da altri sensi?
JMM – Mi piacciono molto queste performance, questi esperimenti. Sono esperimenti necessari oggi, una ricerca verso livelli più efficienti di comunicazione, che sarà forse in grado di aprire nuovi canali per la conoscenza e l’apprezzamento della poesia e della narrativa, magari attirando più attenzione verso la loro forma originale, la forma scritta. Però non sempre si riesce a “drammatizzare” le composizioni letterarie senza tradire il loro senso più profondo, spostando la percezione del pubblico dal contenuto a certe forme deturpate e stravaganti di rappresentazione. Quindi, prima si deve fare una lettura molto attenta e rispettosa, una vera esegesi del testo, e conoscere anche altre opere dello stesso autore per capire l’essenza del suo pensiero e l’insieme dei simboli a cui è solito attingere, e solo allora trasformarlo in pièce drammatica o in altri linguaggi, cortometraggio, canzone, fumetto, coreografia, ecc. Nel caso del teatro, spesso l’oralità e l’espressione dell’attore diventano una cornice che condiziona la percezione dell’opera, e non sempre nella direzione giusta, quella voluta dall’autore.
In relazione alla rivista telematica, quali pensi che siano le caratteristiche distinte di questo mezzo rispetto alla rivista cartacea? Riescono in qualche modo a superare le derive aristocratiche e iper-estetiche che spesso caratterizzano la cultura italiana? La Sagarana è riuscita a formare una comunità di lettori che si mantengono in contatto tra di loro e in qualche modo si stimolano a vicenda nella produzione artistica e non solo come fruitori di cultura?
JMM – La prima e forse più importante caratteristica di una rivista telematica è quella di arrivare dappertutto e istantaneamente, da una metropoli dell’Estremo oriente a un piccolo paese in Umbria o dell’entroterra sardo. Un “miracolo” impensabile soltanto due decenni fa. E senza costi per il lettore, ciò che è senz’altro un segno indubbio di democratizzazione dell’informazione e della cultura, un “superamento delle derive aristocratiche” per usare le tue parole. Direi una vittoria dell’inclusione sull’esclusione culturale. E, sì, la Sagarana è riuscita a formare una comunità attorno a sé, un’ampia comunità di lettori fedeli in tutto il mondo, e nella nostra Lista di discussione una comunità di circa 300 partecipanti, molto attiva, come hanno dimostrato le recenti discussioni sul ruolo degli scrittori che pubblicano per le case editrici facenti capo ai Berlusconi. Sono scrittori, professori, traduttori, giornalisti e studenti universitari. È una vera piazza telematica, la nostra Agorà, luogo di scambio e di confronto, talvolta acceso, scottante, ma anche di formazione, di approfondimento e di aggiornamento. Svolge un ruolo fondamentale, quello di comunione psicologica e intellettuale, per la scoperta dei nostri “pari” in un contesto confuso e frammentario, di emersione dall’isolamento, nel gioco rinvigorente del dire e dell’ascoltare.
A livello internazionale, esistono altre riviste che hanno una simile mission, e siete in contatto con loro?
JMM – Non saprei rispondere con esattezza. Conosco altre proposte di riviste letterarie, in Italia e all’estero, come El-Ghibli, McSweeney’s e le brasiliane Desenredos e Fórum de Literatura, e con qualcuna sono in contatto regolare, ma ciascuna ha le sue priorità e le sue impostazioni editoriali, diverse da quelle della Sagarana. E anche la Sagarana ha cambiato impostazione più di una volta in questi dieci anni (tutti i numeri sono ancora accessibili on-line sul nostro sito), anche se non è cambiata la filosofia, gli obiettivi. Penso che hai colto nel segno quando hai parlato di “mission”, di missione. La Sagarana ha ben chiara la sua missione, alla quale ho dedicato una vita intera di “sacerdozio letterario”.
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KARIM METREF
10 anni! 10 anni di poesia, di narrativa, di sperimentazioni, di novità, e di tradizione, di esordienti e di mostri sacri. Cosa si prova guardando indietro e vedendo tutta quella mole di lavoro? Tutta quella montagna di parole?
JMM – Sì, una montagna di parole, ma lontana, in fondo all’orizzonte, dall’altra parte del deserto di parole vere in cui è diventato l’isterico cicaleccio del mondo. Il linguaggio della pubblicità, della propaganda ideologica, della stampa che fa di ogni tragedia uno spettacolo osceno, tutto questo si è trasformato in una sorta di brusio di fondo, un ronzio costante e assordante, che copre e soffoca le parole belle e necessarie. Al posto di proibirle, di censurarle come in passato, il nostro attuale totalitarismo di mercato ci “strimpella sopra”, le confonde nella mischia, le rende indistinguibili in mezzo alle parole finte, alla moltitudine di discorsi allo stesso tempo straripanti, esagitati e vuoti, sponsorizzati dal sistema e amplificati con i suoi mezzi. E anche una “montagna” come la Sagarana scompare nel mucchio delle finte catene montuose di cartone e plastica. La grande domanda è: come distinguere oggi il vero dal falso, in mezzo al chiacchiericcio generale? Come comunicare al lettore i criteri di selezione, la misura della qualità, la lucidità e la sensibilità, che gli permetteranno di fare le scelte giuste?
Come nasce l'idea di fare una rivista letteraria? Tu sei arrivato in Italia. Hai trovato comunque un mondo letterario attivo, produttivo, tante riviste sia cartacee che virtuali. Da quale bisogno nasce questa rivista? Cosa mancava in quello che c'era, che tu hai pensato di poter portare?
JMM – Quando sono arrivato in Italia, alla metà degli anni ’90, le riviste letterarie e il mondo editoriale erano già in crisi. Verso la fine del decennio sono scomparse le ultime riviste cartacee, e negli anni successivi, in parte per occupare quel vuoto, sono nate le riviste on-line come Golem, Bookcafè, ‘tina, Il mestiere di scrivere e più avanti Vibrisse, Sagarana, El-Ghibli, Kumà, la tua Letterranza, Nazione indiana, eccetera. Molte riviste nate dopo Sagarana sono già scomparse, o hanno oggi un ritmo così lento di inserzione di materiale nuovo che sembrano in pratica sospese. Dopo l’entusiasmo del primo momento, è molto difficile tenere in vita una pubblicazione culturale. Spesso, dopo una bella edizione che è costata un sacco di lavoro di un’intera squadra di volontari, la risposta dall’altra parte sembra nulla, un silenzio assoluto, incomprensibile. È vero, i numeri delle statistiche di accesso dicono che qualche centinaia o migliaia di computer si sono collegati a quell’indirizzo IP nei giorni precedenti. Ma sono numeri freddi, anonimi, sono sguardi che ci osservano in silenzio, nascosti nel buio. E a volte questa mancanza di feedback perdura per diverse edizioni di seguito e diventa esasperante. Tranne per l’una o l’altra richiesta di scambio di link, per una poesia arrivata come un allegato di un messaggio e-mail, tutto tace. La squadra, stanca, demotivata, pressata da altri impegni più concreti, comincia a disperdersi, a non trovare più il tempo, a rendersi introvabile. Sembra proprio che tutto sia stato inutile, uno spreco di energie, che non c’è nessuno dall’altra parte dello schermo disposto a ricevere i doni che gli hanno faticosamente confezionato. L’esistenza della pubblicazione è a rischio, e non si sa se uscirà il prossimo numero. Ci sono anche i debiti con il webmaster, con il tecnico di informatica, con il dominio, con lo spazio web, con l’anti-virus, con le telefonate, la posta e tutti i debiti il direttore deve pagarli di tasca propria perché i volontari non posso offrire altro che il loro tempo, ed è già tanto, e gli sponsor non ci sono per una rivista culturale, e on-line poi. La manutenzione della rivista provoca ogni mese una piccola ma costante emorragia di denaro. I figli stentano a capire il perché di quelle spese extra, di quell’hobby costoso, e poi si deve rinunciare alle vacanze, alla riparazione della macchina, e la moglie che a volte dice, o a volte solo pensa e non lo dice, che “se una rivista culturale interessasse a qualcuno vedrai che qualche soldo veniva fuori, e se non c’è nessun patrocinio né nessuna pubblicità, allora vuol dire solo che…” – e il direttore cerca di fare le cose discretamente, di accendere il computer quando tutti già dormono e lavorare nelle ore piccole, di coinvolgere altri interessati e di formare una nuova équipe, di far circolare il bellissimo sommario del prossimo numero, di trovare altri testi e altre illustrazioni per arricchirlo, per costruire un insieme coerente, di invitare i traduttori più bravi, di ricercare il più possibile, nella Rete, nelle biblioteche, nelle librerie, nelle bancarelle di libri usati e nei remainder, di chiedere suggerimenti ad amici fidati, di ricordarsi di cose belle lette in passato, di chiedere testi inediti agli scrittori, che a volte li scrivono e a volte riciclano qualcosa che non aveva avuto la meritata visibilità. E dopo settimane o mesi di intenso lavoro notturno, quotidiano, viene finalmente messa on-line una nuova edizione, bella, importante, ricca di idee e di preziose novità. Ma ci sarà qualcuno interessato a leggerla? Arriva l’aspettativa del giorno dopo, di quello seguente, e dopo giorni e giorni sempre quel silenzio incomprensibile, il rumore grigio della comunicazione fallita. Ecco, più o meno, l’esperienza di tante riviste letterarie. E così molte riviste chiudono dopo qualche mese, o al massimo qualche anno, per totale esaurimento delle piccole risorse individuali, della pazienza dei parenti, dell’energia fisica e mentale, della speranza. Per questo, oggi che la Sagarana è riuscita a completare dieci anni di esistenza ininterrotta, possiamo celebrare qualcosa di raro e di speciale. Eppure, nel suo percorso, è passata attraverso tutte quelle difficoltà descritte sopra e di più, ha dovuto superare dei periodi in cui mancavano anche le risorse minime per la sua manutenzione tecnica, ma improvvisando, rimandando i debiti, chiedendo aiuto gratis agli amici, non ha mai saltato un solo numero trimestrale né una sola lavagna settimanale. Come è stato possibile? Forse perché sapevo che se non lo facevo io era improbabile che qualcuno avesse voglia di farlo, di questi tempi.
Se Sagarana, un domani, diventasse anche casa editrice... cosa pubblicherebbe? Quali sarebbero le sue priorità, la sua linea editoriale? Cosa apporterebbe di nuovo ad un mercato del libro già talmente difficile, avaro di spazi per le novità...?
JMM – In verità ho già avuto a Rio de Janeiro una casa editrice, la Anima, negli anni ’80, che ha pubblicato più di 50 titoli ed è stata la casa editrice che ha presentato più opere prime di autori brasiliani di valore in quel periodo, oltre a traduzioni di diversi scrittori stranieri ancora inediti nel paese. So che la Sagarana è diventata un marchio di qualità e di prestigio, e che ha il suo pubblico, ciò che potrebbe configurarsi come delle condizioni favorevoli per trasformarla in una casa editrice. Ma il fatto è che mancano le precondizioni. Non ho qui in Italia quella particolare forma di energia che viene dalla sinergia con altri e che ti permette di costruire strutture più complesse. Sono piuttosto solo in questo senso imprenditoriale, e poi sono a Lucca, fuori dai grandi centri decisionali e dall’ambiente editoriale, oggi concentrato quasi esclusivamente a Milano, e finalmente, con la fine delle piccole e medie case editrici e la scomparsa della libera distribuzione e degli spazi non pagati e non imposti per le recensioni sulla stampa, mi sembra che l’Italia sia diventata un paese impossibile per iniziative del genere. Una nuova casa editrice di qualità oggi, in questo ambiente, sarebbe abortita ancora prima di nascere dai mille impedimenti burocratici, economici, divulgativi e distributivi che invece favoriscono solo imprese editoriali come quelle appartenenti alla famiglia Berlusconi e poche altre. Con questo andazzo saranno fra poco le uniche a rimanere sul mercato, avranno il monopolio esclusivo dell’editoria, e non a caso hanno acquisito negli ultimi anni le catene librarie e le ultime ditte autonome di distribuzione di libri. Il monopolio dei Berlusconi nell’editoria è orizzontale ma è anche verticale, e va dalla firma dei contratti esclusivi con gli autori che ci stanno, fino alla precisazione dei metri quadri di obbligo nelle vetrine e sui banconi delle librerie o dell’ipermercato del quartiere. Come si fa a pensare a creare una casa editrice in un territorio occupato manu militare, fortemente ostile alla pur più timida concorrenza, deciso a imporre i suoi titoli attraverso l’invisibilità forzata di tutti quelli che non le appartengono? È impossibile. In tale circostanze, è una partita persa in partenza. L’unica resistenza possibile oggi è quella che facciamo noi, usando Internet, creando degli spazi gratuiti, non commerciali. Sappiamo che il loro scopo finale è quello di colonizzare anche Internet attraverso nuove leggi repressive per l’utilizzo della Rete, leggi create da loro stessi, una volta che sono anche al Governo. La creazione di una sorta di “lasciapassare” gestito da loro per la creazione di siti Internet, come fa il Governo cinese, più l’offerta abbondante dei loro prodotti patinati, a valanga, con una pubblicità martellante a promuoverli, è il prossimo passo nella loro strategia. Dobbiamo resistere finché possiamo ancora farlo.
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FRANCESCA CAMINOLI
Tu sei qui se non sbaglio dal ‘95, quali differenze trovi nel mondo letterario, se le trovi, da quando sei arrivato a oggi? Allora eri un giovane scrittore brasiliano e docente di scrittura creativa, oggi sei uno scrittore che scrive in italiano e professore all'università di Pisa, meglio, peggio?
JMM – Non so se meglio o peggio, Francesca. So solo che la vita cambia, nuovi problemi sostituiscono o si affiancano a quelli vecchi, mentre la vita privata sembra più equilibrata, la vita pubblica, mia e di tutti quelli come me, è così deprimente e drammatica che finisce per compromettere e per inquinare la serenità della vita privata. In Italia oggi, è impossibile tracciare il confine tra l’una e l’altra. Il mondezzaio pubblico ti entra in casa, passa attraverso le crepe, arriva via Internet, via posta, via TV, e ti sporca la casa, i bambini, ogni cosa è infangata nello spirito totalitario di questi tempi, ogni cosa è colpita dalla patologia diffusa che ha sovrastato l’intera società. Non facciamoci illusioni: non è possibile ritagliarsi una vita sana e tranquilla in mezzo alla pornocrazia regnante. Le perversioni del Berlusconismo, dopo quasi vent’anni di “ingegneria sociale”, sono ovunque, onnipresenti, una sorta di stato di assedio, di sorveglianza e di attacco permanente ad ogni modo di essere diverso da quello imposto dal neoliberismo selvaggio. Siamo tutti in libertà vigilata, ma in tanti non se ne accorgono. Ogni mossa non acconsentita può giustificare una rappresaglia pesante, l’oblio, l’esclusione o il killeraggio. L’ordine è questo: agli amici, tutto. Ai nemici, la legge. E quando la legge non c’è, se ne scrive una nuova e così via: arriva la multa, la sospensione, il divieto, il licenziamento, il contratto non rinnovato, la segnalazione punitiva, la lettera di inadempienza. Il sistema ha in mano tutti gli strumenti per creare un vero inferno nella vita di chiunque si opponga, e prima o poi li usa, sempre e spietatamente. Questa è la realtà che vedo intorno a me, che colpisce me e i miei amici, nel lavoro, nella vita familiare. È una grossa sfida mantenerci a galla, sopravvivere, aspettare il cambio della stagione che sembra non arrivare mai. Mi hai chiesto delle differenze che trovo tra il 1995 e oggi. Potrei accennare a tante cose, per esempio alla paranoia istituzionalizzata dopo il 2001, che generò in tante società, negli Stati Uniti, in Italia, in Francia, uno stato di polizia, uno strapotere arbitrario e invadente delle cosiddette “forze dell’ordine” – non dimentichiamo quello che è successo a Genova quello stesso anno, o le “ronde” razziste – uno strapotere sdoganato dall’industria della paura che rende perenne il potere della destra. Ma vorrei parlare di un’altra cosa, di un’altra trasformazione in corso, che nuoce in particolare all’arte e alla letteratura: l’impero dell’idiozia, della banalità. La cultura dell’apparire, che fa di ciascuno una pubblicità mobile e fasulla di se stesso. Fin dai primi anni ’80 – e non a caso in contemporanea con l’ondata neoliberale del periodo Thatcher-Reagan – ho avvertito questa strana deriva, il decadere del prestigio del “significato” in favore della “superficie”. È iniziato con una sorta di allegro sdoganamento del kitsch, spacciato per postmodernismo, e dello stucchevole, oltre a una forte diffusione del misticismo “buonista”, il “new age” all’acqua di rose. La grande letteratura, che ovviamente non ammette queste leziosità e queste manipolazioni, che anzi denuncia le crudeltà che nascondono, ha cominciato allora a essere messa da parte, dalle case editrici ma anche dalle università e dalla scuola in generale, e rimpiazzata con queste formule più “semplici”, che semplici non sono bensì fortemente ideologizzate nella loro melensaggine strumentale. Una vera valanga di banalità, che svolge il doppio compito di proporre una visione piatta e stereotipata delle cose, un atteggiamento conformista e rassegnato all’ “ordine naturale delle cose”, o alla “natura egoista dell’uomo” difesa dalla Sociobiologia, la “scienza” che tenta di legittimare la cupidigia capitalista, uno stimolo a non andare oltre le apparenze delle cose – cosicché un caccia bombardiere sarà ammirato per le sue forme aerodinamiche senza che ci si domandi per che cosa è stato costruito. Il secondo compito, complementare al primo, è quello di fare scomparire il discorso più profondo con il consenso generale, plasmato dai media sottomessi, acritici, e proprio per questo autorizzati a formare l’opinione e il gusto. Chi conosce le idee dell’attuale amministrazione dei grandi canali dei media in Italia sa che l’orientamento è quello di un progressivo appiattimento dell’informazione e della soppressione dell’analisi: la notizia dell’orsetto nato in uno zoo di Mosca o dei nuovi dolcificanti va in primo piano, al posto di quella sulla violazione della nostra Costituzione o degli immigrati uccisi nei Centri di Identificazione ed Espulsione. Pensate alle liste dei “libri da leggere al mare” consigliati dai giornali ad ogni estate, dopo che hanno lottizzato quella pagina tra le case editrici più potenti. Pensate ai titoli in vendita all’Esselunga o al Carrefour. Pensate ai film scelti in prima serata alla Rai, a Mediaset e su Sky. Tra i cambiamenti dell’ultimo decennio, è questo quello più preoccupante, più gravido di conseguenze drammatiche. Perché siamo già a una seconda generazione cresciuta credendo che questa è l’unica informazione possibile, che non conosce altro, che è stata isolata dall’intelligenza, e fra qualche anno, se la tendenza non cambia, non ci sarà più nessuno a tramandare valori diversi da questa mediocrità, non ci sarà nessuno per scrivere queste righe. Sono a rischio, in questo processo quotidiano contro il sapere, la profondità, l’analisi, la critica, la rivelazione delle contrazioni e dei paradossi, l’immaginazione, la complessità, la proposta delle utopie, la libertà di opinione, la difesa dei principi degli esclusi della società e la denuncia delle violenze e delle manipolazioni. Dal 1995 ad oggi, in Italia, sono scomparsi o stanno per scomparire i film d’autore, il teatro sperimentale e impegnato, gli editori veri, le riviste culturali, le librerie, il pensiero politico di sinistra, i cantautori, la aspirazione alla giustizia sociale, il giornalismo di inchiesta, la grande fotografia, i movimenti artistici e i dibattiti culturali. Ossia, un passo più in là e siamo nel deserto.
Sagarana, la tua bella rivista virtuale, ha dieci anni. Cosa ti dà più gioia, soddisfazione, la rivista o la scrittura?
JMM – Dopo la risposta precedente dovrò fare un certo sforzo per sintonizzarmi con il termine “soddisfazione”. Da un lato non ho voglia di fare la iena, ma dall’altro neppure l’uccello del malaugurio che ripete “mai più” posato sulla testa di Minerva. O chissà dire insieme a Balzac “condizione terribile dell’uomo, non v’è in lui una gioia che non derivi dall’ignoranza”. Potrei risponderti invece che non esiste, per uno scrittore, felicità più grande di quella di scrivere, di esprimersi, di cercare le parole e giustapporle in modo che racchiudano e concentrino le sue idee. Di dare vita a un discorso che poi sarà libero e autonomo, avrà vita e destino propri, parlerà lui al posto tuo, ovunque e sempre, e sarà per te preghiera, profezia, professione di fede e testamento. Aveva ragione Mario Tobino quando ha scritto che “per ogni persona la maggior gioia è manifestarsi”. E questa gioia, devo dire, non mi è mancata. Quello che la letteratura in sé ci restituisce, il piacere di rileggere a bassa voce la prima bozza di un tuo testo, ora non più tuo ma suo, di ascoltarlo senza più la fatica di crearlo, è un qualcosa con cui nessun premio, nessun “successo” o applauso potrà mai rivaleggiare. La letteratura mi ha dato tanto, ormai quasi mezzo secolo di scrittura, e tra le tante parole non saprei trovare quelle giuste, all’altezza della mia gratitudine.
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ANTONELLA RITA ROSCILLI
Qual è il tuo sguardo oggi, come scrittore di due mondi o/e tra due mondi? Rispondendo alla tua domanda, sì, la vita mi ha riservato un’esperienza un po’ estrema, questa di vivere due volte, una vita in Brasile e poi un’altra, con l’“hard disk riformattato”, in questo paese. Sono due paesi che hanno molto in comune, sono di cultura prevalentemente latina, del sud Europa, e sono paesi mediterranei, nel senso della parola conferitogli da Blaise Cendras, il quale affermava che “il Mediterraneo comincia a Istanbul e finisce a Rio de Janeiro”. Le sue lingue neolatine sono lingue “sorelle”. Ma è vero anche che le differenze tra di loro sono enormi, nella loro visione del mondo, più fatalista in un caso e più intraprendente nell’altro, nel modo come vedono loro stessi e gli altri, nella loro visione del proprio passato e soprattutto del proprio futuro, che in questo momento non potrebbero essere più contrastanti, e mentre l’uno è ossessionato dall’ “includere” l’altro è tentato dalle iniziative di “esclusione”, e via dicendo. Questo delle differenze e delle somiglianze tra il Brasile e l’Italia è un argomento che mi tocca molto da vicino – mentre i miei genitori erano brasiliani, i miei figli sono italiani e io sono la “terra di mezzo”, come quella delle trincee della Prima guerra mondiale, pericolosa e combattuta, campo minato –, un argomento che ho sviluppato in molte delle mie interviste, ma anche in un romanzo come “Madrelingua” o in un racconto inedito come “Rimpatrio”.
A dieci anni dalla nascita di "Sagarana" senti che culturalmente è cambiato qualcosa in Italia in termini di ricettività della rivista?
JMM – Come avevo scritto nell’editoriale, mi sembra che la rivista cresca in numero di lettori ma anche nella sua capacità di influenzare il contesto dove s’inserisce. Ma siccome ogni realtà è complessa e paradossale, e ha tanti angoli che sembrano contraddirsi mentre si complimentano, vorrei presentare anche una riflessione diversa su questo tema. Può darsi che questa capacità sia anche cambiata in peggio, perché la mentalità generale nel contesto italiano si è molto fossilizzata in torno a certe idee piccolo-borghesi di “status” e di “prestigio culturale”, e al conformismo inneggiato dal sistema, e il mondo letterario non è un mondo a parte ma integra questo contesto, lo rispecchia e lo tramanda. In questo senso forse la Sagarana in questi anni è diventata una pubblicazione ancor più di nicchia, un corpo estraneo nel sistema, anche in quello della sinistra tradizionale. Ma forse proprio per questo è ancora più indispensabile per coloro che non lo sopportano, che sono disgustati dal basso livello. La Sagarana forse è diventata una “scialuppa di salvataggio” , anche perché gli spazi di resistenza vera – che certo non esistono e non possono esistere oggi all’interno dell’Einaudi o della Mondadori per ragioni note a tutti – sono sempre più ridotti, più osteggiati e più invisibili. La speranza del sistema è che i siti culturali ci siano ma che nessuno venga più a visitarli, che i libri non pubblicati da loro esistano ma che nessuno sappia della loro esistenza. Il nostro compito invece è quello di non permettere che questo avvenga, e di contribuire a invertire questa tendenza fino a che siano loro finalmente a uscire di scena. Tornando all’ipotesi iniziale, della crescita della rivista, credo che non sarebbe sbagliato attribuirla in parte all’aumentato interesse per tutto ciò che riguarda il Brasile – c’è un boom di Brasile oggi in Italia, la stampa italiana per esempio ha più che triplicato gli spazi dedicati alla politica, all’economia e alla cultura brasiliana – e l’immagine della Sagarana è associata al Brasile, anche se la rivista ha un respiro cosmopolita. Questo interesse è parte del quadro di questo inizio dell’era postoccidentale, e paesi come la Cina, l’India ma soprattutto il Brasile, che è l’unico tra questi che proviene culturalmente dall’Occidente, sottraggono all’Occidente, agli Stati Uniti, soprattutto, ma anche all’Europa, la centralità culturale, l’egemonia intellettuale. È un fenomeno che allo stesso tempo affascina e irrita e disorienta gli italiani, anche quelli con più coscienza critica e formazione umanistica più consistente. Credo che, proprio per questo, perché aiuta a spostare l’asse di questa visione occidentalocentrica in disfacimento, la rivista piace e non piace, e questo forse spiega in parte perché la Sagarana trovi ancora resistenze ad essere pubblicamente annoverata tra le principali pubblicazioni culturali italiane, in una sorta di malavoglia e di lungaggine, anche se in pratica il suo posto da molti anni è ormai questo.
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ANDREA SIROTTI
Uno scrittore come te, con la tua provenienza e la tua storia personale, che valore dà alla libertà di pensiero e di giudizio in un artista? Pensi che tra gli scrittori italiani in qualche misura questa libertà manchi? JMM – L’importanza è assoluta. La libertà è il terreno fertile dove prospera la creatività. Quando la libertà esterna, istituzionale, è soppressa o limitata, attraverso leggi repressive, o divieti, o censura, tutti se ne accorgono, e la società quasi sempre sa produrre anticorpi per ripristinarla. Il problema più grave è quando accade la riduzione o la scomparsa della libertà interna, che è più sottile e nel suo lento contagio e sviluppo spesso passa inosservata. Tutto sembra normale e consentito, ma niente è normale e nulla è consentito. Penso che la situazione italiana attuale rientri in questa forma sottile ma efficace di autocensura. La libertà degli scrittori si esercita attraverso la potenza della loro fantasia, la capacità e il coraggio di osare pensare l’impensabile, di andare molto oltre i confini del senso comune. Il realismo magico latinoamericano, per esempio, è stato un esercizio sbrigliato di libertà immaginativa. Quindi, quando un popolo cade in preda al conformismo, al pensiero unico, come mi sembra il caso dell’Italia del Duemila, con l’egemonia del pensiero di destra e la sottomissione masochistica ma entusiasta alle cosiddette “regole del mercato”, la libertà di pensiero è fortemente ristretta, c’è una severa costrizione dell’immaginario, che però non è facilmente percettibile perché non è qualcosa che esisteva ed è stata soppressa, come nel caso della censura, ma qualcosa che non è comparsa sulla scena, che non è stata concepita e quindi non può nascere, che non è stata idealizzata e ovviamente sembra di non mancare. Invece manca, eccome! Il meccanismo della creatività è più fragile di quanto si suppone, può prosperare solo in un ambiente che in qualche modo lo contempli, anche come opposizione. Se no, si atrofizza e poi scompare senza lasciare traccia e senza destare reazioni. Per esempio, quando la democrazia è tornata nel Portogallo, dopo la Rivoluzione dei Garofani del 1974, e dopo 50 anni di propaganda del regime di Salazar, che celebrava la mediocrità nazionalista e coloniale e i valori borghesi più retrogradi, i cassetti degli scrittori – che tutti aspettavano che fossero pieni di opere meravigliose censurate – erano vuoti. La censura era penetrata nel loro spirito nella forma dell’autocensura e aveva istaurato da molti anni l’infertilità creativa. E quando si domanda come mai in Germania, durante tutto il periodo del Nazismo, non si era formata un’opposizione organizzata penso che, oltre alla violenza e allo sterminio fisico degli oppositori, bisogna considerare anche un deficit nell’immaginario collettivo, mesmerizzato dal discorso nazista, che aveva sequestrato la soggettività pubblica, il controllo dell’immaginario che ogni totalitarismo mette in atto, sostituendolo con la propaganda incalzante del regime. Oggi in Italia, questa propaganda asfissiante prende la forma della pubblicità e del gossip. Basta guardare un qualsiasi telegiornale per essere sotterrato sotto un ammasso di informazioni ridicole, irrilevanti. Attenzione però, questa valanga è la nuova forma di censura che ci colpisce, non più attraverso il divieto ma attraverso l’eccesso, il riempimento di ogni spazio vuoto con fesserie urlate, con gadget colorati in bella mostra, con le mode stravaganti – una società in cui ognuno desidera assomigliare il meno possibile a se stesso e per questo cerca di imitare e di adeguarsi ai modelli prescelti, a degli stereotipi semoventi –, una successione frenetica che ci stordisce come se fossimo vicini a un treno che ci passa davanti con grande frastuono, in alta velocità, un treno infinito. Come esercitare la creazione in una tale situazione? Come far volare la propria immaginazione? Questa forma isterica di censura è la soppressione della libertà nei tempi nostri. E non ho alcun dubbio che l’Italia di oggi è fortemente repressiva, non per quello che proibisce, ma per tutto quello a cui concede piena visibilità e per tutto quello a cui invece la rifiuta e rende impercettibile. Una repressione non facile da identificare dietro una ben costruita parvenza di liberalità.
Nella Sagarana abbiamo ben chiare queste priorità e leggendo i libri prodotti dai nostri ex-allievi uno può accorgersi dell’efficacia di questa impostazione. Nella Sagarana non si impara a scrivere narrativa o poesie per fornire “prodotti” all’industria dell’intrattenimento, ma per trasformare la vita, per vedere la letteratura raggiungere il limite massimo del suo potenziale di rivelazione e di cambiamento.
Infine una domanda banale (ma che m'incuriosisce molto): cosa ti manca dell'ambiente letterario brasiliano e cosa "esporteresti" volentieri in Italia?
JMM – Dall’ambiente brasiliano così com’è oggi molto poco. Forse i concorsi letterari per esordienti con ripercussione nazionale e i festival letterari come quello di Paraty, che fa convivere gli scrittori brasiliani con gli autori stranieri e con il pubblico in un villaggio isolato e fuori del tempo. Poi, il resto non è molto diverso dell’Italia, e anche lì le priorità sono sballate e il successo di uno scrittore è definito a tavolino in una combutta tra le grandi case editrici e i media che in molto ricorda la realtà italiana. Lì come qui c’è poco spazio per il vero talento e, anzi, se uno scrive in una forma “alta”, complessa, profonda, innovativa, o presenta nella sua opera aspetti illuminanti della realtà che la rendono “eversiva” agli occhi del sistema, allora avrà molte difficoltà per pubblicare o per farsi leggere, sarà visto come qualcuno sconveniente, inadatto per le formule del “successo”, uno che combina guai, insomma, un piantagrane, che produce una merce ostica, difficile da vendere sui banconi dell’Esselunga. Se pensiamo invece all’ambiente letterario degli anni ’60 e ’70, in Brasile, gli anni del “boom” letterario, quando ho scritto i miei primi libri, allora è tutta un’altra storia. Da lì, porterei in Italia quasi tutto: l’attenzione qualificata di un pubblico informato e numeroso, il carattere di resistenza della letteratura, l’abbondanza delle riviste letterarie e dei supplementi letterari nei giornali, il coraggio delle case editrici, i concorsi letterari integri, con una giuria di alto profilo, che leggeva tutto che arrivava e premiava quasi sempre perfetti sconosciuti che avevano scritto qualcosa di veramente straordinario, i dibattiti letterari nelle università che a volte si prolungavano per sei, sette ore, e persino i bar e i piccoli ristoranti che rimanevano aperti fino all’alba e dove si parlava di tutto, i tavoli in comunicazione tra di loro, dove si leggeva a voce alta e nascevano le riviste letterarie e i manifesti: a Rio il Luna, il Diagonal, il Ra, la pizzeria Guanabara, il Cervantes, il Lamas, l’ Antonio’s e il Degrau; a Belo Horizonte il Lucas, il Luna Nova, e a São Paulo tutti quelli vicini al Teatro Arena e alla Boca do Lixo.
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MONICA DINI
In questo periodo dove tutto e tutti tendono all'omologazione non credi che sarebbe giusto creare una specie di gruppo di resistenza, non solo legato alla scrittura migrante, della quale sei un noto esponente, ma anche a tutte quelle voci che non hanno ancora la forza per essere udite in modo autonomo?
JMM – Questo gruppo non lo devo creare io, ma è qualcosa che deve nascere spontaneamente, come effetto di un’urgenza, del bisogno di autopreservazione. Magari potrà coagularsi in torno a una idea, o a un “contenitore” più ampio come la Sagarana. Per esempio, qualche settimana fa ho tenuto un laboratorio di scrittura full immersion all’interno di un centro sociale di Pisa che è uno spazio fantastico, il Rebeldia, e che è minacciato di sfratto dal Comune. Il laboratorio, fatto per giovani non-italiani che scrivono, aveva anche lo scopo simbolico di appoggiare la permanenza del Rebeldia nella sua sede tradizionale. Ecco, lì, insieme a questi migranti e agli organizzatori, giovani italiani con un pensiero moderno, generoso e cosmopolita, ho avvertito la formazione di un gruppo come quello che proponi. Non so se riuscirà a formarsi, o se il Rebeldia si salverà dalle ruspe, o se la Sagarana stessa riuscirà a sopravvivere a lungo, ma il fatto è che il seme di un’azione comune l’ho intravisto in quei giorni di lettura e di scrittura. Ma sì, hai ragione, restare frammentati, isolati, adottare l’autoreferenzialità come unica strategia di sopravvivenza è fare il gioco del sistema, è indebolirsi e permettere che si consolidi l’egemonia culturale del Berlusconismo. Bisogna creare spazi comuni, reali e virtuali, mettersi insieme agli altri che la pensano come noi, discutere e riflettere, passare avanti le informazioni, ascoltare le denunce e i progetti, fare da soli ciò che richiede solitudine ma fare insieme ai nostri pari tutte le altre cose che funzionano solo collettivamente.
Se tu avessi un secchio magico, cosa vorresti vedere nel futuro della Sagarana?
JMM – La Sagarana ha delle difficoltà oggettive immense, non dobbiamo farci illusioni, ma ha anche dimostrato di avere una forte capacità di sopravvivenza e di superamento degli ostacoli, soprattutto attraverso la riduzione delle sue necessità, fino al minimo possibile, e non a caso è arrivata all’undicesimo anno di attività. Quello che diventerà, le forme che prenderà nel futuro, dipenderà molto da quello che i nostri lettori e il gruppo di giovani scrittori che l’hanno “adottata” chiederanno da noi. Insieme alla coerenza e ai principi abbiamo anche grande flessibilità. Ma è chiaro che la richiesta di adattamento e la crescita dei nostri traguardi dovranno venire accompagnate dai mezzi per realizzarle, altrimenti non saranno altro che “wishful thinking”. Credo di avere le antenne ben attivate e sensibili ai mutamenti e agli umori della società italiana, e vedo che dietro le apparenze di stagnazione certi modelli perversi si stanno esaurendo e altri, più positivi, vogliono affermarsi, soprattutto per quanto riguarda gli “anticorpi” e le strategie di resistenza. Mi auguro che la Sagarana capisca i segni dei nuovi tempi e sappia definirsi un ruolo efficace nella, spero, non lontana rinascita dell’Italia. Julio Monteiro Martins
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