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Sagarana SONZOGNO


– Brano tratto dal romanzo La romana


Alberto Moravia


SONZOGNO



 

(…) A Giacomo rinunziai del tutto; decidendo di non pensarci più. Sentivo che l'amavo e che, se fosse tor­nato, sarei stata felice e l'avrei amato più che mai. Ma sentivo pure che non mi sarei mai più lasciata umiliare da lui. Se fosse tornato, sarei rimasta di fronte a lui, chiusa nella mia vita come in una for­tezza che, sin quando non volevo uscirne, era veramente imprendibile e incrollabile... Gli avrei detto: «Sono una puttana da marciapiede... niente di più... se mi vuoi, bisogna che mi accetti quale io sono». Avevo capito che la mia forza non era di desiderare di essere quello che non ero, ma di accettare quello che ero. La mia forza erano la povertà, il mio me­stiere, la mamma, la mia brutta casa, i miei vestiti modesti, le mie umili origini, le mie disgrazie e, più intimamente, quel sentimento che mi faceva accet­tare tutte queste cose e che era profondamente ri­posto nel mio animo come una pietra preziosa den­tro la terra. Ma ero sicura che non l'avrei mai più riveduto; e questa certezza me lo faceva amare in una maniera nuova per me, impotente e malinconica ma non priva di dolcezza. Come si amano coloro che sono morti e non torneranno più.
In quei giorni ruppi definitivamente i miei rap­porti con Gino. Come ho già detto non mi piacciono le interruzioni brusche e voglio che le cose vivano e muoiano della loro vita e della loro morte. I miei rapporti con Gino sono un buon esempio di questa mia volontà. Essi cessarono perché la vita che era in essi cessò e non per colpa mia e neppure, in certo senso, di Gino. Cessarono in modo da non lasciarmi né rimpianti né rimorsi.
Avevo continuato a vederlo ogni tanto, due o tre volte al mese. Egli mi piaceva, come ho detto, seb­bene avessi perduto ogni stima di lui. Uno di quei giorni mi diede per telefono un appuntamento in una latteria, e io gli dissi che ci sarei andata.
Era una latteria del mio quartiere. Gino mi aspet­tava nella saletta interna, un camerotto senza finestre, tutto murato di mattonelle di maiolica. Come entrai, vidi che non era solo. Qualcuno sedeva con lui, voltandomi le spalle. Vidi soltanto che indossava un impermeabile verde e che era biondo, con i ca­pelli tagliati a spazzola. Mi avvicinai e Gino si levò in piedi ma il suo compagno restò seduto. Gino dis­se: «Ti presento il mio amico Sonzogno». Allora anche quello si levò in piedi e io gli porsi la mano guardandolo. Ma come me la strinse, mi sembrò che me la chiudesse in una tenaglia e cacciai un grido di dolore. Egli lasciò subito la stretta e io sedetti sorridendo e dicendo: «Ma sapete che fate male... fate sempre così?»
Egli non disse nulla e neppure sorrise. Aveva il viso bianco come la carta, la fronte dura e sporgen­te, gli occhi piccoli, di un celeste chiaro, il naso ca­muso e la bocca simile a un taglio. Aveva i capelli biondi, ispidi e slavati, tagliati corti e le tempie schiacciate. Ma la base del viso era larga, con certe ma­scelle grosse e sgraziate. Egli pareva sempre stringere i denti come se stesse stritolando qualche cosa; si vedeva come un nervo fremere e guizzare tutto il tempo sotto la pelle della guancia. Gino che pa­reva considerarlo con un'amicizia rispettosa e ammi­rata disse ridendo: «Ma questo è niente... se tu sa­pessi come è forte... ha il pugno proibito».
Mi sembrò che Sonzogno lo guardasse con ostilità. Disse poi con una sua voce sorda: «Non è vero che ho il pugno proibito... potrei averlo...».
Domandai: «Che cos'è il pugno proibito?»
Sonzogno rispose brevemente: «Quando si può uc­cidere un uomo con un pugno... allora è proibito usare il pugno.. è come usare la rivoltella».
«Ma senti quanto è forte», insistette Gino ecci­tato e come desideroso di ingraziarsi Sonzogno. «Sen­ti... falle toccare il braccio».
Io esitavo ma Gino ci teneva e pareva che anche l'amico si aspettasse da me un simile gesto. Tesi una mano, mollemente, a palpargli il braccio. Egli ri­piegò l'avambraccio per tendere i muscoli. Ma se­riamente, quasi con cupezza. Allora, con sorpresa, perché a vederlo pareva mingherlino, sentii sotto le mie dita, attraverso la manica, come un pacco di corde di ferro. E ritrassi la mano con un'esclama­zione non sapevo se di meraviglia o di ripugnanza. Sonzogno mi guardò compiaciuto, le labbra sfiorate da un leggero sorriso. Gino disse: «È un vecchio amico... non è vero, Primo, che ci conosciamo da un pezzo?... Siamo, per così dire, quasi fratelli». Egli batté la mano sulla spalla a Sonzogno, soggiungen­do: «Vecchio Primo».
Ma l'altro alzò la spalla come per allontanarne la mano di Gino e rispose: «Non siamo né amici né fratelli... eravamo insieme a lavorare nello stesso ga­rage: ecco tutto».
Gino non si scompose: «Eh, lo so che tu non vuoi essere amico di nessuno... sempre solo, per conto tuo... né uomini né donne».
Sonzogno lo guardò. Aveva uno sguardo fisso, di incredibile immobilità e insistenza; sotto quello sguar­do Gino stornò gli occhi. Sonzogno disse: «Chi ti ha raccontato queste balle?... Sto con chi mi pare... donne e uomini ».
«Dicevo per dire...». Gino pareva aver perso la sua baldanza: «Io certo non ti ho mai visto con nessuno».
«Tu i fatti miei non li hai mai saputi».
«Beh, ti vedevo tutti i giorni mattina e sera».
«Mi vedevi tutti i giorni... e allora?»
«Beh», insistette Gino sconcertato, «ti ho sem­pre visto solo e ho pensato che tu non vedessi nessuno... quando un uomo ha una donna o un amico, si viene sempre a sapere».
L'altro disse brutalmente: «Non fare il cretino».
«Ora mi dai anche del cretino», disse Gino rosso in viso, fingendo un suo capriccioso e familiare ma­lumore. Ma si capiva che era impaurito.
Sonzogno ripeté: «Sì, non fare il cretino altrimenti ti spacco la faccia».
Io compresi improvvisamente che non soltanto era capace di farlo ma anche aveva intenzione di farlo. E dissi, ponendogli una mano sul braccio: «Se vo­lete picchiarvi, vi prego di farlo quando non ci sono... non posso soffrire la violenza».
«Ti presento una signorina mia amica», disse Gino mogio, «e tu la spaventi coi tuoi modi... penserà che siamo nemici».
Sonzogno si voltò verso di me ed ebbe per la prima volta un sorriso. Sorridendo strizzava gli occhi, cor­rugava inegualmente la fronte e oltre ai denti, che aveva piccoli e brutti, mostrava anche le gengive.
Disse: «La signorina non è spaventata, non è vero?»
Risposi seccamente: «Non sono affatto spaventa­ta... ma, come ho detto, non mi piacciono le violenze».
Seguì un lungo silenzio. Sonzogno stava fermo, le mani nella tasca dell'impermeabile, facendo guiz­zare i nervi della mascella e guardando nel vuoto; Gino fumava a testa bassa e il fumo, uscendogli dalla bocca, gli saliva lungo il viso e le orecchie che erano rimaste scarlatte. Poi Sonzogno si levò e disse: «Beh, io me ne vado».
Gino balzò in piedi, con premura e gli tese la mano dicendo: «Allora senza rancore, eh Primo?»
«Senza rancore», rispose l'altro a denti stretti. Mi strinse la mano, ma questa volta senza farmi male, e si allontanò. Era magro e di piccola statura; e ve­ramente non si capiva da dove gli venisse tutta quella forza.
Appena fu uscito dissi scherzosamente a Gino: «Sarete amici e magari anche fratelli... però ti ha detto certe cose».
Gino adesso si era riavuto; e scosse il capo: «È fatto in quel modo... ma non è cattivo... e poi mi conviene tenermelo buono... mi è stato utile».
«In che modo?»
Mi accorsi che Gino era eccitato e fremeva dalla voglia di rivelarmi non so cosa. Aveva fatto improv­visamente un viso ilare, gonfio e impaziente. «Ti ricordi quel portacipria della mia padrona?»
«Sì... e allora?»
Gli occhi di Gino brillarono di gioia; disse ab­bassando la voce: «Ebbene, io, poi, ci ripensai e non lo restituii».
«Non lo restituisti?»
«No... dopo tutto pensai che la signora era ricca e che un portacipria di più o di meno non le importava... tanto più che il colpo ormai era fatto», sog­giunse con caratteristica riserva, «e, in fondo, il la­dro non ero stato io».
«La ladra ero stata io», dissi tranquillamente.
Finse di non udirmi e continuò: «Però, dopo, c'era il problema di venderlo… era un oggetto vistoso, ri­conoscibile e non mi fidavo... così me lo tenni in tasca parecchio tempo... finalmente incontrai Sonzogno, gli raccontai il fatto...».
- «Gli dicesti anche di me?» lo interruppi.
«No, di te no... gli dissi che me l'aveva dato una amica, così, senza far nomi... e lui... lui, pensa, in tre giorni, non so come, l'ha venduto e mi ha por­tato il denaro. Beninteso prendendosi, come era convenuto, la sua parte». Egli tremava dalla gioia e, dopo essersi guardato un momento intorno, trasse dalla tasca un rotolo di biglietti.
Non sapevo neppure io perché, provavo in quel momento un'antipatia forte contro di lui. Non che lo disapprovassi, non ne avevo certo il diritto, ma mi dava fastidio il suo tono esultante; e poi intuivo che non mi aveva detto tutto e che ciò che mi aveva taciuto era sicuramente il peggio. Dissi asciutta: «Hai fatto bene».
«Tieni », continuò svolgendo il rotolo dei biglietti, «questo è per te... li ho contati».
«No, no», dissi subito, «non voglio niente, pro­prio niente».
«Ma perché?»
«Non voglio niente ».
«Tu mi vuoi offendere», egli disse. Un'ombra di sospetto e di infelicità passò sul suo viso e temetti di averlo offeso davvero. Dissi con sforzo ponendogli la mano sulla mano: «Se tu non me l'avessi offer­to, mi sarei, non dico offesa, ma per lo meno mera­vigliata... ma ora sta bene così, non li voglio perché me è una cosa finita, ecco tutto... sono contenta che tu li abbia ».
Egli mi guardava incomprensivo, dubbioso, scru­tandomi come se avesse voluto scoprire il motivo segreto che si celava dietro queste mie parole. E poi spesso, ripensando a lui, mi sono resa conto che non poteva capirmi perché viveva in un mondo diverso dal mio, secondo concetti e sentimenti diversi dai miei. Non so se questo mondo fosse peggiore o mi­gliore del mio, so soltanto che certe parole non avevano per lui il senso che avevano per me, e che gran parte delle sue azioni che a me sembravano riprovevoli, egli le riteneva lecite e persino doverose. In particolare, sembrava annettere la massima importanza all'intelligenza, intesa, però, nel senso di furbizia. E dividendo gli uomini in furbi e non furbi, cercava sempre e ad ogni costo di appartenere alla prima categoria. Ma io furba non sono e forse neppure in­telligente; e non ho mai capito come un'azione malvagia, per il solo fatto di esser commessa accortamente, possa, non dico essere ammirevole, ma neppure scusabile.
Improvvisamente parve sciogliere il dubbio che l'angustiava ed esclamò: «Ho capito, non vuoi il denaro perché hai paura... hai paura che si scopra il furto... ma in tal caso non temere... tutto è andato a posto ».
Io non avevo paura; ma non mi curai di negarlo perché la seconda parte della sua frase mi era riu­scita oscura: «Come sarebbe a dire?» domandai «tutto è andato a posto?»
Egli rispose: «Sì, tutto è andato a posto... ti ri­cordi: ti avevo detto che in casa sospettavano una
cameriera?»
«Si».
«Bene... io ce l'avevo con questa cameriera perché sparlava di me dietro le mie spalle... pochi giorni dopo il furto, capii che le cose si mettevano male per me... il commissario era tornato due volte, mi pareva che mi sorvegliassero. Nota bene: non avevano ancora fatto alcuna perquisizione. Allora mi venne un'idea: provocare con un altro furto la per­quisizione e fare in modo che la colpa del vecchio e del nuovo furto ricadesse su quella donna».
Non dissi niente e lui, dopo avermi guardato un momento con occhi aperti e luccicanti, come per vedere se ammiravo la sua astuzia, continuò: «La padrona ci aveva certi dollari dentro un cassetto... io presi i dollari e li nascosi nella stanza della came­riera, dentro una vecchia valigia. Naturalmente, que­sta volta, fecero una perquisizione, i dollari salta­rono fuori e l'arrestarono. Lei adesso giura che è innocente, si capisce, ma chi le crede? I dollari glieli hanno trovati in camera».
«E dove sta quella donna?»
«Sta in prigione e non vuol confessare... ma sai che ha detto il commissario alla padrona? Stia tran­quilla, signora, o con le buone o con le cattive, finirà per confessare. Hai capito eh? Con le cattive, sai che vuol dire? Botte».
Io lo guardavo e, vedendolo quasi eccitato e fiero, mi sentivo tutta gelata e smarrita. Domandai a caso: «Come si chiama questa donna?»
«Luisa Fellini... è una donna non tanto giovane, superba, a sentir lei faceva la cameriera per sbaglio e nessuno era onesto come lei». Egli rise divertito dalla coincidenza.
Feci un grande sforzo, come chi trae un respiro profondo, e dissi: «Ma sai che sei un gran vigliacco?»
«Come? Perché?» domandò sorpreso.
Ora, dopo avergli dato del vigliacco, mi sentivo libera e decisa. Mi si increspavano le narici dall’ira e ripresi: «E volevi che io prendessi quei denari... ma io l'ho sentito che quelli erano denari che non dovevo prendere».
«E che sarà», disse cercando di ricomporsi, «confesserà... e la lasceranno andare».
«Intanto tu stesso hai detto che la tengono in prigione e che la bastonano».
«Ho detto così per dire».
«Non importa... tu hai fatto andare in galera una innocente... e poi hai anche avuto la fronte di venire a raccontarmelo... sei proprio un vigliacco». Egli si adirò improvvisamente, facendosi pallido; e mi afferrò per la mano: «Tu smettila di darmi del vigliacco».
«Perché? Penso che sei un vigliacco e te lo dico».
Egli perse la testa ed ebbe un gesto di strana vio­lenza. Mi girò la mano nella sua, come avesse voluto romperla, e poi, tutto ad un tratto, chinò il capo e me la morse, forte. Con uno strattone liberai la mano e mi levai in piedi: «Ma sei scemo?» dis­si. «Che ti prende ora?... Mordi?... È inutile, vi­gliacco sei e vigliacco rimani». Egli non rispose ma si prese la testa tra le mani, come se avesse voluto strapparsi i capelli.
Chiamai il cameriere e pagai tutte le consumazio­ni, di me, di lui e di Sonzogno. Poi gli dissi: «Io me ne vado... e ti dico pure che tra di noi è finita... non farti più rivedere, non cercarmi, non venire... io non ti conosco più». Ed egli non parlò né levò il capo; e io uscii.
La latteria era al principio dello stradone, a poca distanza da casa mia. Presi a camminare lentamente dalla parte opposta alle mura. Era notte, con un cielo pieno di nuvole e una pioggia sottile, quasi un polverio d'acqua, per l'aria tepida e immobile. Al solito, le mura erano al buio, salvo qualche fa­nale, l'uno a gran distanza dall'altro. Ma vidi subito, come uscii dalla latteria, un uomo staccarsi da uno di quei fanali e prendere a seguire le mura col mio stesso passo e nella mia stessa direzione. Riconobbi Sonzogno, dall'impermeabile stretto alla vita e dalla testa bionda e rapata. Sotto le mura pareva piccolo, ogni tanto scompariva nell'ombra, poi ricompariva nel chiarore di un fanale. Per la prima volta, forse, mi vennero a noia gli uomini, tutti gli uomini, sem­pre dietro alla mia gonna come tanti cani dietro una cagna. Mi sentivo ancora tutta fremente di ira; e pensando a quella donna che Gino aveva fatto an­dare in prigione, non potevo fare a meno di provare qualche rimorso perché, dopo tutto, il portacipria l'avevo rubato io. Ma, forse, più che rimorso, era un sentimento di rivolta e di irritazione. Pur ri­bellandomi contro l'ingiustizia e odiando Gino, odia­vo di odiarlo e di sapere che era stata commessa l'ingiustizia. Veramente io non sono fatta per que­ste cose; provavo un malessere violento e mi pareva di non essere più me stessa. Camminavo in fretta, desiderosa di raggiungere la mia casa prima che Sonzogno mi abbordasse, come sembrava averne l'in­tenzione. Poi udii alle mie spalle la voce di Gino che chiamava affannato: «Adriana... Adriana ».
Finsi di non udire e affrettai il passo. Egli mi prese per il braccio: «Adriana... siamo sempre stati insieme... non possiamo lasciarci in questo modo».
Con uno strattone mi liberai e continuai a cam­minare. Dall'altra parte, sotto le mura, la figura pic­cola e chiara di Sonzogno era uscita dal buio en­trando nel cerchio di luce di un fanale. Gino, cor­rendomi accanto, riprese: «Ma io ti voglio bene, Adriana».
Egli mi ispirava insieme pietà e odio; e questa mescolanza mi riusciva spiacevole oltre ogni dire. Cercavo perciò di pensare ad altro. Tutto ad un tratto, non so come, mi venne una specie di illumi­nazione. Mi ricordai di Astarita, e come mi avesse sempre offerto il suo aiuto, e pensai che quasi cer­tamente sarebbe stato in grado di fare uscire quella poveretta dalla prigione. Quest'idea sorti subito un effetto benefico: sentii l'animo alleviarsi dal peso che l'opprimeva e mi parve persino di non odiare più Gino e di non provare più per lui che compassione. Mi fermai e gli dissi tranquillamente: «Gino, perché non te ne vai?»
«Ma io ti voglio bene».
«Anch'io te ne ho voluto... ma ora è finita... vat­tene, sarà meglio per te e per me ».
Eravamo in un punto buio dello stradone, dove non c'erano né fanali né botteghe. Egli mi prese per la vita e cercò di baciarmi. Avrei potuto benis­simo liberarmi da sola perché sono forte, e nessuno può baciare una donna che non vuole. Invece non so che spirito malizioso mi suggerì di chiamare Son­zogno che dall'altra parte, sotto le mura, si era fer­mato, e ci guardava immobile, le mani nelle tasche dell'impermeabile. Penso che lo chiamai perché, aven­do trovato il modo di rimediare alla cattiva azione di Gino, ora tornavano ad affiorare nel mio animo la civetteria e la curiosità. Gridai due volte: «Son­zogno, Sonzogno», e lui, subito, traversò la strada. Gino sconcertato mi lasciò.
«Ditegli un po'», proferii con calma appena Son­zogno si fu avvicinato, «che deve lasciarmi stare... io non lo voglio più... a me non mi crede, forse cre­derà a voi che siete suo amico».
Sonzogno disse: «Hai sentito che cosa dice la si­gnorina?»
«Ma io...», incominciò Gino.
Io pensavo che avrebbe continuato per un poco a discutere, come avviene; e che, alla fine, Gino si sarebbe rassegnato e se ne sarebbe andato. Invece, tutto ad un tratto, vidi Sonzogno fare un gesto che non capii, e Gino guardarlo un momento attonito e poi, senza dir parola, afflosciarsi in terra, rotolando dal marciapiede nel fossato. Forse vidi soltanto Gino cadere, e dalla sua caduta ricostruii il gesto di Son­zogno. Perché questo gesto fu così rapido e così si­lenzioso che mi parve di avere avuto un'allucina­zione. Scossi la testa e guardai di nuovo: Sonzogno mi stava davanti, a gambe larghe, e si esaminava il pugno ancora chiuso; Gino in terra, la schiena ver­so di noi, si era riavuto e, puntando un gomito nel rigagnolo, aveva rialzato pian piano il capo. Ma non sembrava che volesse rimettersi in piedi; si sarebbe detto che guardasse fissamente a certa cartaccia bian­ca che si distingueva nella fanghiglia del fossato. Poi Sonzogno mi disse: «Andiamo» e, un po' traso­gnata, mi avviai con lui verso casa.
Egli camminava stringendomi per un braccio e tacendo. Era più basso di me e sentivo la sua mano intorno il mio braccio in tutto simile ad una presa metallica. Gli dissi dopo un poco: « Avete fatto male a dare quel pugno a Gino... lui sarebbe andato via lo stesso anche senza il pugno».
Egli rispose: «Così non vi darà più noia». Dissi: «Ma come fate?... Io non l'ho neppure visto... ho visto soltanto Gino cadere».
Egli rispose: «È una questione di abitudine».
Parlava come masticando le parole prima di pro­nunziarle, o meglio, come studiandone la consistenza tra i denti che teneva sempre serrati, e che io imma­ginavo incassati gli uni dentro gli altri come quelli dei felini. Ora provavo un gran desiderio di palpargli il braccio e risentire sotto la mano tutti quei suoi muscoli duri e tirati. Egli mi ispirava più curiosità che attrazione; e, soprattutto, paura. Ma la paura, finché non se ne chiarisce il motivo, può anche es­sere un sentimento piacevole e, in certo modo, ecci­tante. Gli dissi: «Ma che ci avete nelle braccia?... Ancora non posso crederci».
«Eppure ve l'ho fatto toccare», egli rispose con vanità così seria da sembrare sinistra.
«Non proprio bene... c'era Gino. Fatemi risentire».
Egli si fermò e piegò il braccio guardandomi in tralice, serio e, in certo modo, ingenuo. Ma di una ingenuità che non aveva niente di infantile. Tesi la mano e lentamente, dalla spalla giù giù per il brac­cio, palpai i muscoli. Era per me una strana sensa­zione sentirli così vivi e così duri. Dissi con una voce bianca: «Siete veramente molto forte».
Egli confermò: «Sì, sono forte», con cupa con­vinzione. E riprendemmo a camminare.
Ora mi pentivo di averlo chiamato. Non mi pia­ceva; e, inoltre, quella sua serietà e quei suoi modi mi facevano paura. Così in silenzio giungemmo di fronte a casa mia. Tolsi la chiave dalla borsa, dissi: «Allora, grazie di avermi accompagnata», e gli tesi la mano.
Egli mi si fece dappresso: «Vengo su».
Avrei voluto rispondergli di no. Ma quella sua maniera di guardare fisso, con incredibile insisten­za, negli occhi, mi soggiogò e mi confuse. Dissi: «Se vuoi»; e soltanto dopo aver parlato, mi accorsi di avergli dato del tu.
«Non aver paura», riprese interpretando a modo suo il mio sgomento, «ho del denaro... ti darò il doppio di quello che ti danno gli altri».
«Che c'entra», dissi, «non è mica per il denaro». Ma lo vidi fare una faccia strana, come se un sospetto minaccioso gli avesse attraversato la mente. Intanto avevo aperto la porta. Soggiunsi: «Soltanto, mi sentivo un po' stanca». Egli mi segui nell'an­drone.
Quando fu nella camera, si spogliò con certi gesti precisi di uomo ordinato. Aveva una sciarpa intorno il collo, la svolse con cura, e poi la ripiegò e la mise nella tasca dell'impermeabile. Appese la giubba allo schienale della seggiola e dispose i pantaloni in modo da non guastarne la piega. Mise le scarpe appaiate sotto la seggiola e, dentro le scarpe, i calzini. Notai che era tutto vestito a nuovo, dalla testa ai piedi, non era roba fine, ma solida e di buona qualità. Egli faceva queste cose in silenzio, né lentamente né in fretta, con una regolarità sistematica e ponderata, senza occuparsi di me che nel frattempo mi ero spo­gliata e stesa nuda sul letto. Se mi desiderava, certo non lo mostrava, a meno che quel guizzo continuo dei muscoli sotto la pelle della mascella non deno­tasse turbamento; ma non poteva essere perché lo aveva avuto anche prima, quando non pareva an­cora pensare a me. Ho già detto che l'ordine e la pulizia mi piacciono molto e mi sembrano indicare corrispondenti qualità dell'anima. Ma l'ordine e la pulizia di Sonzogno, quella sera, destarono in me sentimenti tutti diversi, tra l'orrore e la paura. A quel modo, non potei fare a meno di pensare, si preparano negli ospedali i chirurghi, accingendosi a qualche sanguinosa operazione. O peggio, i beccai, sotto gli occhi stessi del capretto che debbono sgoz­zare. Mi sentivo, così distesa sul letto, indifesa ed impotente come un corpo esanime che stia per su­bire qualche esperimento. E il suo silenzio e la sua noncuranza mi lasciavano in dubbio su quel che vo­lesse farmi, appena avesse finito di spogliarsi. A tal punto che quando, tutto nudo, si accostò al capez­zale e, stranamente, mi prese per le spalle con le due mani, come se avesse voluto mantenermi ferma, non potei reprimere un fremito di spavento. Egli se ne accorse e mi domandò tra i denti: «Che hai?»
Risposi: «Nulla... hai le mani diacce».
«Non ti piaccio, eh», egli disse sempre mante­nendomi per le spalle, ritto in piedi presso il capezzale, «preferisci la gente che ti paga, eh». Parlando mi fissava, e quel suo sguardo era veramente intol­lerabile.
«Perché?» dissi. «Sei un uomo come gli altri... e poi tu stesso hai detto che vuoi pagare il doppio».
«M'intendo io», rispose, « tu e le tue pari amate la gente ricca, la gente fine... io sono uno come te... e voi, baldracche, non amate se non i signori».
Riconobbi nel suo tono la stessa funesta e inflessi­bile inclinazione ad attaccar briga che, poco avanti, gli aveva fatto insultare Gino sul più leggero dei pretesti. Allora avevo creduto che nutrisse un ran­core particolare contro Gino. Ma ora capivo che quella sua cupa e imprevedibile suscettibilità era sem­pre pronta ad adombrarsi e che, quando quella spe­cie di demone lo dominava, in qualsiasi modo si agisse con lui sempre si sbagliava. Un po' risentita gli risposi: «Ora perché mi offendi? Ti ho già detto che per me gli uomini sono tutti eguali».
«Se così fosse non faresti quella faccia... non ti piaccio, eh?»
«Ma se ti ho detto...».
«Non ti piaccio, eh », egli continuò, «ma mi rin­cresce, debbo piacerti per forza».
«Oh, lasciami in pace», esclamai con irritazione subitanea.
«Finché ti facevo comodo per disfarti del tuo gan­zo», egli prosegui, «mi hai voluto... poi avresti preferito mandarmi via... e io invece sono venuto... non ti piaccio, eh».
Ora avevo proprio paura. Le sue parole incalzanti, la sua voce calma e spietata, gli sguardi fissi dei suoi occhi che da azzurri parevano essere diven­tati rossi, tutto sembrava portarlo dritto a non sa­pevo che mèta spaventosa. E mi rendevo conto, trop­po tardi, che fermarlo su questa via sarebbe stato impresa altrettanto disperata che arrestare un maci­gno mentre rotola su un pendio precipitoso. Mi li­mitai a levare con violenza le spalle. Egli continuò: «Non ti piaccio, eh... e fai una faccia di schifo quan­do ti tocco... ma ora ti faccio cambiar faccia, carina mia». Levò una mano e fece per schiaffeggiarmi. Io mi aspettavo ormai un gesto simile e cercai di proteggermi con un braccio. Ma egli riuscì a col­pirmi lo stesso, con una durezza oltraggiosa, prima su una guancia e poi, mentre cercavo di stornare il viso, sull'altra. Era la prima volta in vita mia che mi succedeva una cosa simile; e, nonostante il bru­ciore delle percosse, per un momento fui più sorpresa che addolorata. Tolsi il braccio dal volto e gli dissi: «Sai che cosa sei tu? Un disgraziato».
Egli parve colpito da questa frase. Sedette sul bor­do del letto e afferrando il materasso con le due mani, si dondolò un momento. Disse poi, senza guar­darmi: «Siamo tutti dei disgraziati».
Io dissi ancora: «Battere una donna, ci vuole ve­ramente un gran' coraggio». Improvvisamente non potei proseguire e gli occhi mi si empirono di lagri­me. Ma non tanto per gli schiaffi quanto per lo sner­vamento di tutta la serata durante la quale si erano verificati tanti avvenimenti spiacevoli e disgustosi. Mi ricordai di Gino stramazzato nel fango, rammen­tai come non mi fossi curata di lui e fossi andata via con Sonzogno, allegramente, desiderosa soltanto di palpargli quei suoi muscoli straordinari, e, improv­visamente, provai rimorso, pietà di Gino e disgusto di me, e capii che ero stata punita per la mia insen­sibilità e la mia sciocchezza dalla stessa mano che aveva abbattuto Gino. Io mi ero compiaciuta della violenza e ora quella stessa violenza si ritorceva con­tro di me. Tra le lagrime guardai Sonzogno. Egli stava seduto sul bordo del letto, tutto nudo, bianco e senza peli, un po' curvo di spalle, penzolanti quelle sue braccia che non davano a vedere in alcun modo la loro forza. Provai un desiderio improvviso di an­nullare la distanza che ci separava. Dissi con sforzo: «Ma si può sapere almeno perché mi hai battuto».
«Facevi una certa faccia». La pelle della mascel­la gli guizzava, pareva che riflettesse.
Compresi che se volevo rendermelo vicino, dovevo prima di tutto dirgli ciò che pensavo, non nascon­dergli nulla. Risposi: «Tu hai creduto di non pia­cermi... e invece ti sbagliavi ».
«Sarà».
«Ti sbagliavi... in realtà tu, non so perché, mi fai paura... ecco perché ho fatto quella faccia».
Egli si voltò bruscamente a queste parole, con una specie di sospetto scrutandomi. Ma si calmò subito e domandò, non senza vanità: «Ti facevo paura?»
«Si».
«E ora ti faccio ancora paura?»
«No, ora puoi anche ammazzarmi... non mi im­porta più». Dicevo la verità, anzi in quel momento quasi desideravo che mi ammazzasse perché, tutto ad un tratto, non avevo più voglia di vivere. Ma lui si irritò e disse: «Chi ti parla di ammazzarti?... E poi perché ti facevo paura?»
«Che ne so... mi facevi paura... sono cose che non si spiegano».
«Gino ti faceva paura?»
«Perché avrebbe dovuto farmi paura?»
«Ma perché ti faccio paura io?» Egli aveva per-so ogni vanità, ormai; e c'era di nuovo nella sua voce un oscuro furore.
«Beh», dissi per placarlo, «mi facevi paura perché si sente che saresti capace di qualsiasi cosa».
Egli non disse niente e rimase meditabondo qualche momento. Quindi domandò voltandosi, in tono minaccioso: «Tutto questo poi vorrebbe dire che ora debbo rivestirmi e andarmene?»
Lo guardai e compresi che era di nuovo al colmo dell'ira. E che un mio rifiuto mi avrebbe attirato qualche nuova e, forse, peggiore violenza. Bisognava accettare. Ma rammentai quei suoi occhi chiari e provai ripugnanza al pensiero di averli fissi nei miei durante l'amore. Dissi mollemente: «No... se vuoi, resta pure... ma prima spegni la luce».
Egli si levò, piccolo, bianco ma oltremodo ben proporzionato salvo il collo un po' corto, e andò in punta di piedi a girare l'interruttore presso la por­ta. Ma subito capii che fargli spegnere la luce non era stata una buona idea; perché, appena la stanza piombò nelle tenebre, mi assali di nuovo, incoerci­bile, quella paura da cui credevo di essermi liberata. Era veramente come se avessi avuto nella stanza non un uomo bensì un leopardo o altro animale feroce che poteva sia accucciarsi in un angolo, sia saltarmi addosso e dilaniarmi. Forse egli indugiò nel buio cercando la via verso il letto, tra le seggiole e gli altri mobili; o, forse, la paura mi fece parere lungo l'indugio. Certo mi parve che passasse un tem­po infinito prima che egli giungesse al letto; e come sentii le sue mani addossò non potei reprimere un nuovo e più forte sussulto. Speravo che non se ne accorgesse; ma aveva, proprio come gli animali, un istinto molto fine; e, infatti, udii quasi subito la sua voce vicinissima che mi domandava: «Hai an­cora paura?»
In quel buio sicuramente il mio angelo guardiano doveva essere presente. Non so quale sfumatura nella sua voce mi fece intuire che aveva levato il braccio e, secondo la mia risposta, aspettava se col­pirmi o no. Capii che egli sapeva di far paura ed avrebbe voluto non far paura ed essere amato come tutti gli altri uomini. Ma per raggiungere questo scopo non sapeva trovare altro mezzo che quello di incutere una paura nuova e più forte. Levai una mano e fingendo di accarezzargli il collo e la spalla destra riconobbi che, come avevo immaginato, te­neva il braccio alzato, pronto ad abbassarlo e a per­cuotermi in viso. Dissi con sforzo, cercando di dare alla mia voce la solita intonazione dolce e tranquil­lo: «No... questa volta è veramente il freddo... mettiamoci sotto le coperte».
«Così va bene», disse. Questo "va bene" in cui restava un'eco di minaccia, confermò, se ce n'era bi­sogno, il mio timore. Allora, mentre sotto le coltri egli mi stringeva e mi abbracciava e intorno a noi tutto era tenebra, io passai un momento di angoscia acuta, tra i peggiori della mia vita. La paura mi irri­gidiva le membra che mio malgrado parevano riti­rarsi e rabbrividire al contatto del suo corpo singolarmente liscio, sgusciante e serpentino; ma, al tem­po stesso, mi dicevo che era assurdo che io provassi paura di lui in un tale momento, e con tutta la for­za del mio animo cercavo di dominare la paura e di abbandonarmi a lui, senza paura, come ad un caro amante. Sentivo la paura non tanto nelle mie membra che ancora mi obbedivano seppure piene di ribrezzo, ma più intimamente, in fondo al mio grembo che pareva chiudersi e rifiutare con orrore l’amplesso. Finalmente egli mi prese, e io provai un piacere che lo spavento rendeva nero e atroce, e non potei fare a meno di emettere un grido forte, lungo e lamentoso, in quel buio, come se la stretta finale non fosse stata quella dell'amore bensì quella della morte, e quel grido fosse stato quello della mia vita che mi sfuggiva, non lasciando dentro di sé che un corpo esanime e straziato.
Poi restammo nel buio senza parlare. Io ero stre­mata e quasi subito mi addormentai. Provai tosto un senso di peso immenso sul petto, come se Son­zogno vi si fosse accovacciato, tutto raccolto su se stesso, nudo com'era, con le ginocchia tra le braccia e il viso sulle ginocchia. Egli mi sedeva sul petto, le natiche nude e dure premute sul collo e i piedi sullo stomaco; via via che dormivo, il suo peso cresceva e io, pur dormendo, mi muovevo di qua e di là cer­cando di liberarmene o almeno di spostarla Final­mente mi parve di soffocare e volli gridare. La mia voce restò, gridando senza voce, nel mio petto, a lun­go, un tempo che mi parve infinito; poi mi riuscì di emetterla e, lamentandomi forte, mi destai.
La lampada del comodino era accesa e Sonzogno, il capo appoggiato sul gomito, mi guardava. «Ho dormito molto?» domandai.
«Una mezz'ora », egli disse tra i denti.
Gli lanciai una breve occhiata in cui doveva es­sere rimasto il terrore dell'incubo; perché mi domandò, con un curioso accento, come per avviare la conversazione: «E ora hai ancora paura?»
«Non lo so».
«Se tu sapessi chi sono io», egli disse, «avresti più paura di prima ».
Tutti gli uomini, dopo l'amore, sono inclinati a parlare di se stessi e a fare delle confidenze. Sonzo­gno non sembrava fare eccezione a questa regola.
Il suo tono, contrariamente al solito, era casuale, languido, quasi affettuoso. Con una punta di vanità e di compiacimento. Ma io mi spaventai di nuovo, terribilmente, e il cuore prese a saltarmi in petto come se volesse spezzarlo. «Perché?» domandai. «Chi sei?»
Egli mi guardò, non tanto esitando quanto assa­porando l'effetto visibile delle sue parole su di me: «Io sono quello di via Palestro», disse alla fine lentamente, «ecco chi sono».
Egli pensava che non aveva bisogno di spiegare che cosa fosse accaduto a via Palestro e questa volta la sua vanità non si sbagliava. In una casa di quella strada era stato commesso, proprio in quei giorni, un delitto orribile, di cui avevano parlato tutti i gior­nali, e che era stato molto commentato dalla pic­cola gente che si appassiona per questo genere di cose. Anzi la mamma, che passava molto tempo della sua giornata a compitare le notizie della cronaca nera, era stata la prima a farmelo notare. Un gio­vane orefice era stato ucciso nel suo appartamento in cui viveva solo. A quanto pareva, l'arma di cui si era servito Sonzogno, poiché ormai sapevo chi era l'assassino, era stato un pesante fermacarte di bron­zo. La polizia non aveva trovato alcun indizio utile. L'orefice, a quanto sembrava, era anche ricettatore di roba rubata, e si supponeva, giustamente come si vedrà, che fosse stato ucciso durante qualche ille­cita contrattazione.
Ho spesso notato che quando una notizia ci riem­pie di stupore o di orrore, la nostra testa si vuota e la nostra attenzione si fissa sopra un oggetto qual­siasi, il primo che ci capita sotto gli occhi, ma in una maniera particolare, quasi volesse trapassarne la su­perficie e giungere a non so quale segreto che vi si nasconde. Così mi avvenne quella sera dopo che Sonzogno ebbe fatto la sua rivelazione. Tenevo gli occhi spalancati e la mia mente si era vuotata di colpo, come un recipiente che contenga un liquido o della polvere molto fine e sia stato bucato; soltanto pur essendo vuota, io sentivo la mia mente pronta a contenere altra materia e questa sensazione era do­lorosa perché avrei voluto riempire quel vuoto e non ci riusciva. Intanto fissavo gli occhi sopra il polso di Sonzogno che, disteso al mio fianco, appoggiava il gomito sul letto. Egli aveva un braccio bian­co, liscio, privo di peli e tondo, senza alcun indizio di quei suoi muscoli straordinari. Anche il polso era tondo e bianco; e al polso, solo oggetto che Son­zogno avesse conservato sulla sua nudità, era un cin­turino di cuoio, simile a quello di un orologio, ma senza orologio. Il color nero e grasso di questo cin­turino pareva dare un significato non soltanto al braccio ma a tutto il corpo bianco e nudo, e io mi distraevo su questo significato senza tuttavia riuscire a spiegarmelo. Era un significato di color cupo, sug­geriva l'anello di una catena di galeotto. Ma c'era anche qualche cosa di grazioso e di crudele in quel semplice cinturino nero, come di un ornamento che confermasse il carattere repentino e felino della fe­rocia di Sonzogno. Questa distrazione durò un istan­te. Poi, tutto ad un tratto la mia mente si riempì di uno stuolo di pensieri tumultuosi che vi si agitavano come uccelli in una gabbia stretta. Mi ricordai che avevo avuto paura di Sonzogno fin dal primo momento; pensai che avevo fatto l'amore con lui; e capii che in quel buio, cedendo all'amplesso, io ave­vo appreso tutto quello che egli mi nascondeva, con il mio corpo inorridito prima ancora che con la mia mente ignara, e per questo avevo gridato in quel modo.
Finalmente gli dissi la prima cosa che mi venne in mente: «Perché l'hai fatto?»
Egli rispose, parlando quasi senza muovere le lab­bra: «Avevo un oggetto di valore da vendere... io sapevo che quel commerciante era una carogna ma era il solo che conoscessi... mi propose un prezzo ridicolo... io già l'odiavo perché mi aveva truffato un'altra volta... dissi che riprendevo l'oggetto e gli dissi anche che era un truffatore... lui mi rispose una cosa che mi fece perdere la pazienza».
«Che cosa?» domandai. Ora mi accorgevo con stupore che, a misura che Sonzogno raccontava il fatto, la mia paura, per la prima volta, diminuiva e, mio malgrado, un sentimento di partecipazione mi riscaldava l'animo. E domandandogli che cosa avesse detto l'orefice mi accorsi che quasi speravo fosse una cosa atroce tale da scusare, se non giu­stificare, il delitto. Egli disse brevemente: «Disse che se non me ne andavo mi denunziava... insomma pensai: ora basta... e come si voltava... ». Non finì e mi guardò fissamente.
Domandai: «Ma come era lui?» e mi parve lì per lì che questa mia curiosità fosse senza motivo e senza scopo. Egli rispose con precisione: «Calvo, piuttosto piccolo... con una faccia furba, come di le­pre... ». Ma disse queste parole con un'intonazione di tranquilla antipatia che me lo fece vedere e an­che odiare, il ricettatore dalla faccia leporina mentre soppesava con diffidenza e falsità l'oggetto che Sonzogno gli offriva. Ora non avevo più paura per nulla, mi pareva che Sonzogno fosse riuscito a co­municarmi il suo rancore contro l'ucciso e non ero più neppure ben sicura di condannarlo. In verità, mi pareva di capire così bene quanto era accaduto che quasi mi sembrava che sarei stata capace anch'io di commetterlo, quel delitto. Come comprendevo la sua
frase: «Lui mi rispose una cosa che mi fece perdere la pazienza»! Egli aveva già perso la pazienza una prima volta con Gino e una seconda volta con me; e soltanto il caso aveva voluto che né io né Gino rimanessimo uccisi. Lo comprendevo così bene, ero a tal punto dentro di lui, che non soltanto non avevo più paura di lui ma anche provavo una specie di inorridita simpatia. Quella simpatia che non aveva saputo ispirarmi finché avevo ignorato il delitto e lui non era stato che un amante tra i tanti. «Ma non sei pentito?» domandai ancora. «Non hai ri­morso?»
«Ormai è fatta», egli disse.
Io lo guardavo intensamente; e, a questa risposta, mi sorpresi ad approvare, mio malgrado, col capo. Allora mi ricordai di Gino che era lui pure, come Sonzogno si esprimeva, una carogna, e tuttavia era anche un uomo e mi aveva amato e io l'avevo ama­to; pensai che a quel modo avrei potuto domani ap­provare l'uccisione di Gino; pensai che quell'orefice non era né meglio né peggio di Gino, con la sola differenza che non lo conoscevo e che mi pareva giusto che fosse stato ammazzato soltanto perché ave­vo sentito dire in un certo tono che aveva una fac­cia da lepre; e mi venne rimorso e orrore. Ma non di Sonzogno che era fatto a quel modo e si doveva capirlo prima di giudicarlo, bensì di me che non ero fatta come Sonzogno e ciononostante mi lasciavo prendere dal contagio dell'odio e del sangue. Mi venne una specie di agitazione e balzai a sedere sul letto: « Oh Dio», ripetei, «oh Dio, perché l'hai fat­to?... E perché me l'hai raccontato?»
«Tu avevi tanta paura di me», egli rispose con semplicità, «e non sapevi niente... mi parve strano e te l'ho detto... per fortuna», soggiunse divertito dalla propria riflessione, «gli altri non sono come te... altrimenti mi avrebbero già scoperto».
Gli dissi: «È meglio che te ne vai e mi lasci sola... Vattene».
Egli rispose: «Ora che ti prende?»
Riconobbi il tono di quando montava in furore. Ma mi parve di distinguere anche non sapevo che
dolore di scoprirsi solo, condannato anche da me che qualche momento prima mi ero data a lui. E sog­giunsi in fretta: «Non credere che io abbia pau­ra di te... non ho alcuna paura... ma debbo abituarmi all'idea... debbo pensarci... poi tornerai e sarò diversa ».
Egli disse: «Che vuoi pensare?... Non vorrai mica denunziarmi?»
Provai di nuovo a queste parole la sensazione che mi aveva ispirato l'atteggiamento di Gino mentre mi parlava del suo tradimento ai danni della camerie­ra: come di una persona che vivesse in un mondo diverso dal mio. Feci un grande sforzo su me stessa e risposi: «Ma se ti dico che puoi tornare... sai che ti avrebbe detto un'altra donna? Non voglio più sa­perne di te, non voglio più vederti... ecco quel che ti avrebbe detto».
«Intanto però vuoi che me ne vada».
«Credevo che tu volessi andartene.. allora un mo­mento di più o di meno... ma se vuoi restare, resta pure... vuoi dormire qui? Se vuoi, puoi dormire qui con me e andartene via domani mattina... vuoi?» A dire il vero gli facevo queste proposte con voce spenta, triste e smarrita; e doveva esserci nei miei occhi un'espressione sperduta. Ma tuttavia gliele fa­cevo e sentivo che ero contenta di farle. Egli mi rivolse uno sguardo in cui mi parve di intravedere, ma forse mi sbagliai, quasi un barlume di gra­titudine. Poi scosse la testa: «Ho detto così per
dire... veramente debbo andarmene». Si alzò e andò alla seggiola sulla quale aveva disposto i suoi ve­stiti.
«Come vuoi», dissi, «ma se vuoi restare, resta pure... e se», soggiunsi con sforzo, «uno di que­sti giorni hai bisogno di dormire qui, vieni pure».
Egli non disse niente, si vestiva. Mi alzai a mia volta e indossai una vestaglia. Provavo, muovendomi, un senso di follia, come se la camera fosse stata piena di voci che mi sussurravano nelle orecchie intense e pazze parole. Forse fu questo senso di paz­zia che mi fece fare un gesto di cui lì per li non compresi perché lo facessi. Mentre mi aggiravo per la stanza, lenta nei gesti eppure con la sensazione di essere frenetica, vidi che si chinava per allacciare le scarpe. Allora mi inginocchiai davanti a lui dicen­do: «Lascia fare a me». Egli parve stupito, ma non protestò. Presi il suo piede destro e, poggian­domelo in grembo, feci un doppio nodo alla scar­pa. Quindi feci lo stesso al piede sinistro. Egli non mi ringraziò né disse nulla, probabilmente eravamo in due nella camera a non capire perché avessi fat­to quel gesto. Si infilò la giacca. Trasse dalla tasca il portafogli e fece per porgermi del denaro.
«No, no», dissi con uno scatto involontario nella voce, «no, non darmi nulla... non importa».
«Perché?... Il mio denaro non è buono come quello degli altri?» domandò con voce già alterata dall'ira.
Mi parve strano che non capisse la mia ripugnan­za per quel denaro sottratto forse dalla tasca ancora calda del morto. O forse capiva, ma voleva com­promettermi in una specie di complicità e al tempo stesso rendersi conto dei miei veri sentimenti per lui. Obiettai: «No... ma... mica pensavo al denaro quando ti ho chiamato... lascia fare».
Egli sembrò placarsi. Disse: «E va bene... ma almeno accetterai un ricordo». Cavò di tasca un oggetto e lo posò sul marmo del comodino.
Guardai l'oggetto senza prenderlo e riconobbi il portacipria d'oro che qualche mese prima avevo ru­bato nella casa della padrona di Gino. Balbettai: «Che cos'è?»
«Me l'aveva dato Gino, è l'oggetto che dovevo vendere... quello voleva portarmelo via per niente... ma credo che abbia un certo valore... è d'oro».
Mi ripresi e dissi: «Grazie».
«Di nulla», rispose. Infilato l'impermeabile, si stringeva la cintura intorno alla vita. «Allora, arri­vederci», disse dalla soglia. Dopo un momento sentii la porta di casa chiudersi in anticamera. (…)




(Brano tratto dal romanzo La romana, Bompiani editori, Milano, 1947.)




Alberto Moravia
Alberto Moravia, per l’anagrafe Alberto Pincherle: il cognome Moravia è quello della nonna paterna – Alberto Moravia nasce il 28 novembre 1907 a Roma, in via Sgambati, da un’agiata famiglia borghese. Il padre, Carlo Pincherle Moravia, architetto e pittore, è di origine veneziana, mentre la madre, Gina de Marsanich, è di Ancona. Terzo di quattro figli (Adriana, Elena e Gastone, nato nel 1914), Alberto ha una «prima infanzia normale benché solitaria». All’età di nove anni si verifica «il fatto più importante della sua vita», quello che l’autore stesso riteneva avesse inciso «sulla sua sensibilità in maniera determinante»: la malattia da cui non guarirà del tutto che verso i diciassette anni, lasciandolo leggermente claudicante. All’età di nove anni, infatti, Alberto si ammala di tubercolosi ossea, malattia dagli atroci dolori che lo costringe a letto per cinque anni: i primi tre a casa, e gli ultimi due nel sanatorio Codivilla di Cortina d’Ampezzo. Durante questo periodo i suoi studi (interrotti alla licenza ginnasiale, suo unico titolo di studio) sono irregolari. Tuttavia, legge innumerevoli libri, soprattutto i classici e i massimi narratori dell’Ottocento e del primo Novecento (Dostoevskij, Joyce, Goldoni, Shakespeare, Molière, Mallarmé, Leopardi e molti altri); scrive versi in francese e in italiano, e studia tedesco. Dopo aver lasciato il sanatorio nell’autunno del 1925, durante la convalescenza a Bressanone, in provincia di Bolzano, dà inizio alla stesura de Gli indifferenti, che verrà pubblicato con gran successo nel 1929. La sua salute rimane fragile ed è costretto a vivere in alberghi di montagna passando da un luogo all’altro. Nel frattempo, tuttavia, entra in contatto con Corrado Alvaro, Massimo Bontempelli e la rivista «900», su cui pubblica nel ’27 la novella Cortigiana stanca. Grazie al successo del suo primo romanzo, Moravia s’inserisce nell’ambiente letterario e giornalistico, e si intensificano le sue collaborazioni su riviste. Nel 1930 alla Consuma, presso Firenze, dove si stabilisce per due mesi, conosce Berenson e gli fa leggere Gli indifferenti. Intanto il conflitto con il fascismo, iniziato in seguito all’uscita proprio di quel romanzo, si acuisce. Spinto dall’ansia d’evasione dal clima oppressivo del regime, inizia a viaggiare. Con vari articoli di viaggio, collabora dal 1930 a «La Stampa», allora diretta da Curzio Malaparte. Soggiorna a lungo in Inghilterra, dove conosce E. M. Forster, H. G. Wells, Yeats; e a Parigi, dove nel salotto letterario della principessa di Bassiano (cugina di T. S. Eliot), incontra Fargue, Giono, Valéry e il gruppo che si chiamerà «Art 1926». Nel 1933 con Pannunzio fonda sia la rivista «Caratteri», di cui escono solo quattro numeri, sia la rivista «Oggi», l’attuale testata omonima. Nel 1935 una cattiva accoglienza è riservata al suo secondo romanzo, Le ambizioni sbagliate (censurato dal regime). Nello stesso anno passa a collaborare alla «Gazzetta del Popolo»; e si allontana dall’Italia dove la vita gli stava diventando difficile. Tra il ’35 e il ’36 è negli Stati Uniti, su invito di Giuseppe Prezzolini, che dirige la Casa Italiana della Columbia University di New York; qui tiene tre conferenze sul romanzo italiano, discutendo di Nievo, Manzoni, Verga, Fogazzaro, D’Annunzio. Dopo una breve parentesi in Messico, ritorna in Italia, dove in poco tempo scrive L’imbroglio (1937), libro di racconti lunghi con cui inizia la sua collaborazione con la casa editrice Bompiani. Se si eccettua il viaggio in Cina nel ‘36, e il breve soggiorno in Grecia nel ’38 (dove ad Atene frequenta saltuariamente Montanelli), gli anni tra il 1933 e il 1943 sono per Moravia, che è ebreo per parte paterna, «dal punto di vista della vita pubblica, i peggiori della sua vita». Per eludere il controllo e la censura del regime, che guarda con sospetto alla sua produzione narrativa, Moravia sceglie la strada dell’allegoria, dell’apologo, della satira e dell’analogia. Ne nascono i racconti surrealistici e satirici, I sogni del pigro (1940) e il romanzo La mascherata (1941). Ma quest’ultimo viene sequestrato alla seconda edizione e Moravia non può più scrivere sui giornali, se non con uno pseudonimo — quello di Pseudo. Sotto questo nome collabora spesso alla rivista di Curzio Malaparte, «Prospettive». Nel 1941 sposa Elsa Morante, che ha conosciuto nel ’36 e con cui vive a lungo a Capri. Qui scrive Agostino, apparso con gran successo nel 1944. Dopo il matrimonio con la Morante, inizia per lo scrittore un periodo di fuga, latitanza e sbandamento: il suo nome è sulle liste della polizia fascista come «sovversivo». Dopo l’8 settembre del ’43, fugge da Roma con la Morante e si rifugia a Fondi, in Ciociaria. «Fu questa la seconda esperienza importante della sua vita, dopo quella della malattia». E da quell’esperienza nascerà il romanzo La ciociara (1957). Nel 1944, durante l’occupazione tedesca, vengono pubblicati i racconti de L’epidemia e il saggio La Speranza, ovvero Cristianesimo e Comunismo. Dopo la liberazione, torna a Roma e riprende una fitta attività letteraria e giornalistica, collaborando a «Il Mondo», «L’Europeo», e al «Corriere della Sera». Su quest’ultimo giornale, tra l’altro, dagli anni Cinquanta fino alla morte, la presenza di Moravia sarà costante: con una fitta serie di réportages, riflessioni e racconti. Nel dopoguerra inizia la sua fortuna letteraria e cinematografica. Dopo la pubblicazione de La romana (1947), escono i racconti lunghi La disubbidienza (1948), L’amore coniugale e altri racconti (1949) e il romanzo Il conformista (1951). Non solo, ma iniziano anche le traduzioni dei suoi romanzi all’estero e le realizzazioni di film tratti dai suoi racconti e romanzi: La provinciale (1952) con la regia di Mario Soldati, La romana (1954) di Luigi Zampa, Racconti romani (1955) di Gianni Franciolini, La ciociara (1960) di Vittorio de Sica, Agostino e la perdita dell’innocenza (1962) di Mauro Bolognini, Il disprezzo (1963) di Jean-Luc Godard, La noia (1963) di Damiano Damiani, Gli indifferenti (1964) di Francesco Maselli, Il conformista (1970) di Bernardo Bertolucci, Io e lui (1973) di Luciano Salce e così via via fino a L’attenzione di Giovanni Soldati (1985). Vanno ricordate, inoltre, le sceneggiature di Un colpo di pistola (1941) e Zazà (1943) di Renato Castellani, e le collaborazioni, nei primissimi anni del dopoguerra, a Il cielo sulla palude di Augusto Genina e a La freccia nel fianco di Alberto Lattuada. Nel 1952 — anno in cui gli viene assegnato il Premio Strega per I racconti, appena pubblicati — tutte le sue opere sono messe all’Indice dal Sant’Uffizio. L’anno successivo fonda a Roma, insieme con Alberto Carocci, la rivista «Nuovi argomenti», su cui scriveranno Jean-Paul Sartre, Elio Vittorini, Italo Calvino, Eugenio Montale, Franco Fortini e Palmiro Togliatti. Moravia dirigerà la rivista fino all’ultimo: dal ’66 insieme con Carocci e Pasolini, a cui si aggiungeranno Attilio Bertolucci e Enzo Siciliano; mentre a Milano, nel 1982, i direttori della terza serie saranno, oltre a lui, Siciliano e Sciascia. Nel ’54 pubblica I racconti romani (cui viene assegnato il Premio Marzotto), il romanzo Il disprezzo e, su «Nuovi argomenti», il saggio L’uomo come fine, scritto fin dal 1946. Negli anni successivi scrive la prefazione al volume del Belli, Cento sonetti, al Paolo il caldo di Vitaliano Brancati e a Passeggiate romane di Stendhal. Nel ’57 comincia a collaborare all’«Espresso», su cui curerà una rubrica cinematografica: alcune di quelle recensioni nel 1975 saranno pubblicate nel volume Al cinema. Negli anni Cinquanta Moravia si accosta anche alla scrittura teatrale e per il teatro scrive La mascherata e Beatrice Cenci. Frutto di un primo viaggio nell’Unione Sovietica, nel ’58 esce il saggio Un mese in URSS. Dopo la pubblicazione nel ’59 dei Nuovi racconti romani, nel 1960 l’uscita del romanzo La noia (vincitore nel ‘61 del Premio Viareggio) segna nella sua carriera un successo simile a quello ottenuto con Gli indifferenti e La romana. Cresce così la sua fama di sottile indagatore della vita sessuale, di intellettuale impegnato a sinistra, di leader del mondo letterario romano, e la sua figura diviene sempre più bersaglio dei conservatori e dei conformisti. Negli anni successivi, poi, in virtù del suo giudizio sicuro su qualsiasi evento culturale, politico e sociale, Alberto Moravia diverrà una sorta di di maître à penser. Nell’aprile del ’62 si separa da Elsa Morante, lascia l’appartamento romano in via dell’Oca e va a vivere in Lungotevere della Vittoria con la giovane scrittrice Dacia Maraini. In quello stesso anno escono sia Un’idea dell’India (a seguito del viaggio nel ‘61 in India, con la Morante e Pasolini), sia L’automa, il primo di tre volumi di racconti sul tema dell’alienazione, già apparsi sulla terza pagina del «Corriere della Sera». Seguiranno gli altri due volumi Una cosa è una cosa (1967) e Il paradiso (1970). Nel ’63 nel volume dal titolo L’uomo come fine e altri saggi raccoglie, invece, svariati saggi scritti a partire dal ’41. Dopo la polemica con Il Gruppo 63, nel ’65 pubblica L’attenzione, un esperimento di “romanzo nel romanzo”. A partire dal ’66 — anno in cui in occasione del Festival del Teatro Contemporaneo viene rappresentato Il mondo è quello che è — Moravia si occupa sempre più di teatro. Con Dacia Maraini ed Enzo Siciliano fonda la compagnia teatrale «del Porcospino», che ha come sede il teatro di via Belsiana a Roma. Vi vengono rappresentate L’intervista, dello stesso Moravia, La famiglia normale di Dacia Maraini, Tazza di Enzo Siciliano e opere di Carlo Emilio Gadda, Wilcok, Strindberg, Goffredo Parise e Kyd. Per mancanza di fondi l’esperimento si interromperà nel ’68. Nel ’67 Moravia spiega le sue idee sul teatro moderno in La chiacchiera a teatro, pubblicata su «Nuovi argomenti». Sempre nel ’67 insieme a Dacia Maraini, si reca, oltre che in Giappone e in Corea, anche in Cina. Le sue corrispondenze per il «Corriere della Sera» vengono riunite nel volume La rivoluzione culturale in Cina, uscito nel 1968 — anno in cui, tra l’altro, Moravia viene contestato in diverse occasioni dagli studenti. Dopo Il dio Kurt (1968), nel ’69 pubblica La vita è gioco, rappresentato nel 1970 al teatro Valle di Roma con la regia della Maraini. Con un intervento su L’informazione deformata commenta l’attentato dinamitardo alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano. Dopo l’uscita del nuovo romanzo Io e lui e la pubblicazione del saggio Poesia e romanzo (1971), nel ’72 intraprende dei lunghi viaggi in Africa, da cui nascerà A quale tribù appartieni? (1972). Seguiranno altri due libri sull’Africa: Lettere dal Sahara (1981), una raccolta di articoli scritti tra il ’75 e l’81 come “inviato speciale” del «Corriere della Sera», e Passeggiate africane (1987). Nel 1973 esce un nuovo libro di racconti (già apparsi sul «Corriere della Sera»), Un’altra vita, seguito nel ’76 da un’altra raccolta Boh. Nel 1978 esce il romanzo tanto atteso, a cui ha lavorato per ben sette anni, La vita interiore. Quindi, nel 1980, dà alle stampe la raccolta di saggi Impegno controvoglia, mentre il romanzo 1934 e la raccolta di fiabe Storie della Preistoria escono nel 1982, anno in cui fa un viaggio in Giappone, fermandosi a Hiroshima. A tal riguardo, per l’«Espresso» farà tre inchieste sul problema della bomba atomica. E proprio sull’incubo della bomba atomica e sul dissidio tra la cultura umanistica e quella scientifica è centrato il romanzo edito nell’85, L’uomo che guarda. Nel 1983 esce la raccolta di racconti La cosa, dedicata a Carmen Llera, la sua nuova compagna, una donna spagnola di quasi quarantasette anni più giovane di lui, che sposerà nel 1986, suscitando grande clamore. Tra il 1984 e il 1989 è deputato al Parlamento europeo, eletto come indipendente nelle liste del Pci. Sul «Corriere della Sera» nel 1984 inizia una corrispondenza da Strasburgo, il Diario europeo. Nell’86 pubblica in volume, L’angelo dell’informazione e altri scritti teatrali, L’inverno nucleare (a cura di Renzo Paris) e il primo volume delle Opere (1927-1947), a cura di Geno Pampaloni. Il secondo volume delle Opere (1948-1968), a cura di Enzo Siciliano, uscirà nel 1989. Nel 1987 dà alle stampe Il viaggio a Roma, e nel 1990 La villa del venerdì e Vita di Moravia, scritta assieme a Alain Elkann. Il 26 settembre 1990, alle nove del mattino, Alberto Moravia muore nella sua casa di Roma. Postumi escono, nel 1993, Romildo (a cura di Enzo Siciliano), una prima raccolta di racconti rimasti sepolti nelle pagine dei quotidiani e delle riviste, cui è seguito nel 2000 un secondo volume, Racconti dispersi.




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