COLLA PAZZA Etgar Keret
«Non toccare», mi ha detto. «Perché?», ho domandato. «È colla. Una colla speciale, super adesiva». «E perché l’hai comprata?». «Mi serve, ho un sacco di cose da incollare». «Ma non c’è niente che abbia bisogno di essere incollato» mi sono spazientito, «non capisco perché tu compri tutte queste scemenze». «Per lo stesso motivo per cui ti ho sposato» ha risposto lei stizzita, «per passare il tempo». Non volevo litigare, perciò sono rimasto zitto. Anche lei è rimasta zitta. «È efficace questa colla?» ho domandato. Lei mi ha mostrato la confezione con la fotografia di un uomo appeso al soffitto a testa in giù dopo che gli avevano spalmato di colla le suole delle scarpe. «Nessuna colla riesce a fare una cosa simile» ho detto, «questo signore è stata fotografato normalmente, in realtà sta in piedi su un pavimento. Hanno soltanto capovolto un lampadario in modo da dare l’impressione che il pavimento fosse il soffitto. Lo si capisce dalla finestra. Vedi? La maniglia è montata al contrario». Ho indicato la finestra che appariva nella foto, ma lei non l’ha guardata. «Sono le otto» ho detto, «devo scappare». Ho preso la borsa e l’ho baciata sulla guancia. «Oggi torno tardi perché…» – «Lo so» mi ha interrotto, «fai gli straordinari».
Ho telefonato a Mihal dall’ufficio. «Oggi non posso venire» ho detto, «devo tornare a casa presto». – «Perché?» ha domandato, «è successo qualcosa?» – «No… cioè, a dire il vero sì. Penso che lei abbia dei sospetti». C’è stato un lungo silenzio all’altro capo del filo, potevo sentire i respiri di Mihal. «Non capisco perché restiate insieme» ha sussurrato alla fine, «non fate niente voi due, non litigate nemmeno più. Non riesco a capire, non riesco proprio a capire cosa vi tenga uniti. Non capisco» ha ripetuto ancora, «davvero non capisco…». Si è messa a piangere. «Non piangere Mihal» le ho detto, «è arrivato qualcuno, devo riattaccare», ho mentito. «Verrò domani e ne parleremo. Promesso».
Sono tornato a casa presto. Appena entrato ho salutato ad alta voce ma non ho ottenuto risposta. Sono passato da una stanza all’altra. Lei non c’era. Sul tavolo della cucina ho trovato il tubetto della colla completamente vuoto. Ho cercato di spostare una sedia. Non si è mossa. Ci ho riprovato. Neanche di un millimetro. L’aveva incollata al pavimento. Il frigorifero non si apriva, aveva incollato anche quello. Non capivo il perché di tutte quelle assurdità, lei era sempre stata assennata, non capivo cosa le fosse successo. Mi sono diretto verso il telefono in salotto. Forse era andata da sua madre. Non sono riuscito a sollevare il ricevitore, aveva incollato anche quello. Ho preso rabbiosamente a calci il tavolino del telefono e mi si è quasi distorto un piede. E il tavolino non si è nemmeno spostato. Allora l’ho sentita ridere. La risata arrivava da qualche parte sopra di me. Ho alzato lo sguardo e lei era lì, appesa a testa in giù, attaccata a piedi nudi al soffitto del salotto. L’ho guardata allibito. «Dì un po’» ho domandato, «sei impazzita?». Non ha risposto, si è limitata a sorridere. Il suo sorriso pareva talmente naturale, ora che stava appesa così, all’incontrario, come se le labbra si tendessero da sole grazie alla forza di gravità. «Non ti preoccupare, ti tiro giù io» ho detto sfilando dei libri dagli scaffali. Ho impilato alcuni volumi dell’enciclopedia e mi ci sono arrampicato. «Forse ti farà un po’ male» ho spiegato cercando di mantenermi in equilibrio in cima ai libri. Lei ha continuato a sorridere. Ho tirato con tutte le mie forze ma non è successo niente. Sono sceso con prudenza dai libri. «Non ti preoccupare» l’ho rassicurata, «vado dai vicini a telefonare, a chiamare aiuto». «Va bene» ha riso lei, «io non mi muovo». Ho riso anch’io. Era così bella e insensata appesa così, all’incontrario. I suoi capelli lunghi ondeggiavano, i seni sembravano due gocce d’acqua cadenti sotto la maglietta bianca. Era così bella. Mi sono arrampicato sulla pila dei libri e l’ho baciata. Ho sentito la sua lingua toccare la mia, la pila dei libri è crollata e mi sono ritrovato a dondolare nell’aria, senza nessun appoggio, appeso solo alle sue labbra. (Il racconto è tratto dalla raccolta Pizzeria Kamikaze, e/e editrice, Roma, 2004. Traduzione di Alessandra Shomroni.) Etgar Keret è nato a Tel Aviv nel 1967 da genitori sopravvissuti allo sterminio nazista. Ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti nel 1992. Scrive per la televisione israeliana e lavora per la Tel Aviv University School of Film. Keret è il creatore di un nuovo genere letterario che si esprime principalmente tramite racconti brevi, a volte crudeli, altre più umoristici, scritti in uno stile tagliente, telegrafico e mai superficiale. Lo scrittore israeliano in un'intervista ha dichiarato di essere incapace di scrivere anche poco più di una novella poichè, per quanto si impegni, dopo quattro pagine si accorge di aver già detto tutto quello che voleva dire. Tutti i suoi libri sono pubblicati dalla casa editrice e/o. Il libro da cui ho tratto questi due racconti si intitola "Pizzeria Kamikaze"
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