NESSUNO DI VOIALTRI, PASSANTI, HA MAI PROVATO DOLORE? Brano tratto dal romanzo Dall’aprile a shantih Michele Cecchini
Persisteva nel riempire quegli smisurati intervalli di tempo Eugenia, in simbiosi con le cianfrusaglie e i futili avvenimenti che scandivano, delimitandola, la sua esistenza. Pur non avendovi mai colto il minimo nesso di appartenenza, ne possedeva una mappatura intima e dettagliata. Il suo sguardo sapeva del candelabro e del lampadario. Un mondo arcaico era riemerso e aveva tracimato, riversando carabattole, ninnoli e suppellettili che avvincevano la sua persona in una soggezione balorda. Viveva in un museo, circondata da oggetti un tempo appartenuti a chissà chi. Come la sequenza di cofanetti di ceramica sulla credenza, buoni a custodire mentine.
La proiezione ad altro rimaneva ambizione frustrata, velleitaria; e ogni inizio si confermava una continuazione.
Ascolta. Cos’è questo rumore? Forse un topo, giù nel solaio.
La malinconia era colata lungo quelle pareti e si era appiccicata dappertutto. Anche sulle tazze da tè e sul loro bordo dorato. La madre ne millantava la provenienza dalla nonna, dalla bisnonna e ancora oltre. Ne ruppe una, da piccola. Fu forse il pretesto per una sfuriata isterica, in cui aveva maledetto tutto e tutti, solennemente e ripetutamente. Così, almeno, le era parso.
Ancora oggi, decifrava i propri ricordi quali sconnessi stati d’animo. Nella impossibilità di risalire alla circostanza che li aveva generati, rimanevano scialbi, opachi: delle ombreggiature che stridevano con un approccio al mondo esterno improntato a disamina molecolare, a disciplinato zelo. Prova ne erano il pomeridiano piantonamento dai veroni e la sistematica ricognizione del corrispettivo frammento di cosmo, incluso il tratto di viale che si scorgeva di lontano, stando in piedi o seduta sulla sedia a dondolo, con il mento sul dorso di una mano.
Un’agonia consumatasi quasi per intero in quei luoghi sbiaditi.
Il gocciolare dei minuti e degli anni aveva pure acconsentito – triste privilegio! – ad osservarne i mutamenti: lo stillicidio degli alberi abbattuti, l’asfaltatura del piazzale, i fabbricati – costruiti o ristrutturati –, l’arrivo dei nuovi inquilini.
Un gorgoglio improvviso: bolle d’aria nei tubi.
Coppie di anziani nel primo pomeriggio, sempre alla stessa ora, passano e dileguano. Vestono abiti scuri e si danno il braccio lungo una passeggiatina incerta. Alcuni vagano soli: il cappello, l’ombrello chiuso a scandire i passettini; i pantaloni, più lunghi del dovuto, si afflosciano sulle scarpe nere di cuoio sdrucito e con i lacci grigi.
Lo sguardo accompagnava dove poteva.
Il ticchettio dell’avvocato si allontanava fino a perdersi sotto casa. Qualcuno era atteso dalla moglie per cena, nelle cucine dai soffitti bassi.
Per un’illogica associazione di idee, la sua mente veniva risucchiata altrove. Ma era proprio così? Le riflessioni catartiche, in cui sperava di imbattersi – sì, liberatorie e risolutrici – tardavano a sopraggiungere, mentre proseguiva il grigiore opprimente della quotidianità.
Il brano tratto dal romanzo Dall’aprile a shantih, Edizioni Erasmo, Livorno 2010. Michele Cecchini è nato a Lucca, nel quartiere dell’Annunziata, il 28 settembre 1972. Vive a Livorno. È docente di materie letterarie. Dall’aprile a shantih è il suo primo romanzo. Per ulteriori informazioni: www.michelececchini.it
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