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Sagarana ALLA FINE DELLA FIERA


(Milano, Lombardia)


Marco Rovelli


ALLA FINE DELLA FIERA



 

Ascolta bene, Mehedi. Il tuo premio è questo. Nel tuo viag­gio hai imparato tanti trucchi, hai superato tanti ostacoli. Non sarà difficile quest'ultimo. Certo può suonare curioso a uno normale, che non conosce come si vive dietro le sue spalle. Non se lo immaginerebbe che succeda proprio qui a Milano. Ma a te parrà normalissimo. Si tratterà di mettere in atto quei sistemi che hai imparato durante il tuo viaggio. Che poi è sta­to un viaggio epico. Davvero epico, dovresti andarne orgo­glioso. Uno di quei viaggi senza ritorno. Quelli che una volta che sei partito sei costretto a proseguire, puoi solo sperare che passi il più in fretta possibile. Ma poi tu, Mehedi, sei uno in gamba, e per giunta simpatico. Sei tu che le racconterai ri­dendo, quando tutto questo sarà passato. Adesso, certo, è an­cora presto per le risate. Ma tu sei un tipo solare, ci arriverai. E ricorderai ridendo di quando, dopo essere arrivato in aereo dal Bangladesh a Mosca, vi hanno portato a piedi per le mon­tagne innevate verso l'Ucraina, e tu pisciavi e il tuo piscio non faceva tempo a toccare terra ed era già ghiacciato. Di quando un tuo compagno di viaggio è caduto nella neve e tu hai pro­vato ad alzarlo, perché da solo non ce la faceva, e il capocor­data russo ti ha mollato un pugno e ha fatto cadere anche te. Di quando hai perso una scarpa, e il tuo piede ha cominciato a congelare, e la tua scarpa era di ghiaccio. Di quando vi sie­te dovuti rotolare nella neve come bambini, per altri sarebbe stata una fortuna giocare così, era la prima volta che vedevi la neve, ma adesso dovevate rotolare in fretta per arrivare in fondo al pendio. Di quando vodka e grasso di maiale. Di quando in Ucraina, fuori da Kiev, il pullman bloccato nella neve, e chiamano i soccorsi, e arriva la polizia, e vi portano in questura e tu dici a te stesso: `Vabbé almeno è caldo" – ma in questura non c'è posto per quaranta persone, allora rimanete in pull­man, al gelo. Di quando sul pullman un poliziotto: "Speak en­glish?" e nessuno risponde, e allora in quel pullman ci restate a dormire, e la mattina dopo arriva un altro poliziotto, con una mano vi fa segno di alzarvi, voi vi alzate, lui si mette a parlot­tare con un altro, così soprappensiero, e soprappensiero vi dà un'occhiata di sfuggita e vi dice: "Sit down", e voi, anche voi soprappensiero, vi sedete, "So you bastards speak english" – e allora si incazzano e vi portano nel cortile della questura sot­to la neve, in fila, tre file di persone, e per un'ora su una gam­ba sola. Di quando anche lì non hai perso il tuo sense of hu­mour e hai detto di chiamarti "Baaba", padre, così loro ti por­tavano rispetto senza saperlo. Di quando poi arriva uno dei donkeys, quelli che hanno organizzato il viaggio, lo vedi ridere e scherzare con la polizia, e voi risalite sul pullman, e vi por­ta via. Di quando poi l'Ungheria, ad aspettare in quaranta per­sone in una cascina di campagna. Di quando nella stalla hai visto uno legato per i piedi, appeso a testa in giù e bruciato con le sigarette perché non aveva pagato quarantamila dolla­ri per dei viaggi organizzati in passato. Di quando poi ancora camminare, e à polizia, qualcuno l'ha avvertita, viene a pren­dervi in pullman, un altro, ma almeno stavolta non sei al ge­lo. Di quando in quel centro, che tu adesso chiami lager, ché c'è gente lì dentro da un anno e più, insieme ai tuoi dieci com­pagni rimasti con te compri da un ragazzo albanese un col­tello per trenta euro e ci tagliate le lenzuola, per scendere dalla finestra come avete visto fare nei film, così quando piove forte e il guardiano sta nel gabbiotto voi avete il tempo per scendere e fuggire dal campo in quel minuto e mezzo tra un fascio di luce e l'altro – ma non piove mai, e resti lì, con le len­zuola tagliate. Di quando allora ne provate un'altra per scap­pare, vi nascondete nei bagni e vi fate chiudere la notte lì den­tro, e con la lama fate un buco nel muro, e alcuni ce la fanno – ma tu sei troppo grasso per passarci, e resti lì, con le lenzuola tagliate e il buco nel muro. Di quando poi fai finta di avere di­ciassette anni e invece ne hai venti, e dici di avere problemi politici, anche se non è vero, perché in realtà tu avevi un call center a Dacca ma non ti piaceva e tua madre era morta e in casa stavi male, ed è per questo che hai deciso di raggiungere lo zio in Italia, che ti ha organizzato il viaggio grazie a un connazionale che lo fa di mestiere, però mica sapevi che il viag­gio era così rischioso, ma ormai ci sei dentro e non puoi più tornare indietro, e insomma adesso hai detto di venire non dall'Ucraina ma dalla Jugoslavia, che non accetta rimpatri, que­sto era il trucco e tu lo sapevi, così hai potuto fare domanda d'asilo. Di quando per la domanda d'asilo ti mandano in un centro un po' migliore, e dopo quindici giorni esci, ti danno tre mesi di permanenza, che significa tre mesi per sparire dal paese. Di quando sei fuori e l'organizzazione sa già tutto perché da dentro hai telefonato allo zio che ha chiamato l'orga­nizzatore del tuo viaggio che a sua volta ha contattato quelli della tratta ungherese, perché questa odissea funziona a trat­te come una catena di organizzazioni autonome, e allora lo­ro ti comunicano giorno e luogo di ritrovo. Di quando gli ungheresi vengono a prenderti, ed entrate in Slovacchia attra­versando un lago con un gommone gonfiabile che fa un ru­more della madonna e tu pensi che adesso vi beccheranno, non possono non beccarvi con quel rumore, e invece stavolta no, ma il canotto fa cinque viaggi e tu sei nell'ultimo turno e c'è una perdita e riuscite ad arrivare a riva per un pelo e tu dici a te stesso: "Da stavolta meglio primi che ultimi". Di quando una macchina, e poi ancora foreste per arrivare in Austria. Di quan­do ancora macchine e trasbordi, fino a una casa, dove riempi un altro modulo per la richiesta di asilo politico, e la mattina dopo al treno, una cuccetta, e ti dicono di scendere quando vedi il sole, tieni i piedi fuori e la testa coperta, che a te sembra un segnale per qualcuno, infatti nessuno viene a disturbarti, passi la frontiera sotto quella coperta e con il sole sei in Italia, e scendi, sei a Vicenza. Da una cabina telefonica chiami tuo zio, che ti viene a prendere in pullman, e ti porta a Milano.
Ecco, Mehedi, tu ricorderai tutto questo ridendo, e allora di fronte a tutto ciò, vedi – adesso ti tocca una cosa semplice: per lavorare, devi saltare un cancello. Hai provato a uscire dai cancelli, quando eri nei tuoi lager. Adesso li devi attraversare all'incontrario, ci devi entrare. Ma se applichi le tue astuzie ce la farai, Mehedi. Il premio ti aspetta. Che poi si tratta nient'al­tro che di proseguire il viaggio: non hai fatto altro che saltare barriere, superare frontiere. Questa è un'altra, forse l'ultima. Lì dentro c'è il tuo premio. Il lavoro. Questa è la Fiera. Devi entrare nella Fiera senza farti vedere. Lì c'è il tuo lavoro ad aspettarti. È come un gioco, Mehedi, e tu ormai questo gioco l'hai imparato.
Sei stato chiamato, Mehedi, a casa dello zio, lo zio che ti ha accolto pagando i sei mila euro all'organizzatore come da contratto e che tu gli dovrai restituire, e ti ha accolto in que­sta casa affollata come tutte le case di quelli come te, siete in sei in due stanze, è in questa casa che è arrivata la telefonata della cooperativa. Quando ci sono le fiere la cooperativa chia­ma, e quelli che stanno in casa rispondono. Il lavoro è saltua­rio, ma meglio di niente. Uno di loro però ha trovato di me­glio, un lavoro da cameriere, entrare in cucina è già un passo avanti anche se come lavapiatti, almeno è continuativo. Così si è liberato un posto per te. Tu ancora non parli italiano, solo qualche parola, stai cercando di imparare con il tuo ma­nuale, allora è il tuo amico a rispondere per te, a mettersi d'ac­cordo. Poi ti dice: "Il problema è entrare. Se riesci a entrare, magari ti prendono".
Non hai scelta, Mehedi, questa è l'unica occasione. Uno dei tuoi coinquilini ti presta la giacca della tuta verde e bian­ca della cooperativa, ne ha una in più, tu la indossi e vai ver­so la Fiera. Devi entrare, per avere il posto. Il capo non viene certo fuori per te, a lui che gliene frega, ce ne sono talmente tanti che vogliono lavorare, è una corsa a premi, come un pa­lio, a lui basta stare lì ad aspettare. Il tuo amico ti dice: "Devi passare dal cancello svelto ma tranquillo, l'importante è sem­brare del posto, come un abbonato che entra in modo natu­rale, senza nemmeno porsi il problema, la giacca ce l'hai, fai finta di niente, anche se non hai il tesserino, la guardia non ti chiede niente". Ma tu, questa prima mattina, nonostante gli ostacoli che hai superato sin qui, il coraggio di passare come se niente fosse non ce l'hai. Giri intorno alla fiera, come un assedio. Ci sono una decina di cancelli, prima o poi troverai il momento. A un cancello secondario vedi che sta per entrare un camion lungo, e pensi: "Adesso ci provo". L'autista scen­de dall'abitacolo per mostrare i documenti alla guardia, e tu ti intrufoli tra il camion e la parte opposta del cancello. Svel­to. La guardia sta ancora controllando i documenti. Sei en­trato. Sei già a cinquanta metri, dentro agitato, ma fuori im­passibile, almeno ci provi. Capisci che imparerai, perché que­sto è ciò che ti toccherà nel tempo a venire. Far mostra di es­sere tranquillo e naturale anche se non lo sei. Non reagire, fare finta di non sentire se ti chiama, procedere tranquillo, senza agitarsi, senza correre. Dissimulare.
Ecco, sei dentro. Il capo ti guarda, ti chiede chi ti ha mandato, ti dice: "Va bene. Comincia. Vai a quel camion e scarica le casse". Un tuo compagno di lavoro ti accoglie dicendoti: "Questa è una prigione. Il lavoro sai quando inizia, ma non sai quando finisce".
I primi tempi ti dicono di andare mattina per mattina, sei un vero bracciante a giornata, poi cominciano a fidarsi e ti chiamano di settimana in settimana. Tu abiti a Corretto, e quando il lavoro finisce, con la metropolitana ormai chiusa, per tornarci devi prendere il 27 fino al Duomo, e l'ultimo parte all'una e un quarto di notte. Quando finisci all'una non ce la fai, perché dopo mezzanotte alla Fiera resta aperta solo la Porta di Domodossola, e tu non ce la fai nemmeno correndo, ti ci vuole almeno mezz'ora. Hai provato a chiedere di farti uscire mezz'ora prima, domattina vengo più presto, alle sei e mezzo. "Fai come vuoi," ti hanno risposto, "se vuoi andare vai, quella è la porta, però poi non ci vediamo più." Così per tor­nare a casa ti tocca camminare più di due ore, e per dormire te ne restano meno di tre. Anche perché la mattina devi essere lì alle sette per cominciare alle otto, ché se arrivi dopo ma­gari hanno già assegnato le cose da fare e non c'è più posto. Allora spesso preferisci restare a dormire su una panchina del magazzino. Non sul divanetto dell'ufficio, figurarsi, quello ri­mane chiuso. L'ufficio, del resto, rimane chiuso anche quan­do c'è troppo lavoro, così sei costretto a restare, perché se te ne vai senza aver timbrato il cartellino alla macchinetta che sta nell'ufficio non ti danno una lira.
Una volta lavori trentasei ore di seguito senza fermarti, e ti stupisci della tua resistenza, non l'avresti detto. Hai comin­ciato alle otto di mattina, il giorno prima dell'apertura di una fiera, e fino alle otto di mattina del giorno dopo, quando la fie­ra apre al pubblico, prendere cartoni, trasportare materiale, scaricare e caricare camion. A fiera aperta ti dicono di rimanere, e sai che non puoi rifiutare, è una manifestazione di fi­ducia questa, se corri più degli altri ti chiamano anche du­rante la fiera, e tu corri, del resto lo dici tu: "Chi ha più fame corre di più", e adesso si tratta di girare con il carrello tra i palazzoni, spazzare velocemente per tenere sempre pulito, svuo­tare bidoni, portare via scatole vuote dagli stand, pulire il ri­storante, e poi ancora pulire tutto a fiera chiusa, fino alle nove di sera. Poi resti a casa due settimane, fino alla fiera suc­cessiva. E non te le pagano nemmeno tutte quelle ore.
Sono dieci i padiglioni da pulire. Ma la cooperativa ha in regola solo tre persone part-time, quattro ore al giorno. A vol­te però siete anche in quaranta. Egiziani, bengalesi, pakista­ni, rumeni, anche italiani pensionati, ai capi la nazionalità non interessa, a loro basta che lavori, è sufficiente che sia stato chiamato da qualcuno già all'interno, è come una catena, una catena clandestina, bisogna evitare che tu abbia legami con il mondo esterno.
La paga è di diecimila l'ora (siamo nel 1997, ma dieci an­ni dopo avresti avuto cinque euro), dal salario ti tolgono an­che i soldi della tuta, e quasi sempre ti danno meno di quel che ti spetta, con la scusa della macchinetta che non fun­ziona, una volta quattrocentomila lire in meno, sulle duecen­tosessanta ore che hai fatto nel mese. Ma se insisti ti dicono: "È così, se non ti va bene puoi andare".
Vedi che qualche maghrebino reagisce urlando, minac­ciando di chiamare i carabinieri, e quelli della cooperativa gli rispondono: "Sì, chiamali, vai; i carabinieri sono là, proprio dentro la fiera". Ma nessuno è mai andato che tu sappia. Stai calmo, non protesti, non minacci, devi stare attento: hai ri­schiato la vita per venire, hai speso un patrimonio, allora ci pensi su mille volte, e non urli mai.
Continui a entrare di nascosto. La giacca bianca e verde della cooperativa la tieni in mano, e resti fermo, tranquillo, fingendo di telefonare, o aspettando che arrivi qualcuno. Poi, quando la guardia si gira e si distrae, o arriva un camion, ti infili veloce la giacca ed entri. Quando la fiera è piccola, co­me quella degli artigiani, non ci sono grandi camion dietro ai quali nascondersi mentre entrano, e allora ci metti più tem­po, e rischi di più.
Per fortuna le guardie cambiano spesso e non focalizzano la tua faccia, per fortuna ognuno di voi ha orari diversi d'en­trata, se no ci sarebbe una folla di gente al telefono davanti ai cancelli. Una volta ti fermano, la guardia è incazzata, ti ordina di chiamare il tuo capo e dirgli di venire. Tu lo chiami al cellu­lare, ma lui non viene. Lo richiami, e lui ti scarica: "Se entri c'è il lavoro, se no ti arrangi, lasciami stare, sbrigatela da solo".
Dopo otto mesi ti danno il tesserino, anche se sei clande­stino. Tu lavori correndo, e il capo ha deciso che gli conviene tenerti. Almeno puoi entrare tranquillamente, le guardie al cancello ti riconoscono e ti salutano. Il premio ormai te lo sei conquistato.
Ma ancora un altro premio dovrà venire, e allora riderai anche di tutto questo. Avrai la fortuna di trovare un padrone che ti metterà in regola, con la sanatoria. Sposerai una bella ragazza rumena, sarete una coppia stranissima, lei quando ti chiederà di sposarti penserai che ti lascerà subito una volta ottenuto il permesso, e invece passati quattro anni sarete an­cora insieme, e tutto funzionerà bene. Con lei andrai a vivere fuori Milano, a Melegnano, dove ti stabilizzerai come operaio in una piccola fabbrica meccanica.
Ecco, e a me che ti vengo a trovare a Melegnano – è una domenica pomeriggio e andiamo a prendere il sole sotto il ca­stello e mi racconti il tuo viaggio – io poi non posso fare a meno di raccontarti qualcosa di mio. Anche se il mio viaggio è di altro tipo, e se sono qui ad ascoltare storie come questa è perché in esse leggo la mia, che poi di altro non si tratta se non di portare alla luce ciò che è nascosto e di fare i conti con la parola e il potere per portarlo alla luce. Poi mi accompagni alla macchina e mi dici: “Mi piacerebbe sapere meglio l'italia­no, sai la lingua è un problema, non capisci mai fino in fondo, e nelle cose il gusto è in fondo”, e già è il primo regalo che mi porto bieco nel viaggio, e poi mi lasci dicendo: "In patria ormai sono straniero, quando torno al paese non mi piace più andare a rubare la frutta sugli alberi", e questa immagine perfetta del tuo sradicamento la porto con me, in questo viaggio, che mi fa fare un passo sotto, nel paese sommerso.




(Brano tratto dal saggio Servi – Il paese sommerso dei clandestini al lavoro –, Feltrinelli editrice. Milano, 2009.)




Marco Rovelli
Marco Rovelli (Massa, 1969) insegna, suona e scrive. Tra i suoi libri Lager italiani (2006, Rizzoli), un “reportage narrativo” dedicato ai Centri di permanenza temporanea (Cpt). Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide (Rizzoli), sulle morti sul lavoro in Itália. Suoi racconti e reportage sono apparsi su “Nuovi argomenti”, “L’Unità” e “Il manifesto”.




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