VIAGGIO DAL TAUMATURGO – Brano tratto dal romanzo brasiliano Quase Memória – Carlos Heitor Cony
Fu proprio in quell’anno (1947 o 1948) che a Minas Gerais comparve un prete che faceva miracoli. Sempre a Minas capitano queste cose, questi miracoli. Il prete si chiamava Antônio, era magro, coi capelli bianchi, un po’ scuro di pelle – a veder dalle foto pubblicate sui giornali.
Parroco di Urucânia, paesucolo dell’interno di Minas, nei pressi di Ponte Nova, era un gran devoto della Madonna delle Grazie e in suo nome faceva miracoli formidabili. Paralitici camminavano, muti parlavano, ciechi potevano vedere, lebbrosi si ritrovavano guariti, tubercolotici senza speranza si liberavano da emottisi e febbri – la stampa dava notizia dei miracoli e faceva grandi affari con quello che cominciò a chiamare “il Taumaturgo di Urucânia”. La gente del popolo non sapeva esattamente cosa fosse un taumaturgo, ma ci credeva; in fin dei conti, di preti ce n’erano da tutte le parti, un taumaturgo solo a Minas, anzi solo a Urucânia.
Non c’era ancora la televisione in Brasile, i mezzi di comunicazione di allora erano la radio, i giornali (solo a Rio ce n’erano più di dieci, tra quelli del mattino e della sera) e soprattutto la rivista O cruzeiro, a colori, che arrivava a vendere settecentomila copie alla settimana, record continentale all’epoca.
Tutta questa potenza di fuoco si concentrò nel divulgare i miracoli di padre Antônio, il Taumaturgo di Urucânia. I Diários Associados, di Assis Chateaubriand, s’impossessarono della campagna e uno dei giornali del gruppo, il Diário da Noite, che spiccava sui banchi delle edicole perché la prima e l’ultima pagina erano di color verdolino, cominciò a promuovere un pellegrinaggio alla parrocchia di padre Antônio.
A quei tempi non esistevano agenzie turistiche a livello professionale, che offrissero gite organizzate. Le poche che sopravvivevano sul mercato erano agenzie internazionali, vendevano passaggi in nave per l’Europa o gli Stati Uniti. Era più facile per uno di Rio andare ad Havre o ad Amburgo, piuttosto che a Manaus o a Pirapora.
Il Diário da Noite organizzò un treno speciale che avrebbe compiuto tutti i collegamenti ferroviari fino a Ponte Nova, per poi da lì proseguire in autocarri e barrocci, fino alla parrocchia del taumaturgo. Il prezzo del pacchetto era ragionevole, includeva l’alloggio in case private (poiché non c’erano hotel), e le autorità ecclesiastiche di Rio se non incentivavano la carovana, tuttavia non la condannavano.
Mia madre non ebbe bisogno di spiegarmi tutto ciò. Mi mostrò semplicemente il ritaglio di giornale che attestava l’efficacia del taumaturgo e illustrava condizioni e prezzo della spedizione.
Mi domandò che ne pensavo dell’idea di mandare nostro padre fin là, a tentare la cura. Ci pensai un po’ su, l’idea mi pareva folle, ma non me la sentivo di spegnere le speranze di mia madre, che era molto devota e doveva soffrire per quel tic nervoso di mio padre. Il guaio – fu la mia risposta – sarebbe stato convincerlo ad assumere il ruolo di pellegrino, e aggregarsi a una carovana di devoti. Non era il suo genere.
In materia di pellegrini, lui aveva come unico riferimento il coro del Tannhäuser, una delle opere che più ammirava: dopo le tre di Puccini da lui predilette (La Bohème, Tosca, Manon Lescaut), collocava subito dopo, in un’ellissi fulminante e inesplicabile, tre opere di Wagner (I maestri cantori di Norimberga, Tristano e Isotta e il già citato Tannhäuser).
Con questa nozione wagneriana di pellegrinaggio, difficilmente si sarebbe convinto a prendere un treno alla Central do Brasil, sotto il patrocinio di un giornale rivale al suo (al tempo già lavorava per il Jornal do Brasil), per spingersi nell’entroterra di Minas in cerca di una cura che, in realtà, ormai non cercava più.
Mia madre fece appello alla mia immaginazione, chiedendomi di parlare con i suoi amici, di inventarmi qualsiasi cosa pur di spedire nostro padre sul tal treno e nel tal pellegrinaggio. Qualcosa dentro di lei – confessò – le dava la certezza che sarebbe ritornato guarito.
Per non spegnere le sue speranze, le promisi che ci avrei provato e andai a farmi un giro per strada, in cerca di ispirazione. Era la prima volta che, a casa mia, si affrontava con franchezza il tema del tic di nostro padre. La questione era delicata.
A un certo punto, notai un particolare a cui non avevo dato importanza: perché mia madre non aveva parlato prima con mio fratello più grande? O con tutti e due insieme, visto che si trattava di una decisione di famiglia, la prima (che io ricordassi) occorsa in seno alla nostra – e anche l’ultima.
Ne dedussi che lei mi aveva scelto per una chiara ragione: anche mio fratello aveva problemi di salute. Stava per terminare il corso di medicina, avrebbe potuto essere già laureato, ma era stato obbligato a interrompere l’università a causa di un inizio di tubercolosi. Per curarsi con l’aria di montagna, aveva passato due anni a Campos de Jordão, in un’epopea di cui mio padre fu protagonista importante e straordinario.
Tutti i suoi sforzi erano rivolti a far laureare mio fratello. Tanto lui quanto mia madre cercavano di risparmiargli incombenze e preoccupazioni. Perciò aveva sollevato la questione con me.
Ma mio fratello era un potenziale pellegrino, se qualcuno a casa nostra aveva bisogno di una spinta soprannaturale, questo qualcuno di certo era lui piuttosto che mio padre, che malgrado quel male di cui aveva sempre sofferto, portava avanti la famiglia con dignità e, a modo suo, era felice, anzi felicissimo.
La soluzione che trovai, quella stessa notte, fu di convincere mio padre a portare mio fratello in pellegrinaggio. Lui gli sarebbe stato accanto, così come era sempre stato accanto ai figli in spedizioni ben più semplici di quel pellegrinaggio verso Urucânia e i miracoli di padre Antônio.
Mia madre s’incaricò di passare il suggerimento a papà. Conoscendolo bene, sapevo che il pellegrinaggio era garantito.
Fu proprio così. Il mattino dopo, mio padre era già eccitato per i preparativi. Seguendo il suo stile, la sua “tecnica” di realizzare le cose, grandi o piccole che fossero, la riparazione di un rubinetto o una spedizione al Polo Nord, assunse il comando delle operazioni a partire dal principio dei principi, o, come lui soleva dire, ricordandosi dei suoi anni di latino all’Istituto Pedro II: ab Jove principium. Cominciando da Giove. E Giove in quella casa e in quella circostanza, era lui medesimo.
L’idea, che era stata di mia madre, passò ad essere sua. In casa si contenne, disse che era rimasto impressionato dai racconti che aveva letto sui giornali. Ma fuori casa prese a spargere la voce che aveva fatto un sogno premonitore – e tanto promosse quella speciale escursione che in breve tempo venne estendendo l’idea fino ad un pellegrinaggio colossale: il primo che intruppò fu niente meno che il suo amico Giordano, che era stato capitano a Caporetto e non aveva, apparentemente, niente di cui curarsi. Ma Giordano aveva ricevuto da un amico, marinaio sul Conte Grande, bastimento italiano che faceva la linea Genova-Buenos Aires, una rimessa di salsiccia calabrese, ed era stato a casa loro a far vedere quella prelibatezza, in un gran cesto foderato di carta impermeabile, parecchi chili della buona, genuina, inimitabile salsiccia della Calabria, una salsiccia artigianale, con tutti i sapori e i profumi dei vasti campi del Sud della penisola.
Di fronte alla squisitezza che Giordano espose in tavola, se mio padre aveva ancora dei dubbi sul dover partire – li perse tutto d’un colpo. E partì.
Prima, però, sopraggiunsero nuovi fatti. Mio fratello era fidanzato con quella che poi sarebbe stata la sua prima moglie. Era impossibile per loro star qualche giorno separati, voleva portare anche lei. Ritenendosi il fulcro principale del pellegrinaggio, visto che si trattava della cura miracolosa e definitiva per i suoi polmoni, dichiarò che sarebbe andato soltanto se veniva anche la fidanzata.
All’aprirsi di tali nuove prospettive, mia madre mi sorprese. Giacché mio padre avrebbe portato con sé l’amico Giordano, capitano di Caporetto, profanando così il santo pellegrinaggio, non avendo nulla di cui curarsi, lei decise di invitare una sua figlioccia che soffriva di attacchi, passava lunghi periodi all’Ospedale Psichiatrico di Engenho de Dentro, ed era una brava ragazza, figlia di Maria nella parrocchia di padre Aníbal, nel quartiere di Realengo. Ogni tanto, senza preavviso, lei entrava in uno stato di trance, veniva assalita da immani collere, e in una furia devastatrice minacciava i vicini col coltello, spaccava tutto, andava per la strada quasi nuda, o nuda completamente – finché non arrivavano gli infermieri dell’Ospedale Psichiatrico e la portavano via, in camicia di forza, per farle quegli elettroshock che la riducevano male e la facevano peggiorare sempre di più.
Mio padre approvò subito la cooptazione della ragazza, che si chiamava Alayde, di cui mia madre teneva sempre nel suo libro di preghiere una fotografia. Era una ragazza più bella che brutta, con un viso rotondo da figlia di Maria, gli occhi dolci, parlava pianino, ed era molto pudica e costumata.
Io sapevo che mia madre non solo pregava per lei, ma per quanto le era possibile, l’aiutava durante i trattamenti, visitandola quando era in ospedale, portandole medicine, dolciumi, frutta e anche denaro.
La comitiva era già grande: mio padre, mio fratello, la sua fidanzata, Alayde, il capitano Giordano. Il quale, venendo a sapere che il gruppo dei pellegrini si espandeva, dichiarò che si sarebbe portato dietro anche la figlia, che si chiamava Miquinha, fidanzata con un tal Giuseppe, italiano anche lui, anzi siciliano, che si guadagnava da vivere come aiutante del gestore di certe edicole di giornali, nei pressi della Central do Brasil.
Le cose stavano a questo punto quando, per la scarsa riservatezza di mio padre, la notizia del pellegrinaggio si era sparsa nel quartiere e due giorni prima della partenza si presentò a casa nostra una piccola comitiva di ragazzi che si riunivano nel bar di Costantino, all’angolo dell’incrocio tra Rio Comprido e via do Bispo.
La comitiva veniva a sollecitare una carità: che la carovana incorporasse anche un tale Robson, un ragazzo del quartiere, molto stimato da tutti, che soffriva di una specie di paralisi alle palpebre, che non riusciva a tenere aperte.
Non era cieco, ma poiché i muscoli delle palpebre non gli consentivano di tenerle aperte, restava sempre ad occhi chiusi e, a tutti gli effetti, viveva e si comportava come un cieco.
Io lo conoscevo di vista, mio padre per niente. Malgrado ciò, quando seppe della cosa, ritenne opportuno che il ragazzo si unisse al pellegrinaggio: i giornali che davano notizia dei miracoli del Taumaturgo di Urucânia riportavano per l’appunto che il suo forte era la guarigione di cecità e complicazioni affini. Mio padre giudicò che la malattia di Robson era una “complicazione affine” e l’accettò nella spedizione.
Quand’era già tutto pronto, mio padre superò se stesso. Mise in moto le sue conoscenze, era amico del personale dell’Ufficio Stampa della Central do Brasil e di quello del Ministero dei Trasporti, di cui la Central era un dipartimento. Conosceva anche il personale dei Diários Associados che promuovevano il pellegrinaggio. Si procurò i migliori posti, anche se il treno avrebbe viaggiato in regime di classe unica, senza vagone ristorante e vagoni letto. Restava problematica la sistemazione a Ponte Nova, nelle altre località lungo il percorso e ad Urucânia.
Alla vigilia della partenza, compì un’ultima ispezione ai bagagli e all’attrezzatura: a lui piaceva passare in rassegna le cose, aveva una tecnica per questo, faceva un resoconto dettagliato di tutto ciò che era necessario portare, di ciò che di fatto portava e di ciò che non aveva potuto portare ma che avrebbe dovuto procurarsi lungo il cammino. Applicava etichette di diversi colori a valige, borse e valigette, differenziate in base a “ne ho bisogno”, “ce l’ho” e “me lo procuro”.
Per evitare ritardi e contrattempi dell’ultimo minuto, fissò il raduno generale per la sera prima, a casa nostra. Né Cristoforo Colombo né Vasco da Gama, partendo alla volta delle Indie e d’America, presero tanti e tanto minuziosi provvedimenti.
La casa si trasformò in un inferno. Oltre alle valige, valigette e borse che ostruivano i corridoi, mio padre pretese che Giordano, capitano di Caporetto, sua figlia Miquinha e il genero Giuseppe venissero fin dalla sera prima a dormire a casa nostra, per poter partire tutti insieme il giorno dopo. In tal modo, con quel concentramento preliminare, gli uni non avrebbero dovuto aspettare gli altri, e se un gruppo avesse perso il treno, tutti l’avrebbero perso, se un gruppo fosse partito, tutti sarebbero partiti.
Anche Alayde venne da noi la vigilia. Solo il Robson, che abitava lì vicino, fu dispensato dal concentramento, con l’impegno di presentarsi mezz’ora prima dell’ora fissata per la partenza verso il regno incantato della salute e della fede, alla volta dei miracoli del Taumaturgo di Urucânia.
Occuparono tutti i divani disponibili. Cedetti il mio letto alla Miquinha, andando a dormire sull’amaca dove a mio padre piaceva far la siesta nei pomeriggi della domenica, gli unici che passava in casa.
In mezzo a quella baraonda, e per il disagio dell’amaca – non sono mai riuscito a dormire in una – era naturale che restassi sveglio buona parte della notte. Sentii dei rumori dalle parti della cucina. Tutti dormivano, qualcuno russava – il siciliano Giuseppe pareva un Etna in imminente eruzione. Il corridoio che portava alla cucina era stipato. Ma era di lì che veniva il rumore.
Mi diressi là in punta di piedi, per non svegliare nessuno. A metà strada cominciai a sentire l’odore. E in cucina trovai mio padre e il capitano Giordano, di Caporetto, a friggere in padella qualche salsiccia calabrese, come aperitivo a tanto grandi e pie emozioni.
Il giorno dopo accompagnai la comitiva fino alla Central. Chiamammo due taxi, e arrivammo alla Central all’ora fissata dai promotori del pellegrinaggio. E quella fu, ne sono certo, l’unica volta in cui mio padre non arrivò in ritardo ad un viaggio in treno.
Era stato uno dei supplizi ricorrenti della mia infanzia. Quando andavamo a Rodeio o a Paquetá, mio padre era l’ultimo a comparire al binario della Central o sulla banchina del molo Faroux. Il treno si metteva in marcia, la barca scioglieva gli ormeggi, quando, ansante, correndo, e a volte gridando perché lo aspettassero, compariva mio padre, con gli occhiali in equilibrio sulla punta del naso e il soprabito aperto che ondeggiava nella tempesta da lui stesso generata.
Mia madre, che lo conosceva da più tempo, si era ormai abituata e sapeva che sarebbe spuntato all’ultimo minuto, senza più fiato nei polmoni, ma sarebbe spuntato.
Mi ci vollero anni per abituarmi. Da bambino, quando si parlava di viaggiare, la mia prima reazione era di angoscia, mi immaginavo noi sul treno o sulla barca ad aspettare mio padre, e che il treno e la barca partissero lasciandoci senza di lui. Come sarebbe stata la nostra vita senza la sua presenza, i suoi trucchi, le sue tecniche?
Comunque, il giorno del pellegrinaggio al Taumaturgo di Urucânia, io non sarei partito, sarei rimasto a casa “a fare da retroguardia”, secondo l’espressione di mio padre. Lui sarebbe stato il fronte dell’avanguardia, l’uomo di frontiera, l’esploratore del Meraviglioso.
Il treno era già pieno, una folla di storpi, ciechi, paralitici, mutilati, un’umanità triste ma speranzosa. Cantavano inni sacri, «con mia Madre sarò/ nella santa gloria un giorno/ accanto alla Vergine Maria/ nel cielo trionferò».
Il coro era orrendo quanto stonato: «nel cielo, nel cielo! con mia Madre sarò/ nel cielo, nel cielo! con mia Madre sarò!».
Le voci, però, non erano stridule e tremule, come in chiesa o nelle processioni. Al contrario: era un cantico orrendo, sì, ma anche forte, virile, di gente vestita di speranza. E ce n’erano molti che erano lì più o meno come il Giordano, solo per vedere di che si trattava. Questi erano quelli che cantavano con più brio, per dar animo agli altri e, forse, darsi animo.
Il nostro gruppo, in confronto agli altri, risaltava per la salute aggressiva, bovina. Escluso il Robson, con le palpebre cadenti che lo rendevano cieco – di quando in quando gli si aprivano per qualche secondo e lui riusciva ad orientarsi un po’, vacillante, umile, come se fosse davvero cieco.
Visto da vicino, sembrava un gruppo di turisti finito a prendere il treno sbagliato, sul binario sbagliato. Il capitano Giordano si era messo in testa un berretto da Sherlock Holmes, con pure dei paraorecchie per i freddi di Minas Gerais. Miquinha portava dei calzoni aderenti, che mettevano in risalto le sue grosse cosce di figlia di italiano. Mio fratello e la sua fidanzata parevano due giovani studenti che andavano a passar le vacanze in una tenuta da golf.
Mio padre, come sempre, formava un capitolo e una visione a parte. Non per niente aveva letto più volte il Tartarino di Tarascona: così come il grande Tartarino quando partì per cacciare leoni in Africa, nel paese dei teur, si vestì come un teur (e al suo arrivo, causò meraviglia perché era l’unico teur nel paese dei teur), mio padre si era vestito come quel vecchietto nel film di Monicelli: sportivo.
Dei calzettoni grossi, lunghi, spuntavano da un paio di pantaloni alla zuava che non si era più messo dai tempi in cui mi veniva a trovare alla fazenda del Seminario. Monsignor Lapenda gli faceva dare i cavalli più vecchi e tranquilli per evitare problemi. Malgrado ciò, ci fu una volta in cui fu disarcionato da Choriço, cavallo dalla mansuetudine esemplare, che era messo in campo solo per due visitatori: la signora Mariana, che veniva alla fazenda una volta alla settimana a preparare le ostie; e mio padre.
Così quei pantaloni, di cui non ricordavo nemmeno più l’esistenza, erano lì indosso a mio padre, facendolo sembrare un esploratore inglese diretto in Africa alla ricerca delle ossa degli antenati.
E c’era un dettaglio che lo distingueva, che lo rendeva superbo, lì sul marciapiede della Central. Fin dai tempi del Seminario, pur non essendo molto religioso, mio padre aveva deciso di aderire a una confraternita della chiesa matrice di Santana, un’associazione pia che si faceva notare durante le messe e le litanie per i nastri viola che i suoi membri portavano al collo.
Io sapevo che mio padre era stato membro di tale confraternita, ma per tutto il tempo che ero stato in Seminario non l’avevo mai visto in veste di confratello. Però partendo in pellegrinaggio, in cerca della salute per il figlio (mio padre morì senza mai sospettare l’imbroglio che mia madre ed io avevamo architettato per tentare la cura del suo tic nervoso), gli parve d’obbligo mettere in bella mostra il nastro di velluto viola, con l’enorme medaglione appeso al petto.
Pur essendo arrivato all’ora fissata per il raduno dei pellegrini, fece accomodare la sua comitiva nei migliori posti che si era procurato all’Ufficio Stampa della Central, però lui rimase sul marciapiede, a conversare con gli organizzatori, a prendere gli ultimi provvedimenti – una delle cose che gli piaceva di più era prendere provvedimenti, qualunque essi fossero, ne avesse o no abilitazione, mandato o competenza.
E fu l’ultimo a saltare sul treno già in movimento.
Cinque giorni dopo, il Diário da noite esaurì due edizioni della sera che contenevano l’annuncio dell’arrivo del treno dei pellegrini e la descrizione dei miracoli del Taumaturgo di Urucânia. Toccò a me stavolta appellarmi al personale dell’Ufficio Stampa della Central, per procurarmi una credenziale con cui poter esser presente e in buona posizione al momento del loro arrivo.
Mio padre mi aveva raccomandato a un amico, Sabino Monteiro de Lemos, che aveva fama di farsi passare per medico, ma che era medico per davvero, e tanto eminente che preferiva vivere dei suoi guadagni da reporter.
Sabino mi fece sapere che, non appena il treno fosse giunto ai confini del Distretto Federale (Rio era ancora la capitale della Repubblica), sarebbe stato ricevuto dalle autorità della Central do Brasil e dei Diários Associados. Lui mi aveva incluso nel comitato che si sarebbe recato a Deodoro, la prima fermata del treno dei pellegrini, molti dei quali abitavano nei sobborghi vicini.
Non ero mai stato da quelle parti. Andammo in auto, in processione. Al nostro arrivo a Deodoro, un telegrafista cercò i promotori del pellegrinaggio per comunicare le novità: il treno era passato qualche minuto prima per Japeri, e c’erano dei problemi. Che tipo di problemi? – volle sapere il tizio che pareva essere il responsabile più qualificato della spedizione. Il telegrafista alzò le spalle, mostrando il nastro del telegrafo che aveva ricevuto: c’erano dei problemi, ma non sapeva che problemi potevano essere. Niente a che vedere con il treno, la locomotiva, i vagoni, i binari, le traversine. Erano dei problemi con i pellegrini stessi.
Cominciai a sudare freddo. Qualcosa mi diceva che quei “problemi” avevano a che fare con la nostra comitiva. Non potevo immaginare quanto!
Un quarto d’ora dopo, il treno arrivò. Io avevo visto la partenza: striscioni srotolati sul fianco dei vagoni che inneggiavano padre Antônio e la Madonna delle Grazie, striscioni di ringraziamento al Diário da Noite e alla Central do Brasil. Mi ricordavo i cantici, «nel cielo, nel cielo, con mia Madre sarò!». Era una spedizione di fedeli alla volta del soprannaturale, ai territori del miracolo, all’universo della grazia.
Dal modo in cui la locomotiva entrò in stazione, già si poteva presentire la delusione e, quel che è peggio, il caos. Dietro la locomotiva il macchinista, nel vedere sul marciapiede la delegazione delle autorità, fece un gesto come a dire di non aver colpa di quel che era successo. Si sporgeva con il corpo di fuori, si lavava le mani – benché la macchina fosse pulita, essendo ormai una elettrodiesel e non una di quelle sudice locomotive a vapore d’un tempo.
Poi seguivano i vagoni, bui – era andata via la luce in tutte le carrozze –, e i passeggeri erano così malconci, così ridotti male che parevano morti, caduti dai sedili, prostrati nei corridoi. Nessuno striscione, nessun cantico.
Non appena il treno si fermò, si udirono delle grida da una delle ultime carrozze. Grida disperate, di una donna in convulsioni. Non ebbi bisogno di avvicinarmi: vidi mio padre che cercava di fermare Alayde che minacciava di buttarsi dal finestrino del vagone. Lei gridava d’esser stata palpeggiata al buio da qualche vecchio svergognato, era sporca di sangue, le erano venute le mestruazioni durante il viaggio di ritorno.
C’era stata una gran confusione, all’inizio avevano pensato che era stato mio padre a tentare di violentare la ragazza. Comparve mio fratello, stanchissimo, sfinito, ridotto a uno straccio, sostenuto dalla fidanzata anche lei come un cencio. Il povero cieco Robson, con le palpebre abbassate, era finito sul pavimento del vagone, senza capire nulla e senza vedere nulla, al buio della carrozza e al buio dei suoi occhi velati. L’atmosfera era disastrosa.
Bisognava che qualcuno facesse qualcosa. Sabino fu rapido, fece venire un’ambulanza per portare all’ospedale più vicino Alayde, che era agitatissima, continuava a dire oscenità, che era stata stuprata nel buio del vagone, che si voleva ammazzare.
Non avevo mai visto mio padre tanto stanco, tanto abbattuto. Quando il personale dell’ambulanza arrivò e si assunse la responsabilità per lo stato di Alayde, lui crollò sulla mia spalla:
– Va’ fuori… trova un taxi… non voglio tornare su questo treno… non ce la faccio… è stato terribile … un’umiliazione…
Uscii per cercare il taxi. Quando ritornai, vidi ciò che non avevo mai visto prima e non avrei più visto dopo: mio padre accasciato su una panchina, con lo sguardo perso nel nulla.
Fece fatica a riconoscermi, malgrado i segni che gli facevo. Quando capì che ero arrivato con il taxi, si alzò e prese la piccola valigetta che aveva portato con sé. Il teur che era andato nella terra dei teur, il pellegrino con il nastro viola al collo e il medaglione al petto era ridotto in macerie.
Feci un gesto per sorreggerlo, ma lui rifiutò. Benché fosse distrutto, non aveva bisogno di sostegno, mi passò soltanto la valigetta perché io la portassi. Quando entrammo nel taxi, mezzo rintontito, domandò della valigia. Lo tranquillizzai: la valigetta era lì con me.
Lui si tolse gli occhiali e crollò sullo schienale del sedile posteriore. Per lasciarlo più comodo, io mi misi sul sedile davanti, accanto all’autista. Gli detti l’indirizzo e, non avevamo fatto cento metri che sentii mio padre che dormiva, russando in un sonno esausto, da moribondo.
Ma poco dopo il taxi fece una frenata e lui si svegliò. Volle sapere dov’era: al Méier – lo informò l’autista. Domandò ancora una volta dov’era la valigetta.
– Qui con me, papà – risposi.
Lui fece una pausa, poi aggiunse:
– Aprila, vedi se ci sono le salsicce, nella parte in basso.
C’erano. (Brano tratto dal romanzo brasiliano Quase Memória, Editora Objetiva, Rio de Janeiro, 1995. Traduzione del brano in Italiano di Angela Masotti.) Carlos Heitor Cony, giornalista e scrittore di Rio di Janeiro, è membro dell’Academia Brasileira de Letras. Il suo romanzo Quase Memória ha vinto il Prêmio Jabuti del 1996.
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