RULLO E OLIVIERO Gianluca Bologna
Fu verso la fine di un dicembre particolarmente freddo; quella notte Rullo aveva avuto qualche difficoltà a passare attraverso le maglie rotte della rete di recinzione che delimitava il territorio del cimitero, non perché l’apertura fosse stretta – era passato da lì così tante volte, che oramai si poteva intravedere la sua sagoma tra i rombi di fil di ferro tagliati – ma perché aveva esagerato col Rhum. Ogni volta che sentiva freddo, e quella notte si era ghiacciato anche il fiumiciattolo, lui si scolava quanto più Rhum possibile per riscaldarsi, non avendo nella sua “casa-barca” in riva a quel corso d'acqua putrida, nessun altro modo per contrastare la morsa del gelo, a parte il vecchio sacco a pelo di guerra, regalo di suo nonno. Rullo aveva però un problema ad applicare quel metodo di riscaldamento: spesso, praticamente tutte le volte, non riusciva a frenarsi e sebbene la quantità di alcool invecchiato, circolante nel suo corpo fosse più che sufficiente allo scopo, continuava a bere finché non si ritrovava con la bottiglia vuota, o con la faccia fra i tappeti vecchi e rattoppati che fungevano da pavimento della sua casa-barca, in un sonno tanto profondo che era impossibile da distinguere dallo svenimento.
Quella notte aveva finito la bottiglia.
Riuscito a superare la soglia, lasciando parte di sé fra le punte di alcuni rombi metallici, e trattenendo a stento le bestemmie – al nonno non piaceva sentirlo imprecare, non perché fosse un credente, non aveva mai messo nient’altro sopra l’uomo e gli esseri viventi, ma trovava l’imprecazione, e soprattutto il bestemmiare, l’espressione più volgare della bassezza a cui può arrivare l’animo umano – si avvicinò, barcollando, al terzo corridoio alla sua destra, quello nel quale giacevano il nonno e la nonna.
Distinguere la lapide del nonno non era per niente difficile, anche se ci si trovava distanti. Era la più maestosa, una “matrimoniale” in marmo bianco e rifiniture in rosso, le scritte “qui giace Goffredo Vericchini” e “qui giace Amelia Vericchini” e rispettive date, erano in acciaio cromato. Il padre di Rullo aveva poi voluto mettere a tutti i costi un’epigrafe, e grazie ai consigli di una specie di “arredatore di tombe” ingaggiato apposta, che ne trasse grandi benefici economici, fu concepita l’idea di un leggio in bronzo con i caratteri d’oro, che inneggiasse alle numerose imprese di guerra del defunto suocero; un atto di estrema bassezza per Rullo, degna del suo megalomane ed arido padre.
Prima di riuscire a raggiungere il terzo corridoio, urtò, come tutte le sacrosante volte, contro la piccola lapide che si trovava in fondo al primo corridoio, il quale risultava un poco più lungo degli altri proprio perché vi avevano aggiunto quella tomba, un pezzo di marmo di bassa qualità, con le incisioni semi-cancellate; ogni volta gli usciva una lacrima, non per il dolore, ma per lo sforzo di trattenersi dal chiamare giù tutti i Santi del Paradiso.
Quella notte era particolarmente ubriaco, e tra lo stordimento della botta al ginocchio e lo stordimento del Rhum, si infilò nel corridoio adiacente a quello dove si trovava il nonno.
Arrancando, se lo percorse tutto non accorgendosi dell’errore, non capiva perché ma c’era qualcosa di diverso dal solito, camminò fino all’imboccatura opposta senza trovare niente. Pensò di aver superato la tomba, era grossa e difficile da non notare, ma magari, pensò, per colpa di quella maledetta lapide del primo corridoio non si era reso conto di essere passato oltre. Tornò indietro, si rifece tutta la corsia, ma niente, sembrava sparita. Lui si rendeva conto di essere più o meno brillo – in realtà era anche più in là di un normale ubriaco, ma quando era in quello stato non lo capiva mai – la tomba sembrava scomparsa. Nella sua mente affioravano mille tipi diversi di modi di chiamare l’appello dei Santi del Paradiso, ma cercò ancora di trattenersi, non era del tutto sicuro che il nonno fosse davvero andato via.
«Va bene.» si disse.
Cercò di calmarsi, pensò di dover almeno ritentare, stavolta ci avrebbe messo molta più attenzione, se contava le altre, sapeva che più o meno ce ne sarebbero state sette o otto prima, avrebbe visto di sicuro la posizione, quanto meno, dove prima era stata sistemata quella del nonno. Si incamminò per la terza volta, intanto, anche se il vento continuava a soffiare, lui cominciava a sentire caldo. Giunse alla nona tomba, ancora niente. Ma qualche cosa in lui si stava smuovendo, lentamente come impacciato, nel suo cervello c’era come una specie di essere che si stava alzando da terra a fatica e con la stessa voglia di chi deve affrontare un compito senza averne la minima motivazione, quello era il senso di consapevolezza di Rullo, da sbronzo. Stava cominciando a notare che oltre a quella del nonno, anche le altre solite tombe di contorno erano sparite.
Come era possibile? L’unica spiegazione plausibile era che avevano compiuto uno spostamento di massa di quell’intera parte, forse avevano ristrutturato - in qualsiasi altro momento avrebbe intuito subito l’assurdità di quello che stava pensando, ma non quella notte - era di sicuro la spiegazione più convincente. Si avvicinò alla tomba davanti a lui, la luce della Luna gli permetteva di riuscire ad osservare qualche particolare della lapide, si chinò per cercare di scorgere qualche segno, qualche indizio dello spostamento di massa delle altre lapidi; quasi cadde, nel chinarsi in avanti fu come se tutto il Rhum gli fosse tornato al cervello, perse l’equilibrio, e riuscì ad evitare un’altra botta solo all’ultimo momento, aggrappandosi al braccio corto della croce della tomba accanto. Fece un bel po’ di fracasso, perché col piede andò a sbattere contro alcuni vasi di fiori. Aveva esagerato, da lontano vide una piccola luce gialla accendersi, era il custode del cimitero, tutto quel chiasso l’aveva svegliato.
Non riuscì a trattenersi questa volta, gli scappò un «Porc…»
Si buttò a terra, cercando di sparire il più possibile, mimetizzandosi col buio e col terreno.
Quel modo di nascondersi era una stupidaggine, del tutto inefficace, ma lui non se ne rendeva conto, e fu solo perché il custode non aveva nessuna voglia di uscire dalla sua piccola casa, al caldo della stufa elettrica, che Rullo non fu scoperto.
Stette sdraiato a terra per dieci minuti, poi dovette alzarsi perché stava per addormentarsi.
Si rialzò di scatto, come se l’avesse punto una tarantola, si mise in piedi e salì sopra la tomba davanti a lui per vedere se la luce gialla si fosse spenta, solo allora scorse il leggio di bronzo. In un attimo realizzò, e fu preso d’assalto dal senso di vergogna e dal sudore intenso sulla fronte e sulla schiena.
Il freddo ormai non lo sentiva più, fra il Rhum, la fatica ed il nervosismo crescente, si sentì così accaldato che ebbe l’esigenza di togliersi il suo vecchio maglione nero. Rimase a mezze maniche, e con le lettere “DIY” del suo ciondolo d’oro che luccicavano alla luce della luna.
Si mise a camminare tenendo le braccia larghe per cercare di mantenere l’equilibrio e non causare altri danni, fu faticoso ma finalmente uscì dalla corsia sbagliata.
Nemmeno allora poté inoltrarsi nel terzo corridoio: una grossa bestia, figlia della notte, con i bianchi denti che fuoriuscivano dal suo ringhio terrificante, gli sbarrava la strada.
Rullo e la bestia rimasero lì, uno di fronte all’altro, e come un riflettore, la Luna illuminava ad entrambi la parte anteriore del corpo.
I denti della bestia brillavano alla luce argentea della Luna, mentre quelli di Rullo, erano troppo opachi e sporchi per ricevere lo stesso effetto, lui si sforzava a mostrarglieli non sapendo che quello che attirava l’attenzione del suo avversario era il luccichio del medaglione d’oro. Cercava di tenere le sue grosse gambe piantate a terra, ma il terreno non era fermo, per cui era costretto a spostarsi ora a destra, ora a sinistra per riuscire a mantenere l’equilibrio; la bestia seguiva con attenzione ogni suo movimento.
Man mano che passavano i secondi notava qualche particolare in più di quella bestia. Notò il pelo arruffato che circondava il muso della creatura, e gli venne naturale passarsi una mano sulla sua barba ispida e ribelle che faceva un tutt’uno con i suoi capelli ricci.
Abbozzò un timido passo in avanti, la bestia alzò la coda, dilatò le pupille e fece lo stesso, fu allora e solo allora che Rullo notò il colore del suo pelo. Era nero, nero come la notte, nero come gli occhi di quel mostro, ed in fine, ne era certo, nero come la Morte, che era venuta a prenderlo.
«Sei giunta qui per me.» disse calmo.
Poi, con la tranquillità di un ubriaco che ha capito tutto e non ha mai visto niente, mosse un altro passo in avanti. La bestia nascose i denti e smise di ringhiare.
«Hai gli occhi delle tenebre ed il tuo pelo è nero e informe come il buio che ogni notte attraversi.»
Più parlava, più sentiva crescere dentro di sé l’adrenalina, avanzò ancora di un altro passo, il vento prese a soffiare più forte.
Ora che si trovava a meno di un metro dal suo avversario, notò che non era così imponente come gli era parso all’inizio, inoltre l’adrenalina gli stava facendo scendere l’ebbrezza, e le cose stavano acquistando pian piano altri significati.
Si accorse che la statura di quell’animale superava appena le sue ginocchia, nonostante lui non fosse per niente alto; pensò che ognuno dovesse avere la visione della propria Morte in modo diverso, per un motivo che a lui non era concesso conoscere.
Si stancò di quella situazione di stallo, e in più ora il vento soffiava spilli di ghiaccio molto taglienti, soprattutto per uno che indossa solo una maglietta a maniche corte. Decise che era giunto il momento di affrontare il proprio destino senza paura, almeno così non avrebbe sfigurato agli occhi del nonno. Abbandonò l’atteggiamento difensivo e si avvicinò deciso verso la bestia. La quale, dapprima indietreggiò, poi si diresse contro di lui.
I due si raggiunsero a metà strada, Rullo si parò il viso con le braccia e si predispose per il primo calcio, non se ne sarebbe andato senza lottare, non sotto gli occhi di suo nonno. La bestia si fermò per un istante davanti a lui, poi alzò la coda, si abbassò leggermente sulle zampe posteriori e, si mise a scodinzolare. Con un balzo poggiò le zampe anteriori sulle grosse cosce di Rullo, arrivandogli con la testa alla vita (in effetti davvero Rullo non era alto) e tirò fuori la lingua, non c’era alcun dubbio, quella bestia gli stava facendo un sacco di feste.
A quel punto, ritrovandosi quel muso coperto di pelo arruffato e bava all’altezza della pancia, si accorse che si trattava di un cane, un bastardino dal pelo nero né liscio né riccio, randagio come lui.
L’adrenalina lo aveva reso più lucido, quantomeno abbastanza da capire la figura de deficiente che aveva appena fatto. Per fortuna non c’era nessuno, nessuno poteva averlo visto, nessuno… tranne il nonno.
«Che cazzo« disse ad alta voce, e non ci pensò nemmeno a trattenersi, aveva fatto tutta quella fatica e sopportato quel gran freddo, ed ora si vergognava come un ladro di andare al cospetto del nonno.
Nel frattempo il cane non la finiva di rompergli le scatole, continuava a saltargli addosso e a scodinzolare, cercò di allontanarlo più volte, ma quello ritornava sempre.
«Shoo, vattene!» Gli disse, ma il bastardino non capiva.
«Vai via, cane.» Era soprattutto seccato per la figura che gli aveva fatto fare.
«Che vuoi? Non lo vedi come sto messo? Cercatene un altro.» Non c’era verso, capì che l’unico modo per liberarsi di quel cane era smuoversi da lì. Si decise a andare a compiere la sua visita.
Magari il nonno era di buon umore quella notte, e non avrebbe detto nulla, e magari si sarebbero fatti due risate insieme, se era di buon umore. Se lo era, il problema nasceva se invece non lo era, come accadeva la maggior parte delle volte. Quante gliene avrebbe dette? A quel pensiero si scoraggiò, togliendosi di dosso qualsiasi illusione; col piede diede un piccolo calcio a quel meticcio, che s’era pure messo a seguirlo.
Già da metà corridoio era possibile vedere la fotografia del nonno, soprattutto con la Luna di quella notte, non fu contento di scorgerla però, il volto all’interno della cornice era corrucciato, non aveva alcun dubbio, la sua figura col cane il nonno non l’aveva presa per niente bene, e di sicuro non si era scordato l’altra figura da deficiente, nel corridoio sbagliato. Si era ormai rassegnato a subire l’ira; nel frattempo il freddo era diventato insopportabile, le maniche corte non bastavano più, si infilò di nuovo il maglione.
Mentre lo indossava, sentì il cane allontanarsi dalle sue gambe, pensò che finalmente s’era stancato di andargli dietro e sospirò pensando che forse l’avrebbe lasciato in pace. Quando tirò fuori la testa, non poté proprio fare a meno di urlare con tutta la sua forza.
«Noooo!»
Quel maledetto cane era andato proprio sulla tomba del nonno e aveva alzato la gamba sul leggio di bronzo, scambiandolo per un albero.
Rullo disperato, arrabbiato e rosso in faccia dalla vergogna, si abbatté contro il meticcio pronto a scaraventarlo il più lontano possibile da lì con un calcio. Ma lo scarpone si dovette arrestare a meno di un centimetro dal cane – che peraltro non s’era neanche accorto del pericolo. Non fu la compassione a fermarlo, ma la voce, proveniente dalla piccola capanna prefabbricata vicino all’ingresso principale del cimitero.
Era di nuovo il guardiano, e stavolta era uscito fuori.
«Chi c’è?» Urlò quella voce.
Rullo non ebbe neanche il tempo di capacitarsi della situazione, nel giro di pochissimi secondi si ritrovò investito dalla luce della pila del guardiano.
«Chi sei? Che ci fai…»
Il guardiano, ancora intontito dal sonno, non fece in tempo a finire la frase, Rullo col cane alle calcagna, scappò deciso verso la rete di recinzione. Non ebbe nessuna difficoltà a mettere una bella distanza fra sé e l’uomo, un vecchio magro e asciutto, e pure zoppo, che tuttavia si affannava, correndo come poteva per riprenderlo.
La notte era ancora profonda, alleata di Rullo, il quale approfittando dell’oscurità decise di nascondersi dietro una serie di lapidi piene di fiori, così adornate da fornire un nascondiglio pressoché totale sia a lui sia al cane, che non si decideva a lasciarlo in pace; ma ancora una volta quel bastardino nero ci mise del suo.
Nella foga della corsa, prima che Rullo riuscisse a ficcarsi fra le lapidi, gli si infilò fra le gambe, facendogli perdere l’equilibrio, nel cadere, come se non bastasse, Rullo sbatté la testa contro il marmo di una delle tombe, e non riuscì a trattenere l’urlo di dolore.
Addio oscurità, addio nascondiglio. Il guardiano, li raggiunse, e Rullo venne investito un’altra volta dalla luce gialla della pila del vecchio, stavolta ebbe anche il tempo di scorgere il viso dell’uomo, contratto dalla fatica e dalla rabbia per la corsa fuori programma.
Ancora a terra, si accorse che il guardiano portava con sé un bastone, uno di quelli per camminare, e quando lo alzò in aria con entrambe le mani, per Rullo furono molto chiare le intenzioni dell’uomo.
Avrebbe voluto alzarsi, ma la botta di prima lo aveva stordito, strinse gli occhi, si sentì la bastonata addosso, ancor prima che arrivasse.
«Aaah!» Fu il vecchio a gridare.
Rullo in un primo istante non capì che stesse succedendo, poi aprendo gli occhi vide il meticcio addosso al vecchio, gli aveva affondato i denti sulla gamba. Il bastone cadde dalle mani del vecchio che preso di sorpresa perse l’equilibrio, e riuscì ad evitare di cadere solo aggrappandosi con tutte e due le mani alla lapide vicino a lui, anche la pila cadde a terra. Rullo poté così vedere meglio quello che stava succedendo, il cane sembrava ancorato alla gamba del vecchio, il quale cercava di scuoterselo via con tutta la forza che aveva, ma senza riuscirci.
Finalmente quella sottospecie di cane aveva fatto qualcosa di intelligente, non si fece scappare l’occasione, mentre il guardiano era occupato a difendersi dai morsi del cane, si alzò e corse via senza voltarsi. Giunto davanti la parte sfondata della recinzione si bloccò, non riuscì più ad andare avanti a causa della sua coscienza. In pochi secondi si era allontanato molto dal vecchio alle prese col bastardino, ma anche da quel punto riusciva a sentire i guaiti del cane, e non gli era difficile immaginare che ora la situazione si era capovolta a favore del vecchio.
Rullo voleva andarsene, ormai quello non lo avrebbe più acchiappato. Ma quel maledetto cane per l’ennesima volta l’ostacolava, non per causa sua direttamente stavolta ma per colpa dell’insopportabile coscienza che gli aveva trasmesso il nonno.
«Mai abbandonare un compagno in difficoltà.» Gli ripeteva sempre.
«Come in guerra, così nella vita. Quello che distingue un Uomo degno di questo nome, da un vigliacco degno solo di strisciare fra gli escrementi dei porci, è il coraggio di non girare le spalle ad un amico in difficoltà.»
Gli era apparso mentre ripeteva quelle frasi e come sempre, le parole del nonno gli davano l’effetto di una “purga di adrenalina”. Effetto di gran lunga aumentato da quando lo aveva lasciato, nella testa di Rullo infatti, il nonno era diventato un vero e proprio mito e aveva trovato posto accanto alla figura di Orlando, il Furioso eroe di cui era appassionato.
Il cane guaiva ancora, Rullo si vide coperto di feci di maiali, in un secondo gli salì addosso una tale quantità di adrenalina che gli distolse completamente la realtà.
Le tombe e gli alberi sparirono, comparvero maiali inferociti e merda, tanta merda che arrivava fino alle ginocchia. Urlando come un posseduto, col viso stravolto così rosso che sembrava avrebbe preso fuoco da un momento all’altro, si mise a correre incontro al cane e al vecchio guardiano. Li raggiunse, fra le nebbie della sua mente li vide. Il cane non era più aggrappato alla gamba del guardiano, era steso a terra, il vecchio che era riuscito a recuperare la pila lo puntava, e con il piede buono lo stava massacrando di calci.
Alla vista di quella scena la furia di Rullo montò ancora di più, stava per scaraventarsi addosso al vecchio quando vide con la coda dell’occhio il bastone, abbandonato in un angolo.
L’uomo, il quale nel frattempo s’era accorto di Rullo, e percepiva che qualcosa non andava in quel ragazzo, si spaventò quando lo vide rotolare per terra per prendere il bastone, e rialzarsi non curante dei graffi procuratisi.
Rullo impugnò il bastone come fosse una spada, lo alzò sopra la testa e avvicinandosi a passi decisi, si vide come Orlando contro il Re di Frisia.
«Ora basta» disse, con la calma di un pazzo sicuro di avere la visione oltre l’apparenza delle cose, e scagliò il bastone con tutta la forza che aveva verso il suo antagonista, il quale perse immediatamente i sensi e cadde a terra come un sacco vuoto, molti schizzi di sangue finirono di rimbalzo sul bastone.
Il contraccolpo svegliò in parte Rullo da quella specie di trance, abbassò gli occhi sul cane, rimasto per tutto il tempo disteso per terra, immobile, per la prima volta da quando lo aveva incontrato, si accorse della grossa cicatrice che tagliava a metà la pancia di quel bastardino, ben visibile anche attraverso il pelo.
Infilò il bastone in un passante dei suoi jeans, poi si inginocchiò davanti il cane.
«Vieni, fedele Oliviero, compagno di innumerevoli battaglie, ora sarò io a prendermi cura di te.»
E così dicendo, lo sollevò con entrambe le braccia e a passo sicuro attraversò il cimitero.
Nel frattempo i maiali e tutto il resto era sparito, erano tornati gli alberi e le lapidi, dalle quali affioravano moltissimi sguardi di approvazione, sovrastante tutti, il volto fiero e pieno d’orgoglio del nonno; la Luna che si ergeva ancora alta e brillante, gli illuminò la via del ritorno.
Rullo tornò alla sua pseudo lucidità abituale la mattina seguente, e nella sua casa-barca si ritrovò un nuovo inquilino, che al suo risveglio gli alitava in faccia un odore ripugnante. Gianluca Bologna è nato ad Alcamo (TP) , nel 1983, e vive a Firenze.
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