IL RISO E LA COMICITÀ PER CONOSCERE LA REALTÀ – Un’intervista a Dario Fo e Franca Rame – Walter Valeri
Q: È possibile tracciare una tua linea evolutiva come attore e autore?
D.F.: In verità la mia prima educazione artistica è legata alla pittura e all`architettura; che sono le due componenti principali della scenografia teatrale. Poi la mia crescita come attore è andata di pari passo a quella come scrittore. Così come ho imparato a scrivere e a pensare per il teatro nello stesso momento in cui crescevo come interprete. Quando scrivo una commedia, o un monologo, non mi interessa tanto di rilevare gli stati d`animo dei vari personaggi, quanto piuttosto il fatto scenico, l`evento principale che è l`obbiettivo del racconto che la scena comica deve sviluppare e deve sempre rispecchiare la realtà. È il fatto scenico che determina l`andamento della commedia e del racconto, che successivamente condizionerà l`atteggiamento dell`attore. È il ‘fatto’ che mi serve per costruire i vari personaggi, le loro azioni drammatiche. Un’opera teatrale valida, per paradosso, non dovrebbe apparire piacevole alla lettura: dovrebbe scoprire i suoi valori e qualità solo nel momento della rappresentazione. Quando scrivo una commedia, prima ancora di fissare le battute, penso al luogo fisico, allo spazio dove si rappresenta, dove si trovano gli attori, dove si trova il pubblico. Nello svolgimento di un lavoro mi capita difficilmente di essere incerto o addirittura di non sapere da dove si entra e da dove sci esce all`interno della scena, o di pensarci dopo. Questo anche per il monologo che normalmente non ha scena. Per me è importante l`idea delle sequenze, delle posizioni plastiche, cromatiche e prospettiche dell’ attore. Nel teatro ho trascinato tutto il mio bagaglio di conoscenze non solo sul piano figurative ma anche della regia, della concezione dei ritmi e dei tempi. Mi piace la sintesi, uso spesso il fumetto come ispirazione, le immagini che si rincorrono. Per esmpio quando ho messo in scena e riscritto l`Historie du Soldat di Stravinskij per il Teatro alla Scala di Milano, nel 1978, prima di iniziare la regia dell`opera, ho fatto circa duecento disegni: ho disegnato sul plexiglass in modo che le immagini potessero muoversi sul fondo trasparente, per studiare infinite possibilità di composizione. Basate su quei disegni abbiamo costruito le improvvisazioni le soluzioni finali. In alcuni casi addirittura sono nate prima le immagini e poi le parole. È stata una vera e propria attività didattica portata avanti giocando su tante possibilità, la pittura, la recitazione, il movimento: tanti piani di studio e di lavoro per trentatré giovani allievi-attori appena usciti dalla scuola del Piccolo teatro e da altre scuole italiane. Nella mia storia di attore, autore, scenografo, regista, costumista tutto si compenetra.
Q: Che cosa è cambiato dall` inizio della carriera, tua e di Franca, dal tempo di Gli arcangeli non giocano a flipper, la prima commedia in tre atti a impianto tradizionale del 1948?
D.F.: Sono trascorsi quasi quarant`anni. Certamente col tempo le cose cambiano, anche se alcuni temi, elementi stilistici scelte di campo permangono. Quando facevamo il cosiddetto ‘teatro tradizionale’, sempre con una forte volontà e desiderio di sperimentare, di intervenire e incidere nel dibattito politico e culturale rispetto allo standard nazionale di quel tempo, utilizzavamo gli effetti teatrali più svariati: pause, contrasti di luce, trucchi, parrucche, effetti sonori, perché in quel contesto erano utili. Ci avvalevamo insomma della cosiddetta ‘magia teatrale`. Poi, negli anni ’70 occorreva utilizzare una struttura teatrale più agile. L`azione teatrale non si volgeva più sul tradizionale palcoscenico ma in spazi nuovi e con caratteristiche particolari: all`aperto, per strada, nelle piazze, all`interno delle fabbriche o in chiese sconsacrate, nelle Case del Popolo, che ora non esistono più ma a quel tempo erano le case della cultura della classe operaia e dei ceti artigiani. Quindi con gli anni ’80, siamo tornati a riutilizzare la struttura tradizionale. Anche se da un punto di vista drammaturgico e di contenuti la separazione non è così netta e chiara.
Q: Perché il teatro oggi può avere una funzione pedagogica importante nelle scuola e nelle università?
D.F.: Perché un buon testo teatrale non è mai banale. Più di ogni altra arte il teatro è espressione del pensiero, esercizio dell`intelligenza. Il che non vuol dire sempre un`intelligenza positiva, al servizio del bene comune. A questo proposito Sartre diceva che mettere in scena un personaggio che esprime liberamente la propria condizione umana è quanto di più commovente possa mostrare il teatro, ossia il momento della scelta, della libera decisione che impegna una morale e tutta la vita.
Q: Quali sono i pericoli più ovvi per un educatore che fa uso del teatro?
D.F.:In ogni cultura e in ogni paese uno dei pericoli più grandi in cui incappano gli ‘educatori’ e tutti quelli che per professione trasmettono la cultura, storia o la lingua di un altro popolo, nelle scuole e università, è quello di ingabbiare e censurare le fonti che sono espressione diretta di quella lingua e di quella cultura. Non sempre, ma spesso, gli insegnanti ne fanno una classificazione o adattamento sterile e riduttivo. Nel peggiore dei casi utilizzano dei manuali e dei testi che sbrigativamente rispondono più alle loro esigenze che a quelle degli allievi. Specie negli Stati Uniti dove la sintesi e la semplificazione domina la cultura di massa. Tutto deve essere rapido ed assimilabile in breve tempo: il fast food, il reader’s digest, l`universo in miniatura, etc. Il mito della velocità è una specie di sirena tentatrice che spinge la gente sugli scogli dell`incoscienza, o, se vogliamo, della cattiva conoscenza dei principi che regolano la realtà. E quindi, in definitivo, della sua perdita. Ricordo che quando recitavo Mistero Buffo a New York, a un certo punto, durante la presentazione allo spettacolo, facevo esplicita ironia sulla dote principale dell`americano medio: `la sintesi`. Era una provocazione alla quale il pubblico reagiva immediatamente con una grande risata isterica, perché in quel preciso momento stavo toccando un punto nevralgico della cultura e vita quotidiana americana. Percepito anche come senso di colpa.
Q: Una cultura quotidiana diversa da quella che viene proposta all`interno dei campus universitari.
D.F.: Due modi apparentemente separati fra di loro, ma che si compendiano. Fanno pensare al personaggio del gatto e della volpe della favola di Pinocchio. La volpe è più furba del gatto, più colta e raffinata nel linguaggio, piena di sussiego e belle maniere. Il gatto, invece è una specie di zanni, un personaggio acefalo, tutto stomaco e muscoli. Ma entrambi, alla fine, vogliono la stessa cosa: derubare Pinocchio delle belle monete d`oro che dovevano ricompensare la vita di stenti e sacrifici del vecchio padre che lo aveva messo al mondo intagliando un pezzo di legno.
Q: È una critica precisa, oltre che una metafora suggestiva. Come potrebbe essere chiarita?
D.F.: Purtroppo in America l`unica storia di Pinocchio che si conosca è quella di Walt Disney. Estremamente impoverita rispetto al capolavoro di Collodi. E non a caso, devo dire. Voglio dire che un professore, o un testo scolastico di lingua e letteratura italiana, il più delle volte per ragioni di mercato ed editoriali tende a confezionare o a riprodurre la visione semplificata della realtà come fosse la realtà stessa. Finisce col cancellarne le fonti. Mentre noi sappiamo che le fonti sono un bene prezioso, a cui gli allievi devono essere direttamente esposti: sono l`unica vera memoria del passato. Le fonti, specie per la lingua e la cultura popolare, equivalgono alle monete d`oro che Pinocchio ha ricevuto in dono alla storia. Guai a portargliele via.
Q: Eppure gli allievi mostrano un grande interesse per quelle espressioni e frasi che riferiscono di fatti realmente accaduti.
D.F.: Certo, perché sono la trasposizione diretta dei fatti stessi. E anche perché gli studenti desiderano naturalmente mettere a profitto ed utilizzare la loro capacità di interpretazione e immaginazione. Vogliono usare la loro fantasia, mettere alla prova la loro intelligenza., più che limitarsi ad assimilare e digerire le elaborazioni degli altri. La pratica autonoma dell`intelligenza è fonte di enorme piacere. E non il contrario, come spesso ci si vuol far credere. Gli studenti debbono poter usufruire di questo piacere, durante il processo di apprendimento. Altrimenti accumulano risentimenti e frustrazioni che scaricheranno sadicamente sugli altri.
Q: È possibile fare un esempio?
D.F.: Nel nostro paese, ma da alcuni anni anche all`estero, finalmente è partito il discorso sul dialetto e sulla cultura popolare. Il folklore non è più rinchiuso nel getto del folclorico. Dopo anni e anni di disattenzione si è arrivati a prestare attenzione a quella lingua non letteraria (anzi, opposta a quella letteraria) che si avvale quasi sempre del dialetto come struttura fondamentale. Come ad esempio in teatro Luigi Pirandello, tanto per fare il nome di un autore importante, quando cominciò a scrivere per il teatro lo fece in dialetto. L`uso del dialetto come matrice della lingua teatrale è nel drammaturgo siciliano di una evidenza palese ed esplicitamente dichiarata. E anche quando traduceva o adattava per il teatro le novelle scritte nella lingua dei racconti letterari le trasformava profondamente utilizzando il dialetto. Dialetto come sintassi, dialetto come struttura, dialetto come valore della ritmica, dei tempi di tutta la costruzione verbale da impiegare nei dialoghi. E anche per Eduardo De Filippo è la stessa cosa. Anche se in verità Eduardo si è preoccupato di inventare una lingua che dai dialetti prende soltanto le mosse ( e non soltanto dal napoletano, perché usa anche forme che provengono dal siciliano e perfino dal romano). La particolarità del dialetto, una lingua essenzialmente orale, dinamica, piena di riferimenti immediati e riconoscibili della realtà che descrive, aiuta enormemente a ricostruire il processo della comunicazione in teatro. Il linguaggio teatrale è sintetico, non consente indugi descrittivi della situazione o di stati d`animo, a meno che non siano parte del ritmo che si vuol tenere.
Q: Qual è il rapporto del tuo teatro con il dialetto?
D.F.: Io ho imparato il dialetto dai fabulatori del mio paese d`origine, da loro ho imparato il dialetto più arcaico, era quello dei vecchi del luogo che non si preoccupavano di italianizzare il dialetto, come succede adesso. Il dialetto era la loro lingua naturale. Per loro era l’unico universo espressivo, l’unica lingua possibile. Loro, evidentemente, conoscevano le forme idiomatiche, le strutture stesse della lingua. Ecco, io ho imparato la struttura del dialetto, che è cosa diversa dal parlare in dialetto. Sono questa struttura e questa lingua reinventata che si trovano poi nei miei testi teatrali.
Q: Con l`aggiunta e l`invenzione del Grammelot.
D. F.: Non l`ho inventato io il Grammelot. Io l’ho usato alla mia maniera. Per come mi è parso necessario. È un termine di origine francese, coniato dai comici dell`Arte e maccheronizzato dai veneti che dicevano ‘gramelotto’. Un gioco onomatopeico che fa parte di un discorso, articolato arbitrariamente, ma che è comunque in grado di trasmettere, con l`apporto di gesti, ritmi e sonorità particolari, un intero discorso compiuto. Negli Stati Uniti, ad esempio, c`era un grande attore televisivo, Sid Cesar, che ne ha fatto buon uso a metà degli anni `60. È una tradizione degli attori comici che si perde nella notte dei tempi e poi, per ragioni storiche e sociali ben precise, tornato di gran moda in Italia e in Europa con il fenomeno della nascita della Commedia dell`Arte e della professione del teatro, come lo si intende oggi.
Q: Nelle tue opere ci sono riferimenti ai testi degli autori classici greci e latini, ai testi di Ruzante, alla Commedia dell`Arte del `500, Shakespeare, Molière, Feydeau, Brecht.
D.F.: E tanti altri, se è per questo. Ma io credo di avere assimilato principalmente la lezione del Ruzante, a cui ho dedicato un intero spettacolo. Lui ha costruito una lingua per il teatro. Si dice che il suo dialetto sia quello di Padova, ma io ho fatto delle ricerche, e ho scoperto che non è vero. Nella sua lingua vi sono vari dialetti. Vi è una radice linguistica per ogni situazione, e ogni situazione détta la parola giusta in un dialetto o in un altro. Io non mi considero un letterato che scrive. Il mio teatro è fatto di oralità, suono, musica, tempi, ritmi, azione, tutte fonti vicine al manifestarsi della vita, e anche naturalmente scrittura. Diciamo che esistono grosso modo due approcci diversi nell`uso dei testi teatrali. Ci sono quelli che studiano esattamente le parole, la struttura grammaticale delle frasi e poi le recitano, o le fanno recitare agli attori meccanicamente, rischiando così di dimenticarsi completamente del loro significato originario, delle cause reali che le hanno generate. L’altro modo è suggerito da una famosa citazione di Shakespeare, che dice più o meno: dovete sempre recitare come fosse la prima volta, le parole dovete ritrovarle. Come se uno non conoscesse fino in fondo lo svolgimento di una frase e dovesse ricostruirla mentre la dice.
Q: Dopo aver ricevuto il premio Nobel per la letteratura hai riconosciuto in Ruzante, attore-autore del nord Italia della fine del ‘400, il tuo maestro e ispiratore. Ti sei rivolto a lui, quasi fosse accanto a te quel giorno, dedicandogli quattro versi in dialetto “ Beolco Ruzzante/ bestia animál de palco/ càta ‘sto tòco del méo medajón/ l’è ànca tòo! Salùt!”, perché?
R: Sì è vero. Ruzzante, assieme a Molière sono stati i miei veri maestri. Entrambi attori-autori, in parte derisi o osteggiati dagli accademici e dai letterati ufficiali del loro tempo. In realtà erano degli irregolari che portavano in scena la vita di ogni giorno; le sofferenze e la gioia delle persone comuni e soprattutto le violenze che subivano da parte del potere politico, economico e culturale istituzionale. Mentre in Italia nasceva l`industria editoriale associata al teatro, Ruzzante non ha mai visto le sue opere stampate, così com’è stato per Shakespeare. Eppure Ruzzante è un grande autore, uno dei massimi del teatro italiano ed europeo. È magistrale la sua sapienza e capacità di fondere il comico e il tragico nella stessa rappresentazione. Bisogna avere ben chiaro che il suo è un riso “dionisiaco”. È un atteggiamento comico che sconfina spesso nella tragedia, che serve a demolire le strutture ideologiche del potere che governa, della religione impostata dall`alto, dell`economia impostata dai potenti, della lingua controllata dagli accademici, dei costumi e una morale sessuale come risultato di un`espropriazione. Chiaramente l’insegnamento di Ruzzante è stata una guida importante per me, nel momento della realizzazione di Mistero Buffo.
Q: Il riso e la comicità sono utili per trasmettere agli studenti il senso critico e la natura della cultura in cui sono immersi e per la loro conoscenza della realtà?
D.F.: Decisamente sì. Vincenti, un comico dell`inizio del ‘900 che si distinse per la satira feroce al nazismo, diceva una cosa a mio parere interessante sul piano del rapporto della comicità , dell`ironia, la dinamica del grottesco e i giovani in generale. Intelligentemente distingueva quei momenti in cui la comicità e la risata erano liberatorie, da quelli in cui invece c`era dentro una specie di gioco sado-masochista del riso; donde il gioco, anche finto, ipocrita della risata. Si sa che lo studente o la studentessa molte volte ridono per accondiscendenza, ridono per far piacere, ridono per rendersi simpatici. Per timore del docente o di certi personaggi. Ridere per loro diventa uno strumento accattivante, un modo per essere accettati con benevolenza. Sappiamo benissimo che molte volte il professore o la maestra cercano maldestramente di essere spiritosi, e spesso sono delle frane sul piano dell`umorismo, ma per accondiscendenza il bambino o lo studente ipocrita fa delle risate tremende. Affinché il professore e la maestra possano dire ‘come sono stato spiritoso oggi. Hanno semplicemente creato una situazione di conflitto, di aspettativa, agendo dalla loro posizione di potere, che naturalmente l`allievo gratifica sottomettendosi..
Q: Questi atteggiamenti naturalmente il bambino o l`allievo li apprendono dagli adulti, dal loro universo.
D.F.: Certamente. Gli allievi e i bambini, specie quando sono in più giovane età, imparano subito gli atteggiamenti peggiori dai grandi. Perché capiscono che quello è l`unico modo per trovare un equilibrio per poter continuare ad attingere alle fonti della sopravvivenza e restare in questo mondo. Glieli detta la famiglia, quando è bambino, gli insegnanti a scuola, i professori all`Università; oppure quelli che vedono per strada, I programmi televisivi, la pubblicità dei prodotti di consumo indirizzata espressamente a loro. Soprattutto capiscono che c’è ben chiara una questione di potere che va risolta a loro vantaggio. E d`altra parte, specie nella prima infanzia, non hanno nessun potere reale per opporvisi. Quando parliamo del riso nel bambino dobbiamo sempre partire dal rapporto potere-azione dinamica che ne deriva, coscienza, conoscenza, morbosità, veto, repressione. La chiave del riso per il bambino e gli adolescenti è in gran parte legata alla repressione che l`adulto compie su di lui. Intendiamoci, repressione non sempre a priori negativa.
Q: Che cosa differenzia il loro modo di ridere da quello degli adulti?
D.F.: Per questo vanno studiati i clowns. Siamo sempre lì, bisogna tornare alle origini della comicità per poterla capire e interpretare. Loro si affidano a dei meccanismi primordiali. Il bambino ride quasi sempre di uno che cade. Certamente quella risata è legata all`angoscia di dover camminare in posizione eretta, cioè in un equilibrio precario che ci accompagna per tutta la vita. Ma da un punto di vista teatrale, in modo teatralmente qualificabile voglio dire, si ride in modo liberatorio quando colui che cade è vestito da imperatore o da re. Nel momento in cui chi incarna l`espressione del potere politico esce di scena, fa un gran ruzzolone, a quel punto il bambino applaude incontenibile, sghignazza, si riempie di felicità liberatoria. Questa è anche una delle gags classiche del personaggio del circo francese, il clown bianco, Direttore del circo, che nel corso di tutta la rappresentazione sgrida l`August, l`umile clown un po’ imbranato con cui il bambino si identifica. In colui che viene denigrato dalla ballerina tutta lustrini che sta in cima alla corda, dal domatore di elefanti, dal guardiano dei leoni: tutti insomma infieriscono su di lui e gli fanno portare i secchi, lo insultano, gli dicono di non mettersi le dita nel naso, di non alzare la voce, di non ridere in quella maniera, di non perdere tempo con le farfalle, non mangiare le torte, di non rubare lo zucchero, di non molestare l`elefante. Costruiscono un mondo di sofferenza e costrizione che, ad un certo punto, però, viene capovolto. La ballerina scivola sullo sterco, il direttore cade inciampando nella frusta, il secchio risulta essere pieno di petardi, gli elefanti impazziscono per una caramella, ecc. E quando questo accade tutti I bambini ridono immancabilmente, in modo irrefrenabile. Basta eseguire I numeri con un minimo di ritmo e sapienza teatrale e il gioco è fatto.
Q: Anche il teatro classico, da Aristofane a Plauto, da Macchiavelli a Goldoni a tutto il teatro comico contemporaneo, usa questi ingredienti.
D.F.: La chiave teatrale è sempre la stessa: il potere che cade, il potere che inciampa, la situazione di potere che viene sostituita da una variante vicina allo spettatore, alla sua condizione emotive, è la condizione fondamentale per una comicità che faccia presa sui bambini e sugli studenti.
Q: Quindi possiamo dire che per fare ridere ci sono delle regole?
D.F.: Non ci sono regole, non si possono indicare, perché vertono sul gioco del contrario. Idealmente un comico arrivando su piazza, o un professore in una scuola, a seconda di dove si recita, prima di scegliere il repertorio dovrebbe fare una piccola inchiesta e chiedere quali sono gli eventi edificanti che di recente hanno fatto piangere il pubblico, o hanno commosso i ragazzi della classe. Oppure quali i grandi spaventi che in quella momento minacciano la comunità. A quel punto avrebbe esattamente I contenuti per la recita in chiave comica. Bisogna sempre tener presente che il gioco del ricercare il riso si accompagna con l`uso dell`ironia che deve determinare la parodia di tutti I luoghi comuni del dogma, qualunque esso sia; della regola rigida, della sua assuefazione e normative. In altri termini I contenuti che sono racchiusi nella sacralità del potere del Re, delle gerarchie e di tutti I suoi derivati moderni. Ci sono mille modi, molto più intelligenti di raccontare una storia, che non quelli ufficiali o conformisticamente stabiliti, legati ai fatti di cronaca, a quello che succede nelle case della gente, nella vita personale degli studenti e nella strada. Spesso I cattivi maestri, I professori, non si rendono conto dei lapsus comici che capitano loro quando
insegnano. Se invece se ne servissero nella comunicazione con gli allievi uscirebbero dalla condizione di noia e di piombo in cui sono perennemente calati. Guadagnerebbero
in autorevolezza e credibilità. Persino i pettegolezzi che circolano normalmente in una
classe possono essere riformati in una loro nuova forma saggia, salubre, tolta dalla morbosità inevitabile che li accompagna, servendosi degli strumenti tipici del teatro comico, che sono sempre a portata di mano, rendendoli evidenti alla luce del riso.
Q: I vostri testi teatrali hanno sempre dei contenuti politici chiari ed una struttura drammaturgica particolare. Questi due aspetti a cosa sono dovuti e come si sono sviluppati nel corso degli anni?
F.R.: Il nostro è un teatro civile. Da sempre lo è stato, sin dall`inizio. Un teatro che si occupa dei problemi della gente. Che riflette sugli eventi quotidiani: di natura politica, economica, o dei diritti civili, l`ingiustizia o la discriminazione basata sul sesso o la manipolazione dell`opinione pubblica. Non inventiamo niente per quanto riguarda i contenuti del nostro teatro. Sono tutte cose già presenti nella società e nella cultura che ci sta attorno. Fatti o eventi di cui la società ha bisogno di discutere, ma quest`esigenza non riesce a venire alla luce. Il nostro teatro, in chiave comica, satirica e grottesca, è la sintesi o la reinvenzione fantastica di ciò che esiste già.. Un rovesciamento di prospettiva, un momento di informazione e crescita collettiva. Non tutti, ovviamente, hanno questa esigenza. Anzi ci sono alcuni, quelli che detengono il potere politico e ne ricavano dei privilegi, che cercano di intimidire o inibire questo dibattito. Non vorrebbero che si parlasse e ridesse di certe cause o episodi di violenza e corruzione sociale pubblicamente, soprattutto delle loro responsabilità. Vorrebbero apparire buoni anche quando fanno il male.
Q: E per quanto riguarda la drammaturgia?
F.R.: Per quanto riguarda la forma, il modo pratico con cui realizziamo i nostri spettacoli è chiaro che ci rifacciamo alla ricchezza e allo stile del teatro popolare. Dario sa tutto sul teatro. Non so se io posso considerarmi anche un`autrice. Dario, che è un premio Nobel ed uno degli autori più rappresentati del mondo, dice di sì, quindi magari un po’ lo sono anch’io. Ma soprattutto il mio modo di essere attrice e autrice in scena lo devo ai miei genitori. E voglio chiarire: non è che mio padre o mia madre mi abbiano mai dato delle ‘indicazioni di regia’, insegnato a sviluppare una scaletta o la chiave di un testo, distribuire i movimenti , seguire le luci sul palcoscenico come da didascalia, o altro, così come si dice nel linguaggio tecnico teatrale corrente. La nostra era una famiglia di teatranti professionisti. Legata alla tradizione dell`antica Commedia all`Italiana. Non si è mai parlato di teatro in casa, se non usando il linguaggio di casa. In quinta mia madre, fra una battuta e l`altra, prima di dirmi: “ Va’ che tocca a te!” mi chiedeva se avevo fatto i compiti di scuola., che cosa aveva detto lo zio Tommaso, che era anche l`autore e adattatore di testi scritti da altri per la nostra compagnia, se mi ero messa la maglia di lana, ecc. La nostra compagnia, appena arrivava in una città, faceva un`inchiesta su quali erano stati i fatti più salienti e gravi accaduti di recente in quell paese. Poi sceglieva la commedia da rappresentare dal repertorio classico o popolare, facendone degli adattamenti secondo i risultati dell`inchiesta. Spesso i protagonisti di un`ingiustizia o di un delitto locale li si poteva riconoscere riflessi nelle trame o nell`introduzione allo spettacolo. Le parole come drammaturgia, regia, la distinzione fra teatro eurdito o teatro popolare, sono parole che ho appreso solo dopo, quando sono andata a lavorare in altre compagnie e successivamente con Dario, durante cinquant`anni di collaborazione e lavoro comune. In verità ancora oggi mi suonano strane. E` chiaro che col tempo e con l`esperienza si cambia. Si affinano le armi del mestiere. Si percepisce più chiaramente quello che il pubblico vorrebbe vedere in scena e come lo vorrebbe vedere rappresentato. Ma non sempre bisogna seguire in modo meccanico questi suggerimenti. Specialmente nel teatro comico. A volte bisogna sorprendere il pubblico, contraddire le sue aspettative per realizzare pienamente lo scopo della rappresentazione. Il teatro, nella sua semplicità, è una cosa molto complicata. Far ridere è una cosa molto seria, come diciamo spesso.
Q: “Tutta casa, letto e chiesa” è il primo testo a contenuto femminile di grande successo scritto a due mani con Dario Fo ed è anche lo spettacolo più tradotto e rappresentato in assoluto, fra i vostri monologhi, negli Stati Uniti. Da quali fatti e sollecitazioni nasce?
F.R.: La versione originale di “ Tutta casa letto e chiesa” è stata scritta nel 1977, in un pomeriggio, o poco più. Allora vi si sono raccolti tutti i fermenti e i temi più importanti del movimento femminista, emersi nel decennio che andava dal 1968 al 1977. I contenuti riguardavano l`aborto, la gravidanza, il figlio voluto, la violenza sessuale sulle donne, il doppio sfruttamento economico a cui è sottoposta la casalinga e la donna che lavora in ufficio, la pillola ecc. Dopo quella prima stesura mano a mano il testo si è venuto affinando, elaborando in un continuo rapporto con il pubblico, quasi come una creatura o un organismo vivente. Successivamente altri testi si sono aggiunti, sono raccolti in tre volumi di monologhi edita da Einaudi, legati a conoscenze accumulate in anni di lavoro politico o intervento sociale.
Q: Nel vostro teatro si possono distinguere fra loro i due momenti: quello personale e quello più propriamente legato alla sfera politica e sociale?
F.R.: È chiaro che il nostro teatro non è un teatro intimistico, psicologico o autobiografico. Ma detto questo, credo proprio che sia difficile separare i due momenti: un atto di solidarietà implica anche lo scambio della propria esperienza personale, della propria vita con quella degli altri. È sempre così se si crede in quello che si fa, specie in teatro. Ad esempio il monologo “Una madre” era un tormento che io avevo da tempo. E` nato nel 1980 dopo mesi, anzi anni di scambi di informazioni, di frequentazioni di madri di tossicodipendenti e di terroristi, che aiutavo o semplicemente incontravo nel corso del mio lavoro nelle carceri o nei centri di disintossicazione e reinserimento. I due dolori, quello della madre del terrorista e quello della madre del tossicodipendente, le due disperazioni, del tutto simili umanamente, sono poi confluiti in un solo personaggio: una donna che al centro della scena ripercorre col pubblico, ad alta voce, la propria storia. La storia di un figlio finito in carcere e che potrebbe essere tranquillamente il figlio di una qualunque madre seduta in platea. Ricordo che la prima sera che recitai questo monologo a Torino, anzi lessi, perché ancora non avevo imparato a memoria il testo, in sala si era creato un tale gelo, una tale tensione che si poteva fisicamente percepire la rimozione della gente nei confronti di quello venivo dicendo.
Q: Dopo questi monologhi tu e Dario ne avete scritti tanti altri sulla condizione femminile. Che cosa è cambiato nel pubblico rispetto ai primi monologhi?
F.R. La tragedia vera è che siamo sempre lì. Un po` più avanti o un po’ più indietro siamo ancora lì. Quei primi monologhi sono ancora attuali perché la condizione della donna è più o meno la stessa. Lo dico non per pessimismo, sia chiaro. Ma è così. Quello che s’è guadagnato, se c`è stato un lieve miglioramento, riguarda una piccola minoranza. Una minoranza che a volte rischia di essere arrogante nel giudicare o considerare arretrata la riproposta della realtà femminile così com’è. Come si presenta ora ai nostri occhi. La realtà non procede mai, o quasi mai, con i ritmi astratti del pensiero di pochi intellettuali, con i ritmi del suo consumo intellettuale.
Q: Nel corso di innumerevoli tournée internazionali hai avuto modo di incontrare personalmente altre attrici che hanno tradotto e messo in scena i vostri monologhi femminili, quali impressioni ne hai ricavato?
F.R. In alcuni casi sono rimasta felicemente sorpresa, come nel caso di Yvonne Braysland, nella produzione del National Theater di Londra, oppure ad Amsterdan, Buenos Aires, Berlino, Istambul… in altri casi profondamente delusa. Ed è sempre capitato quando le attrici si sono affidate agli stereotipi teatrali. O quando hanno cercato di mettere in scena quella che, secondo loro, era una tipica donna italiana. Un genere di animale che, notoriamente, non esiste o esiste solo nelle inchieste dei grandi giornali di moda. Insomma è capitato quasi sempre quando vi era una scarsa partecipazione e coscienza, rispetto ai contenuti del testo che venivano recitando. E parlo anche di grandi attrici americane. Quelle che hanno vinto degli Oscar, per intenderci parlo di Estelle Parsons, che ad un certo punto della loro carriera hanno voluto mettere in scena dei nostri monologhi senza capire lo spirito profondo che li anima e la nostra idea e forma di teatro o stile di recitazione che la esprime. Ma nell`insieme, fra i due estremi, debbo dire che ho incontrato tanto entusiasmo e quasi sempre un sincero desiderio di contribuire alla riuscita dello spettacolo e soprattutto, cosa che più conta per me, a comunicare col pubblico. Walter Valeri
|