CITTÀ LIQUIDA Cecília Meireles
(…) A Venezia l’acqua incomincia subito come si scende dal treno. Un sollecito gondoliere mette in pila nella sua gondola, con destrezza strabiliante, una montagna di valige. Le gondole sembrano cigni neri. Sembrano strumenti musicali con quel ferro che hanno sulla punta a mo’ di bischero. Il gondoliere con il suo remo di qua e di là è come un violinista con il suo archetto. Vado così musicalmente per il Grande Canale e prima di arrivare ad ogni angolo d’acqua il gondoliere grida : Ohé! Ohé!”… cosa senza paragone più bella del clacson delle automobili.
Dall’altra parte non rispondono? Possiamo proseguire.
Il cielo è grigio, l’acqua è torbida. Sulle vie d’acqua galleggiano bucce di frutta, pezzetti di carta, cose vecchie. Ma le facciate dei palazzi perpendicolari all’acqua hanno un’imponenza malinconica fuori dal tempo nelle loro linee gotiche, bizantine e rinascimentali. In un giornata di sole tutto risplenderebbe: torri, guglie, cupole, archi, logge, - e la traversata del Canale sarebbe una passeggiata fantastica al dondolio delle nere e oscillanti gondole. Ma così con il cielo nuvoloso e la pioggerellina sembra di dormire sognando un sogno millenario. Il gondoliere annuncia il Ponte di Rialto, indica i palazzi: la Ca’ d’Oro dall’architettura gotico-veneziana, le logge merlettate all’orientale e terminanti in alto con un giardino di lance. E, da una parte all’altra, palazzi, nomi, secoli, stili. E il Ponte dell’Accademia, e altri palazzi, e altri secoli, e altri nomi…
La gondola attracca. Briccole dipinte di rosso e bianco sul limitare dell’acqua. Palazzi che sono alberghi. Alberghi che sono pieni di fiori. La finestra sull’acqua. I canali che si fondono l’uno nell’altro e cambiano nome… Gondole e vaporetti che partono per il Lido cosmopolita, per Murano paradiso del vetro…
Di fianco la piazzetta con il Palazzo dei Dogi, solenne, - La Biblioteca e la Zecca che hanno reso immortale il Sansovino. Le colonne con il Leone e San Teodoro. E subito la piazza dove la Basilica di San Marco risplende con le sue cupole come un vassoio d’oro dagli opulenti frutti esotici.
Nonostante la pioggia, i famosi piccioni, nel loro volo, fanno salire e scendere nella grande piazza un rumoroso sipario di penne. Compro cartocci di miglio per queste adorabili creature color viola, bronzo, candide, cenerine, nere, che si posano sulle mie spalle, sulle mie mani facendo roteare gli occhietti tondi come semi brillanti. Mi ritrovo tutto stampata di zampe di piccione, dalla testa ai piedi. Ma loro si levano in volo sopra le colonne della piazza, sui cornicioni che la circondano… Dove vanno? Sul Campanile? Sulla grande campana dove i due mori da più di quattro secoli battono le ore? Quanto a me vado da tante parti: entro nella sfolgorante basilica che è come il confine di un altro mondo, camminando sull’antico e prezioso pavimento dove i colori scintillano come rubini e crisoliti. Contemplo le figure bizantine che, nei loro regni dorati, vivono eventi eterni. Passo sotto il battesimo della luce che cade dagli addobbi giù per le pareti, di santo in santo, fino al pavimento. Riposo l’anima in reliquie, alabastri, oggetti incantati di oro e miracoli. Fra le colonne del risplendente portico penso: “I cieli si aprirono e lo Spirito Santo discese come una colomba.”
Vado per queste vie, quasi sempre di acqua, passo su un piccolo ponte, arrivo in una casa antica, con soffitti di travi, grandi archi ogivali, un odore e un silenzio di tempo immobile: e assisto alla nascita dei merletti.
I merletti a Venezia hanno una storia d’amore e di mare. Fu un marinaio a portare in regalo alla sua sposa una pianta marina, la Halymedia opunzia, che gli uomini di mare chiamano “pizzo di sirena”. Quando lo sposo partì, la giovane, per ingannare il tempo, cominciò con dei fili a fare la pianta che aveva ricevuto in regalo. E così nacquero i pizzi a tombolo, ad ago, con volute, roselline, a rilievo e mille altre invenzioni che dimostrano quanto sia grande la creatività di chi è in attesa.
Guardo queste belle cose con una certa malinconia pensando a quel verso di Rilke che parla degli occhi delle ricamatrici consumati sui pizzi. Che cosa c’è in questi disegni oltre ai fili? Che cosa non si vede pur essendo così presente? Chiacchiere, scene, tutto il teatro della vita, fra questi lievi fiori e i delicati arabeschi? Quanto pagherò per corredi del genere? Che cosa porterò con me nell’angolo del fazzolettino? Quante vite umane portano le spose prigioniere dei loro sontuosi veli?- Le ricamatrici continuano con i loro invisibili aghi, con i loro fili invisibili, a tessere con cose invisibili gli immensi pizzi che ammiro. E una pallida ragazza dall’aria monacale mi parla di Cencia Scapariola, una vecchietta che conservò i segreti della lavorazione dei pizzi grazie ai quali è stata possibile la loro rinascita.
Vado al Palazzo dei Dogi e, mentre la pioggia cade a catinelle sulla città, abito con Minerva e Nettuno, rifletto di fronte all’antica immagine della giustizia, partecipo delle grandi guerre dipinte, assisto a splendide Resurrezioni e Ascensioni, vedo dogi, divinità, santi, mi aggiro fra panoplie, armature, elmi dal muso di macabri pesci d’acciaio. E il vento vibra nei vetri e la pioggia cammina con passi fantastici per le logge, per le scale, viene con me fino alle antiche prigioni e, anche senza udirlo, sento il suo freddo in queste cavità di ombra e di pietra.
E con la pioggia vado per i ponti, salendo e scendendo per i canali come in un carosello d’acqua. E d’acqua percepisco i vetri di Murano con i loro fiori, i loro uccelli, i loro animali marini, - nature morte e trasparenti, rugiade d’oro che sembrano nate proprio dal mare e dal sole. Dall’alto del Campanile vedo la città liquida - Venezia china su cuscini d’acqua. Con i capelli d’acqua che scendono fino ai piedi, e le ricamatrici a tessere vestiti d’acqua, e i vetri soffiati d’acqua come bolle di cristallo, molluschi, sirene…
Se per un momento cessa di piovere, se una rosa azzurra si apre nel cielo, delle ragazzine veneziane mi offrono, nel loro chiosco, animaletti di vetro, collane, temperini a forma di gondola, binocoli di un centimetro attraverso i quali si vede Venezia piccolina con la radiosa facciata di San Marco…
Ma subito la pioggia torna a cadere. Entro in una di quelle sale da tè dove si può vedere, più che il tè, i colombi indecisi fra miglio e pioggia. E scopro, sulle pareti, il Carnevale di Venezia e sento nostalgia per un tempo dai modi garbati, con il piccolo mistero della mascherina e dei lunghi vestiti che si increspano nella coda in un giro di valzer. Una nostalgia di cose che potrebbero essere allo stesso tempo buone e belle.
E con la pioggia vado per le vie dell’interno dove ci sono vetrine con oggetti che incantano; e continuo a camminare come chi desidera sentirsi perso per sapersi dopo ritrovato magari in chiese fuori mano, in vie deserte, in questa città dove le vie si chiamano calli o rughe e dove un pittore, che non trovo più, mi ha promesso di mostrarmi le similitudini fra il parlare veneziano e il portoghese.
E così andando di ponte in ponte, e volendo ritornare sempre a San Marco, per altri battesimi di luce, arrivo a casa di un certo amico che mi riceve come un nobile nel suo palazzo. E tutto quanto amo sarà presente: arte intorno, la cultura, quelle buone maniere che sono semplicità e cortesia, quel benessere che non è fatto di lusso né di cose inutili, ma solo dell’essenziale, e quasi proprio solo di spirito. Una tranquilla grandezza dove tutti si sentono a proprio agio felici. E, in mezzo alla tavola, un dolce favoloso con una corona di glassa che si trasforma in fili di cristallo. Un dolce che merita di essere cantato in versi. Un dolce di pizzo di vetro, di pioggia tessuta, un’invenzione di diamanti che abbaglierebbe lo stesso Marco Polo.
Entro in musei, vedo mostre, ricordo le glorie di Leonardo, provo la felicità di ammirare tanta gente che ha fatto di Venezia questa meraviglia posata sull’acqua come Venere sulla conchiglia. Scultori, pittori, architetti che amarono il loro compito e, perché lo amarono, costruirono cose eterne.
Aspetto invano un sole che non arriva. Gli orologi gridano che devo partire, e vedo con tristezza che la gondola che si avvicina è quella che mi porterà via. Come uno strumento musicale, una vina indiana, un misto di uccello e barca. Lunga, slanciata, con la coda di metallo rilucente: bischero per la musica del viaggio lungo il canale.
È molto presto, fa molto freddo, la pioggia impercettibile rende tutto grigio: spegne il Palazzo dei Dogi, con le sue frecce, le sue logge, le sue colonne, le sue immagini… Spegne tutti i palazzi, bizantini, gotici, rinascimentali… E i ponti… E l’acqua… E l’aria… Venezia si trasforma in ricordo, in nostalgia. In una realtà viva, senza sogni. (Traduzione dal Portoghese di Mirella Abriani.) Cecília Meireles de Carvalho Benevides (Rio de Janeiro, 7 novembre 1901 – Rio de Janeiro, 9 novembre 1964) č stata una poetessa, insegnante e giornalista brasiliana. Cecília Meireles ebbe figlie con il pittore Fernando Correia Dias, tra le quali l'attrice brasiliana Maria Fernanda Meirelles.
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