VIA PROLETKUL'T – Brano tratto dal romanzo Alborán – Emiliano Poddi
(…) Via Proletkul't.
Era lì che ogni tanto andavo a rintanarmi, nello studio più antico della radio – il suo sancta sanctorum, come diceva Ezio, che sosteneva di sapere il latino –, la grande sala in cui erano stati registrati i primi radiodrammi della storia.
Di preciso non so come stessero le cose per il mio tecnico, ma io dovevo andarci per forza, perché a volte non mi bastava nemmeno la radio con la moquette dei suoi corridoi, le imbottiture alle porte, i doppi vetri e il perfetto isolamento acustico delle pareti. C'erano momenti in cui mi veniva di infilarmi in un posto ancora più appartato, dove starmene lontano da tutti. Avevo la sensazione che solo lì dentro riuscissi a respirare senza che mi venisse l'affanno. Ed era curioso, dato che la polvere, il buio e l'odore di chiuso ne facevano di sicuro uno dei luoghi meno adatti al mondo dove prendere una boccata d'ossigeno. Ma dipende da come siamo fatti, lo avevo imparato da piccolo. Avevo imparato che gli scalari dovevano tuffarsi in acqua e restare sommersi, se volevano respirare, mentre a contatto con l'aria si sentivano subito soffocare e per questo si contorcevano sulla plastica. Sta di fatto che nelle pause, o dopo la diretta quotidiana, Ezio tirava fuori da un tascone dei jeans il mazzo di chiavi più grosso che abbia mai sentito sferragliare, messo insieme in anni e anni di servizio, capace di aprire le cento porte del palazzo della radio, e con la sua chiave più massiccia faceva scattare la serratura dello studio abbandonato di via Proletkul't.
Lo chiamavo così per i vecchi arnesi di registrazione e montaggio ammassati negli angoli, macchinari già da molto tempo caduti in disuso, mastodontici, grigi e pieni di acciaio, forse ancora funzionanti anche se nessuno più avrebbe saputo in che modo; tutte quelle valvole, quei pulsanti, le cartucce delle bobine, gli avvolginastri, le manopole, le testine da posizionare sulle diverse tracce - una tecnologia farraginosa e commovente che un tempo doveva essere avveniristica -, mi avevano sempre fatto pensare a qualcosa di estinto come l'Unione Sovietica, e in particolare a un indirizzo di Leningrado, via Proletkul't 2 appunto, dove aveva sede la radio di quella città dal nome pure lui scomparso.
Era un posto dove capivi subito quanto ci si fosse allontanati dai cosiddetti albori, cioè da quando i tecnici in camice bianco avevano schiacciato il primo bottone di una diretta nazionale provando qualcosa come l'ebbrezza dell'avanguardia; il nome stesso della radio doveva sembrar loro una specie di promessa - RAI -, la parte finale di un verbo sempre orientato al futuro.
Invece non esisteva niente che fosse in grado di misurare altrettanto bene come le macchine di via Proletkul't lo scorrere del tempo. Sembravano nate per quello, essendo ormai stata dimenticata la loro funzione originaria. C'erano le tacche nere e i numeri segnati in rosso; c'erano i contagiri e le mezzelune di vetro, e sotto la loro superficie un po' appannata c'erano le lancette.
In faccia Ezio portava sempre impresso il broncio tipico delle sue parti, il basso Monferrato, impossibile da cancellare anche in presenza del più vivo buon umore. Ma in via Proletkul't la
sua espressione perdeva all'istante il carattere subregionale per tramutarsi in qualcosa che avresti definito dramma esistenziale russo.
Mescolava il caffè della macchinetta e intanto se ne stava lì tutto rannicchiato, con le spalle incassate, in posizione di ascolto, come se aumentando la curvatura del corpo riuscisse ad accogliere meglio il suono delle mie frasi. Chissà perché in via Proletkul't parlavamo sempre a bassa voce. Forse c'entravano le pareti curvilinee e il legno dei rivestimenti, che sommati alla concavità di Ezio garantivano un'acustica tale che per intendersi bastavano dei sussurri. Magari era l'atmosfera sovietica a consigliarci una certa prudenza. O forse, semplicemente, ci veniva di bisbigliare perché quello era diventato il posto delle confessioni, specie il soppalco.
Sopra lo studio c'erano due salette cui si accedeva tramite una scala che sembrava un lavoro mollato a metà. Dalla parte della ringhiera i gradini erano rivestiti di moquette e dall'altra erano di legno nudo, a seconda che si volessero registrare passi striscianti come quelli di una spia russa ovviamente, del KGB - o risoluti come quelli di una donna che cammina sui tacchi, un suono capace di condizionare il ritmo cardiaco di chi lo ascolta. Però a me, la prima volta che Ezio mi ci portò, quella scala fece venire in mente qualcosa che con il rumore dei passi non c'entrava.
Percorrendoli con un piede sul legno e l'altro sul morbido, immaginai che i gradini non fossero stati sempre in quelle condizioni; mi dissi che un tempo dovevano essere completamente ricoperti della moquette verde che ora li rivestiva solo per metà. Giorno dopo giorno ne era venuto a mancare un quadratino, senza che si potesse scoprire l'autore di quelle sottrazioni così precise e geometriche. Alla fine la scalinata era rimasta mezzo nuda come la si vedeva adesso, mentre i quadratini di moquette verde erano ricomparsi in forma di prato davanti alla grotta di Betlemme, nei cento e passa presepi che aveva costruito il nonno. Ecco cosa mi ricordava quella parte di via Proletkul't, il salotto del nonno.
Ezio aprì la serratura di una delle due sale del soppalco. Aveva una volta altissima ed era ricoperta di piastrelle amaranto smaltate, minuscoli specchi in grado di riflettere la luce e il suono. Era costruita in modo che al suo interno ci fosse un gran riverbero, mi spiegò Ezio, e si utilizzava per riprodurre l'ambientazione sonora di una cattedrale, di un capannone vuoto...
«Anche di una grotta?»
«Certo» disse Ezio, "anche di una grotta. Perché?»
Non gli risposi, e nonostante questo la domanda non fu ripetuta. E pure questo mi piaceva di lui, che non si lasciasse impressionare da certi miei silenzi, che anzi li considerasse come qualcosa di delicato, da maneggiare con cura. Ezio sapeva bene quanto spazio ci volesse tra due frasi, conosceva l'importanza delle pause.
Poi di punto in bianco attaccò a fischiettare «Quando sei qui con me...», io ci cascai in pieno perché gli chiesi come mai proprio quel pezzo, e bisognava vedere il suo sorrisetto mentre mi diceva che era per via del titolo.
«Il titolo?»
«Sì» disse lui, «il titolo: "L'eco in una stanza".» «Ma vaaaaaaa'.. »
«Sai, qui dentro gli attori praticamente urlavano. Volevano riempire lo spazio, spingere la voce fino al soffitto, in ogni angolo della sala. O magari era solo vanità.»
«Come vanità?»
«Tutte queste piastrelle tirate a lucido», disse. «Secondo me parlavano a voce alta per quello: la loro voce doveva potersi specchiare in ogni singola piastrella.»
Quando uscimmo di li Ezio si tirò dietro la porta, e anche dall'esterno fu possibile sentire i rintocchi della serratura che risuonavano nel vuoto. Provai rispetto per quell'uomo che sembrava capace di chiudere a chiave l'eco.
No, non rispetto: era qualcosa di più, me ne resi conto quando vidi che ne stava già cercando un'altra, di chiave, presumibilmente quella della seconda saletta. Era la felicità di seguire qualcuno in un mondo di cui poteva spalancarti tutte le porte. Era l'ansia di scoprire cosa ci fosse dietro ciascuna di quelle porte.
«Sala anecoica», disse Ezio.
Era anche il gusto di imparare nomi nuovi – sala anecoica, sala anecoica... – assaporandoli in bocca subito dopo averli sentiti per la prima volta.
«Chiudi gli occhi, ragazzo.»
Si possono chiudere gli occhi per tanti motivi. Quando sei piccolo ti dicono di farlo davanti a una sorpresa, e io li avevo chiusi innumerevoli volte per poi riaprirli su triremi romane, presepi tascabili e cannoni austroungarici. Avevo anche imparato che gli occhi si chiudono quando vuoi tenere aperte le orecchie; non c'è altro modo, me lo aveva spiegato il nonno, perché non è che le orecchie puoi aprirle o chiuderle davvero, dunque l'unica maniera per farle funzionare meglio è togliere di mezzo la vista. E in effetti al buio le parole registrate con il microfono si sentivano più nitide, come se qualcuno ne avesse ricalcato i contorni. Si sentivano anche più forti, tanto che una volta avevo sbirciato se per caso il nonno non approfittasse della situazione per alzare il volume: invece no, se ne stava lì seduto, anche lui con gli occhi chiusi.
Nella sala anecoica Ezio non si mise a cantare, per la sua dimostrazione si limitò a battere le mani. Sembrava tutto così secco, tra quelle mura strette, così definitivo: dicevi una cosa e non potevi ripensarci, non riuscivi ad acciuffare le parole per la coda perché non ce l'avevano, una coda. Non era una bella sensazione, cominciavo a sentirmi nervoso.
«Tranquillo, anche agli attori faceva quest'effetto. La mancanza di eco li metteva a disagio. Una volta un'attrice disse che parlare senza eco era come camminare senza ombra.»
Lì dentro si potevano registrare i dialoghi delle scene esterne senza dover uscire dalla radio, dato che la totale assenza di riverbero suggeriva all'orecchio spazi aperti, vasti orizzonti naturali. Quello stanzino quattro metri per quattro era stato una prateria del Kansas in un documentario sulla provincia americana, l'Oceano Indiano in un radiodramma sui pirati somali e le steppe dei kirghisi nell'adattamento di un racconto di Cechov. Bastava tenere gli occhi chiusi, immaginarsi un paio di effetti sonori - il vento, il fruscio dell'erba, lo stridore delle gomene - e di colpo diventava tutto vero. Era un ambiente ai limiti della claustrofobia, ma in termini puramente acustici ci trovavamo nel luogo più sconfinato della radio. E a me vennero in mente le patatine.
«Fritte o in busta, ragazzo?»
«In busta», dissi, «tipo le San Carlo.»
Gli raccontai che quell'anno avevano dato l'Ig-nobel - il premio per la scoperta scientifica più inutile - a un tizio che aveva condotto uno studio sul suono delle patatine. Aveva dimostrato, questo tizio, che se una patatina fresca sotto i denti fa un rumore molle viene percepita come vecchia, mentre una patatina che fa croc sembrerà appena sfornata anche se è scaduta da anni.
«Ci pensi? Il sapore non conta.»
«Ne sai altre?» fece Ezio.
»Ce ne ho un mucchio così.»
«Anch'io, che ti credi?»
Da lì era venuta l'idea di piazzarci di tanto in tanto in un angolo di via Proletkul't e scambiarci queste nostre storie, vere o inventate che fossero. Un musicista sardo aveva composto una suite per violoncello e sabbia di mare (Ezio). Un architetto di Bilbao sonorizzava i mobili, tu ti stendevi sul letto e partiva un Notturno di Chopin (io). Un attore era scoppiato a ridere mentre doppiava un cartoon giapponese in cui un ambulante di hot dog veniva derubato da due ragazzi e inseguendoli gridava «fermatevi, mascalzoni!», una battuta che però in lingua originale suonava tipo «lassat'a sasizz'!» (Ezio). Edith Piaf aveva avuto una mezza dozzina tra mariti e compagni, quasi tutti morti tragicamente, l'ultimo durante un volo sull'Atlantico, l'aereo aveva perso quota e si era inabissato nell'oceano facendo il tipico rumore di quando morivano i fidanzati di Edith: Piaf (io).
Ma nelle due salette era diverso, di solito lì dentro i discorsi si facevano seri, forse per le condizioni acustiche un po' estreme. Le parole o rimbombavano o finivano di colpo. I nostri errori avevano infinite conseguenze nella stanza dell'eco ed erano irrimediabili nella stanza senza eco. Ti veniva da pensare che non ci fossero mezze misure. (Brano tratto dal romanzo Alborán, Instar Libri, Torino, 2010.) Emiliano Poddi č nato a Brindisi nel 1975. Autore teatrale e radiofonico, docente di scrittura creativa, ha pubblicato Tre volte invano nel 2008.
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