BAMBINA INFAME Isabella Aguilar
Quando si dice di un bambino che si annoia, si intende per un minuto, non per un’intera estate. È innaturale. A lungo andare si possono fare delle cose che, viste da fuori, sembrano strane e anche brutte. Così è successo a me che, pure se nessuno ne ha mai saputo niente, sono responsabile della morte di mia nonna.
Era l’agosto del 1986, l’estate in cui non andammo in vacanza.
Ci avevano mandati via da casa. Papà aveva perso il lavoro perché l’ultimo palazzo che aveva disegnato non era piaciuto a nessuno. Non aveva pagato l’affitto per un po’ e ora dovevamo trovare un altro posto.
La signora che badava a nonna si era presa le ferie e noi dovevamo risparmiare. Così, invece di mandare nonna a Villa Flora come ogni estate, eravamo andati noi a stare da lei, nel suo minuscolo appartamento sul viale Marconi.
La sera mangiavamo pasta fredda o tonno e maionese, stretti al tavolo del salottino. Era uno strano tavolo di marmo verde che a guardarlo da lontano sembrava uno stagno.
Papà si sedeva sul bordo di una sedia scricchiolante sotto i suoi cento chili, col ventilatore sparato in faccia. Mamma mangiucchiava foglie di insalata. Con quel caldo, non aveva mai fame e cucinava solo per noi.
Da quando eravamo a casa di nonna, si mangiavano sempre le stesse cose e si parlava sempre delle stesse cose. Papà annunciava col tono da grande notizia:
- Ho visto un due camere e cucina a viale Liegi, non è male, ci torniamo sabato?
E mamma lo guardava dubbiosa. Lui si dava da fare a raccontarci di quant’era luminoso, disegnava le stanze su un tovagliolo, abbatteva muri a colpi di penna per ricavare la mia stanza, e poi aggiungeva a mezza voce che l’affitto era un po’ alto ma che si poteva sicuramente contrattare.
- Antonio, dobbiamo ancora segnarla a scuola. Che faccio, la iscrivo qui sotto?
- Ma no! Vedrai che per fine mese salta fuori qualcosa.
- Non so. Ad agosto chi ha case da affittare se n’è andato in vacanza.
Pure il telegiornale sembrava diverso. Svuotato. C’erano un sacco di servizi sugli anziani che morivano di caldo.
Papà diceva a mamma:
- Perché non ce ne andiamo al cinema all’aperto?
- Non mi va di lasciarla sola con la nonna pure di sera.
- Facciamo venire la signora Marras.
- Dobbiamo darle diecimila lire, però. Sennò pare che ce ne approfittiamo. Oppure le faccio una crostata.
- Eh, brava. Fanne due che una ce la mangiamo noi. Coi mirtilli.
- Fai quella con le prugne, così vado di corpo - diceva a quel punto mia nonna. E ci ricordavamo che c’era anche lei. Che per il resto se ne stava zitta davanti alla televisione, in poltrona col piatto sulle ginocchia, e con noi a tavola non si sedeva mai.
Quando mamma chiedeva a papà come andavano le cose al cantiere nuovo, lui cambiava discorso. Era meglio non chiedere niente neanche a me.
- Che hai fatto di bello oggi, bambolina?
- Niente.
Ma per me non si preoccupavano. Tanto mi era sempre piaciuto starmene per conto mio. Non avevo molti amici e preferivo giocare da sola. Però avevo bei voti e quaderni colorati come libri di fiabe. I miei pochi capricci erano passati alla storia come misteriose eccezioni. Insomma, ero una bambina tranquilla. Tanto che ora chiedevano a me di badare a nonna e non il contrario.
Mi avevano affidato le chiavi di casa.
Le tenevo nel barattolo dei biscotti. Tanto a nonna i biscotti non piacevano.
Mi era rimasta solo una palla di plastica a strisce rosse e viola, tutti gli altri giocattoli erano chiusi negli scatoloni.
Ogni tanto mi tornavano in mente all’improvviso, lucidi e colorati.
Castelfragolo, il castello a forma di fragola con la sua famiglia di pupazzi dal cappello rosso.
E mi veniva da piangere. Ma non lo facevo.
È da deficienti, è solo una cosa di giorni. È solo una brutta estate.
Quanti giochi si possono fare con una palla rossa e viola, da soli, tra vecchi mobili e vasi di fiori secchi? L’idea migliore che mi era venuta era tirare in schiacciata mirando allo stipite in fondo al corridoio, sulla porta della camera da letto di nonna. Che poi adesso era diventata la stanza di mamma e papà.
Tanto il pomeriggio in casa c’era solo nonna che guardava la televisione e a lei non importava. La palla batteva sui muri, e lei non diceva niente.
Se ne stava nella sua nuvola di fumo di sigaretta, immobile, in poltrona. Una poltrona marrone piena di forellini con l’orlo bruciacchiato.
Non mi sentiva neanche, tra la televisione, il ventilatore e il rumore del traffico che entrava dalle finestre spalancate.
Solo in un caso nonna mi parlava: se le cambiavo canale.
Aveva i suoi telefilm, i quiz e pure le televendite preferite. Il telecomando non si poteva toccare, doveva restare sul bracciolo accanto a lei. Niente cartoni animati, niente più Candy-Candy, niente Georgie, niente Cavalieri dello Zodiaco.
Però qualche volta, passando, ero riuscita a schiacciare un tasto. E allora per un po’ non se ne accorgeva. Poi si incupiva, tastava il bracciolo e mi chiedeva con la voce amara, continuando a fissare la tv:
- Che fine ha fatto Starsky, maledetta? – Oppure: - Dove sta Love Boat, bambina infame?
- Scusa nonna, te lo rimetto.
Mi dava un pizzico o una tirata di capelli, sempre senza guardarmi, e io la lasciavo fare. In fondo quella era casa sua, la tivvù era la sua.
Anche lei si annoia e non ha nient’altro da fare.
Per me nonna era un mistero, se si può chiamare mistero qualcosa che non si ha nessuna voglia di scoprire.
Quand’ero più piccola, veniva a trovarci la domenica, nella casa di largo Cavalleggeri.
Prima di pranzo, se era bel tempo andavamo a San Pietro a lanciare il riso crudo ai piccioni.
Mi teneva per mano con la sua mano fredda e secca, e nemmeno allora parlava mai. O almeno, non me lo ricordo.
Però portava dei bei vestiti scuri con l’arricciatura sulle maniche, e un rossetto lucido dello stesso colore dello smalto. Odorava di fumo, di chiuso e di caramelle al rabarbaro. Ma non era un odore cattivo.
Non so a cosa pensava. Non mi veniva mai da chiedermelo.
Mentre guardava la televisione, nonna faceva un rumore continuo con la bocca, come se masticasse una caramella.
Mamma mi aveva spiegato che era una specie di tic dovuto alla dentiera, che gliel’avevano fatta male e le dava fastidio.
In realtà non è vero che non mi parlava mai. Però era come se non parlasse a me, ma in generale, per sapere le cose che le servivano lì per lì. Mi chiedeva: “É tornata mamma?”. Oppure si alzava, andava verso la porta e mi diceva:
- Scendo a prendere le sigarette.
Allora dovevo risponderle:
- Te le porta mamma, sta arrivando - anche se non era vero.
Eppure era facile convincerla, non insisteva mai. Tornava indietro e si rimetteva in poltrona.
Non sarebbe potuta uscire comunque, perché la porta era chiusa a chiave. Appena mamma andava al lavoro dovevo chiudermi dentro, e poi rimettere la chiave nella scatola dei biscotti.
Solo una volta mi ero dimenticata di farlo, e i vicini avevano ritrovato nonna al piano di sotto. Aspettava davanti a una porta uguale alla nostra, silenziosa e concentrata sul suo lento ruminio da cammello.
Ho un solo ricordo di me e nonna fuori casa, da qualche parte che non fosse piazza san Pietro.
Cinque o sei anni prima, mi aveva portata nel posto dove lavorava. I monopoli di stato, a piazza Mastai.
Eravamo entrate in un ufficio, poi in un altro, nonna aveva preso delle buste, firmato fogli. Anche quando mi lasciava la mano dovevo starle attaccata. Mi diceva sottovoce:
- Non fare un passo, nana di una strega.
Le persone la salutavano e lei ricambiava appena.
Una signora timida le portò dei cioccolatini e una felce avvolta in carta crespa blu “con tanti auguri da parte di tutto il terzo piano”.
Nonna mi disse di tenerglieli io, che aveva le mani occupate, e rispose “Grazie e buon lavoro”.
Poi la felce la lasciò in mezzo al marciapiede appena voltato l’angolo.
- Che diavolo di regalo è una felce? Una piantaccia triste.
I cioccolatini se li tenne.
Prima di tornare a casa ci fermammo in un negozio di giocattoli. Mi disse di spicciarmi e di scegliere quello che volevo, che aveva preso la liquidazione.
Con quei soldi, disse, ci poteva fare quel che le pareva. Cose come ridipingere la casa o andare col traghetto in Sardegna, dove era nata.
Ma in Sardegna non ci andò e i parati con le macchie di fumo restarono lì. Qualche anno dopo quei soldi li usarono i miei genitori per pagare la signora Elsa, che le cotonava i capelli e stava attenta che prendesse le medicine.
Ora che la signora Elsa era in vacanza, quelle cose le faceva mia madre.
Mamma tornava a casa tutta sporca di terra e pennarelli, aveva trovato lavoro in un campo estivo per bambini, e si metteva subito a contare le pillole dei vari flaconi. Le dava a nonna, attenta che le mandasse giù tutte, poi preparava la cena. Prima di apparecchiare andavamo in camera insieme a metterci il pigiama.
- Che hai fatto di bello oggi, bambolina?
- Niente.
Mi sembrava sempre una cosa strana, mettermi quel pigiama appena arrivava mamma. Proprio quando per me la giornata cominciava.
Papà, invece, nonna preferiva tenerla a distanza. Scherzava, la prendeva in giro ad alta voce, perché lo sentisse, ma non parlava mai direttamente con lei. “La signora Maria oggi fa i capricci, eh?”. Cose così.
Un pomeriggio che ero da sola con nonna, bussarono forte alla porta.
Dallo spioncino vidi degli occhi aguzzi e dei capelli arruffati color mandarino.
Quando aprii, una donnina si affacciò a sbirciare dentro. Aveva gli zoccoli slargati da cui sporgevano le dita dei piedi, e teneva in mano un pacchetto unto pieno di peperoncini.
- Sono la signora Marras, abito qui accanto.
E non feci in tempo a dire niente che si era già sistemata in salotto. Si sedette al tavolo verde, tirò fuori da una busta dei vecchi pantaloni e si mise a rattopparli.
Nonna non parlava nemmeno con lei. Eppure, sentii chiacchierare la signora Marras da sola per tutto il pomeriggio. Idem il giorno dopo, e quello dopo ancora. Si portava da cucire, oppure giocava al solitario.
Aveva una voce forte, interrotta da colpi di una brutta tosse, perché diceva che fumava troppo.
Si lamentava sempre del figlio, che faceva il militare a Gela e non s’era preso la licenza nemmeno per ferragosto, e del marito, che era sempre via, a riempire le macchinette per il videopoker.
Diceva che un giorno o l’altro l’avrebbero arrestato.
Alla signora Marras non piaceva starsene da sola a casa sua che, diceva, era una tana buona manco per i topi.
Ma pure se si lamentava tanto, era piena di energia e rideva spesso, da sola, con la sua risata catarrosa.
Penso che in fondo a nonna facessero piacere quelle visite, perché una volta, mentre la Marras si preparava ad andar via, lei andò ciabattando fino al baule che stava in corridoio, tornò con un asciugamano e glielo offrì borbottando qualcosa.
La Marras ringraziò mille volte, ammirò il ricamo fino e disse che era proprio un peccato che nessuno oggi c’aveva più la pazienza di ricamare.
Mamma mi aveva detto che dentro a quel baule nonna ci teneva il corredo, che era un mucchio di biancheria e tovaglie antiche, tutte bianche.
Nonna aveva tolto le cose dal baule il giorno del matrimonio e ce le aveva rimesse dentro l’anno dopo, piegate e stirate, quand’era morto nonno.
Quindi era tutto come nuovo, e alla Marras non pareva vero.
Coi giorni mi abituai a quelle visite. Sentire una voce in casa mi dava un senso di sicurezza. Anche se parlava per conto suo. E io giocavo per conto mio.
Ogni tanto la signora Marras mi portava i cioccolatini al liquore con la ciliegia dentro. Erano squagliati e in realtà mi facevano un po’ schifo, ma era carina a ricordarsi di me anche se mi tenevo sempre alla larga. E poi mangiare i cioccolatini al liquore mi sembrava una cosa da grandi.
Una sera i miei andarono al cinema e le diedero diecimila lire per badare a me. Mamma non si fidava a lasciarmi sola con nonna la sera perché, diceva, “la sera è diverso”. Forse perché tanti anni prima nonna aveva cercato di uccidersi aprendo il gas senza accendere il forno. Pare che l’avevano salvata proprio all’ultimo. Quella cosa era successa di sera. Forse mamma pensava che la sera una persona in media diventa più triste.
La signora Marras mi lasciò di guardare la televisione, dopo che nonna s’era addormentata in poltrona, anche se erano le dieci passate.
Le dissi che papà si sarebbe arrabbiato, e mi rispose che sarebbe stato il mio segreto.
- Finché non hai un segreto non sei una vera signorina.
Anche lei aveva un segreto, mi confidò. Mangiava troppa cioccolata. Era fortunata che restava sempre magra, disse, ma le guastava i denti.
Un giorno la signora Marras portò delle carte più grandi, stranissime, che sembravano dei quadri antichi. Disse che erano “tarocchi, di quelli buoni”.
- Dai Mariuccia, non fare la scocciatrice - fece a nonna, che non voleva farsi fare le carte. E si mise a tirare di forza la poltrona marrone finché non la girò verso il tavolo, con mia nonna sopra.
- Mariù, che vuoi sapere?
- Niente.
- E madonna mia! Su, taglia il mazzo.
La Marras passò il mazzo a nonna, glielo fece dividere in due, poi cominciò a far schioccare veloci le carte e a buttarle sul tavolo una accanto all’altra.
- Vediamo…Mh mh…
La Marras ammucchiò le carte in cerchi e in colonne.
- Che è? - chiese nonna.
Mi misi a sbirciare.
- Questo qui è il tuo matrimonio. Non è stato facile. Tempo di guerra….
- Eh - fece nonna, amara.
- E questa è la nascita di tua figlia. È una brutta carta, perché sta accanto alla morte di tuo marito, che è questa qui, l’appeso….
- Nonno è morto impiccato? - chiesi, vedendo che la carta raffigurava un uomo impiccato a un albero, sotto un cielo di corvi, con una gamba rivoltata all’indietro.
- No, questo non è mica lui, è tua nonna. Significa che più ti agiti e peggio stai. Come l’appeso. Tiè, guarda che bello – e mi mise la carta in mano.
Ora era concentrata su un’altra, la puntava con un’unghia ingiallita.
- Mariù, t’è uscita la mia preferita!
Che schifo, un gatto con le corna e la coda da demonio, mette ancora più paura dell’appeso.
- E che è? - chiesi.
- Questo è il bagatto. Un po’ imprenditore e un po’ mago. É la carta dei buoni affari. Dev’essere la pellicceria!
Nonna annuì, assorta. La Marras si voltò verso di me:
- Lo sai che io e Mariuccia siamo nate in due paesi vicini? - mi disse. - Andavamo tutte e due a prendere il sole a Capo Caccia, d’estate, eppure non ci siamo mai incontrate. E poi siamo finite vicine di casa in continente, pensa te! Io avevo fiuto per gli affari, mica come mio marito. Se ci fossimo conosciute allora, io e tua nonna, avremmo preso la pellicceria insieme, e saremmo rimaste aperte anche d’estate. Per vendere ai turisti internazionali, capito? Ci saremmo arricchite. Tua nonna è una di classe. Si capisce dai vestiti che portava, li hai visti? E dai gioielli. Poteva trattare coi clienti, scegliere i modelli. E io stavo alla cassa. Che ho studiato come contabile. Sarebbe stato perfetto!
Nonna faceva di sì con la testa, impercettibilmente, continuando a ruminare.
Mamma me l’aveva detto che nonna da giovane aveva lavorato in una pellicceria. Poi però era stata presa ai monopoli e siccome voleva tanto vivere in una città grande se n’era venuta subito qui.
Perché per lei le pellicce era bello mettersele, ma quando andava alla conceria per ritirare gli ordini sveniva sempre. Era cresciuta in campagna, però le piacevano le cose di città, che non sai da dove vengono, se dagli alberi, dal sedere delle galline o dagli animali morti, ma sono belle e basta.
Solo che quando lei e mamma erano andate a stare in quel palazzo, viale Marconi ancora non esisteva e tutto intorno c’era la campagna, pure qui a Roma, come una condanna. E mamma per andare a scuola doveva camminare in mezzo alle pecore e ai grilli.
Se poi tornava a casa tardi nonna chiudeva a chiave e la faceva dormire sul pianerottolo.
Queste cose mamma me le aveva raccontate mentre svuotavamo l’armadio per fare spazio.
Avevamo ammucchiato sul letto una montagna di pellicce e vestiti di seta stampati a farfalle, rombi e pallini. Puzzavano tutti di chiuso e di naftalina.
Avevo provato a mettermi il visone, quello marrone, ma sembravo un orso gigante. Chissà come faceva lei, così bassa e magra, a portarlo.
Ferma sulla porta, in silenzio, nonna aveva tenuto d’occhio mia madre che sbatteva le pellicce, le metteva nelle buste e tirava via l’aria col tubo dell’aspirapolvere.
- Perché le dice il passato e non il futuro? - chiesi alla signora Marras quel pomeriggio.
- Il futuro? E che vuoi che le dica, che non sa già? - mi rispose spiccia.
Fece una risatina roca. Mi voltai preoccupata verso nonna, che magari ci restava male, ma non sembrava ascoltare.
- Lo sai che tua nonna presto morirà - fece la Marras a voce bassa, mentre metteva a posto le carte. - Sai cosa significa, no?
Io non avevo pensato molto alla morte finora. Non ero battezzata, non avevo fatto il catechismo.
Da quel poco che mi avevano detto mamma e papà, mi sembrava una cosa ragionevole. La fine di tutto, come quando dormi ma non sogni.
- Ti ricordi la portiera che c’era fino al mese scorso, quella magra che pareva un chiodo?
Il giorno che eravamo arrivati, con le valige, c’era una puzzolente corona di fiori che perdeva petali nel sottoscala dell’androne; il giorno dopo se l’erano portata via.
- E ti ricordi l’altro ieri, quando si è sentito quel rumore fortissimo e sono usciti tutti a vedere? Era il vetro del pianerottolo, se n’è cascato giù con tutta la finestra.
Mamma quel giorno era tornata a casa con un piede sanguinante, un vetro le si era conficcato nel sandalo: il sangue mi aveva fatto impressione, e forse anche a lei, perché si era messa a piangere.
- Ecco: quando si era sentita male, la portiera stava pulendo le finestre. Ma non aveva finito. Gliene mancava una.
La Marras fece una pausa a effetto.
- E così è tornata per finire di pulirla!
Sgranai gli occhi.
- Capita che i morti tornano per finire qualcosa che stavano facendo, perché credono di non essere abbastanza morti per smettere.
La cosa aveva una sua logica. Ci pensai un po’ su.
- E poi se n’è andata? - chiesi.
- Chi? - domandò la signora Marras, che intanto si era stufata di parlare con me e aveva cominciato a cucire.
- Il fantasma della portiera. O è ancora qui?
- E chi lo sa? - tagliò corto lei.
- Ma pulire un vetro non era mica così importante, no?
- Le abitudini sono dure a morire - concluse saggia, tagliando il filo coi denti.
Quella notte, come ogni notte, nonna mi svegliò. Si alzava dal divano e se ne andava in giro per la casa. Cercava di non fare rumore, ma avevo il sonno leggero e una volta sveglia non riuscivo a non concentrarmi sui suoi movimenti.
Andava nel bagno, dove restava per ore, poi in cucina. Apriva il frigo e mangiava tutto quel che trovava: il pollo della sera prima, pane e cipolla cruda.
Sentivo il russare di mio padre, di là dalla porta della camera da letto. Loro continuavano a dormire tranquilli.
Io stavo ferma nel letto, con gli occhi chiusi ma inevitabilmente all’erta. Aspettavo. Come gli animali spaventati nei documentari. Aspettavo finché non la sentivo che tornava a dormire. E il giorno dopo non dicevo niente. In fondo quella era casa sua.
Forse per lei la notte era un momento come un altro.
Se fosse stata sola magari avrebbe guardato la televisione. Chissà che con la signora Elsa non erano abituate così, che di notte si facevano uno spuntino.
Con noi in casa invece non poteva fare rumore. Non ha manco più il suo letto.
Quella notte, mi chiesi se sarebbe tornata anche lei, come la portiera. Dopo morta. Magari per vedere il finale di una puntata del tenente Colombo.
Forse, a cena, si sarebbe seduta accanto a noi, invisibile e silenziosa com’era già adesso. Il fumo delle sue sigarette avrebbe invaso l’aria, e nei giorni di pioggia, nascosto dal rumore dell’acqua sulle finestre, si sarebbe sentito il ruminio della sua dentiera.
Non voglio che diventi un fantasma, pensai mentre sprofondavo di nuovo nel sonno.
Il giorno dopo, la signora Marras si presentò alla porta con in testa uno strano cappello di paglia e in mano una pianta di peperoncini. Disse che l’indomani partiva per le vacanze, se eravamo così gentili da tenergliela per due settimane.
Mi aiutò a sistemarla in terrazzo, nel punto in cui secondo lei il sole batteva più a lungo.
Era allegra, agitata. Parlava parlava, non faceva nemmeno le pause per respirare.
- Mio marito ha prenotato una crociera sul Nilo. Non mi sembra vero. Finalmente gli è uscita un’idea buona da quella testa di cane. Il Nilo è dove ci sono i faraoni. Hai presente? Ti piace il mio cappello?
Poi forse si accorse che mi dispiaceva che partisse, perché d’improvviso smise di parlare, mi sistemò i capelli e disse:
- Povera bambina.
Io sorrisi, imbarazzata. In fondo che me ne frega se non viene più? Era antipatica, parlava troppo, e se giocavo con la palla dopo pranzo batteva contro il muro perché diceva che non la facevo riposare.
- Sempre chiusa qui, tutta sola. Perché non vai a fare una passeggiata?
- Non posso.
- Ma c’è un sole così bello. Sei stata alla gelateria all’angolo? Il cioccolato è buonissimo, e anche lo zabaione.
- Devo guardare nonna.
- Quante storie. Sei una signorina, ti devi divertire un po’, no?
Più tardi, nel soggiorno silenzioso, dalla poltrona di nonna non saliva più fumo di sigaretta.
Mi avvicinai: s’era addormentata. Aveva la bocca aperta e russava piano.
Erano le cinque e mezza. Troppo tardi per approfittarne e vedere i cartoni. Niente Candy Candy neanche oggi. E mamma tornava tra due ore.
Mi piacerebbe un gelato.
Potevo scendere, giusto cinque minuti, fino all’angolo.
Andai alla specchiera della camera da letto. Misi il cerchietto, e un pochettino di lucidalabbra.
Cercai qualche spiccio nelle tasche delle giacche di papà. Trovai un biglietto da cinquemila lire. Un piccolo tesoro. Me lo infilai in tasca e andai a controllare nonna. Dormiva ancora.
Arrivata alla porta, sentii delle voci che venivano da fuori. Dallo spioncino, vidi la signora Marras che portava sul pianerottolo grandi buste e borse di paglia.
La porta di casa sua era aperta e lei andava su e giù, tutta elettrizzata, parlottando al telefono senza filo.
Quando sbucai dalla porta mi salutò con la mano, si avvicinò e mi sistemò i capelli.
- Brava, fatti un giro, signorina - e mi fece un gran sorriso.
Io saltellai giù per le scale, presa da una strana euforia.
Sopra il viale, tra i palazzi, c’era una lunga pista di cielo azzurro. La luce faceva brillare l’asfalto, le macchine parcheggiate, le vetrine dei negozi.
Non faceva caldo. Molto meno che in casa. C’era un bel vento e le acacie, con le radici grandi che spaccavano il marciapiede, rinfrescavano il viale.
La gelateria era lì, a pochi metri, con la sua insegna rossa e blu.
Non c’era molta gente in giro, eppure la fila arrivava fuori dal negozio. Ragazzi in pantaloncini e ciabatte, mamme con bambini e passeggini.
Indecisa, studiai uno per uno i gusti dietro al bancone. Su ognuno c’era un frutto appoggiato, o un pezzetto di cioccolato, un pistacchio, una meringa. Avevano colori brillanti come pennarelli.
Presi un cono piccolo cioccolato e zabaione, con la panna e la cialda. Mille lire. Me ne avanzano quattromila!
Decisi di fare il giro del palazzo. Finisco il gelato e poi rientro. Così potevo passare davanti alla cartoleria.
La cartoleria “Zuccari” aveva una vetrina bellissima. C’erano già gli zaini nuovi per la scuola. Dentro, sul banco, pacchi e pacchi di quaderni di Barbie, dei Cavalieri dello zodiaco… E i diari! Erano già sugli scaffali! Come facevo a non entrare?
Improvvisamente settembre mi sembrò dietro l’angolo. Mentre passavo in rassegna quelle copertine lucide, le annusavo, guardavo le pagine con le tabelle per l’orario scolastico, e i mesi, uno dietro l’altro, pensai che quell’estate gonfia di noia in realtà stava per finire.
Non me n’ero accorta. Senza nessuna partenza, senza il mare, senza nuovi odori e paure e compagni di giochi, non mi pareva fosse successo ancora niente. Invece agosto, silenzioso, se ne stava andando.
Potevo cominciare a pensare a un bel pacco di matite colorate, perfettamente appuntite e tutte lunghe uguali come sono solo il primo giorno che le compri.
Mi aggrappai a quei diari come a un’ancora di salvezza.
Ce n’era uno delle Tartarughe Ninja che non era il più bello ma costava giusto quattromila lire!
Lo comprai.
Euforica.
Mentre uscivo dalla cartoleria sentii un cinguettio, come il verso di un uccellino.
Ma non era un uccellino, era il rumore che faceva la porta del negozio quando si apriva. Mi venne un sospetto. Oddio.
Con un balzo al cuore, immediatamente divenne una certezza.
Mi incamminai veloce, non troppo veloce, perché non volevo ammettere che era vero. Come avevo fatto ad essere così stupida? Mi ero fatta distrarre dalla signora Marras e avevo dimenticato la porta aperta! Le chiavi dovevano essere ancora nel barattolo dei biscotti.
Arrivai al portone, salii le scale, prima correndo, poi sempre più lentamente.
A ogni pianerottolo, senza fiato, controllavo se nonna non fosse lì, spersa, immobile davanti alla porta di qualcun altro.
Sui gradini del quinto piano mi fermai, in ascolto: nessun rumore.
Finalmente trovai il coraggio di affacciarmi sul pianerottolo: nessuno.
La porta è chiusa!
No. Sembrava. Si notava appena, ma era solo socchiusa. L’ombra a terra non era dritta, aveva la forma di un lunghissimo cono gelato.
Mi vennero le farfalle allo stomaco. Le ginocchia non si muovevano. Provai ad avanzare. Avevo paura. Una paura generica, non sapevo bene di cosa.
Sentii delle voci, una musica…
Era la televisione. Era ancora accesa. Ma non significava niente. Se nonna esce, ti pare che la spegne?
Spinsi la porta, che si aprì raschiando a terra come sempre. Non so perché, pensai: meglio non fare rumore.
La luce del corridoio era spenta, come l’avevo lasciata. Ma anche questo non significava niente. Poteva uscire pure senza accenderla.
Feci i due passi che mi separavano dalla porta del soggiorno e mi affacciai. La televisione trasmetteva La ruota della fortuna.
Strano. Nonna a quell’ora vedeva il quiz su canale Cinque.
Lo schienale della poltrona era lì, un rettangolo sformato senza vita. Nessun segnale di fumo. Mi avvicinai lentamente.
C’è, c’è ancora! Era lì. Era sveglia e ruminava e stava guardando chissà perché la ruota della fortuna!
Era come se mi avessero levato dei sassi dallo stomaco.
Nonna si voltò verso di me, ma non disse niente.
- Nonna, ti sei svegliata?
- Dove sei stata, disgraziata? - mi chiese, amara.
- Scusa, ero scesa a buttare la spazzatura.
Mi toccò la testa. Non l’aveva mai fatto. Non disse niente.
Era una carezza? Sembrava il papa quando benedice i bambini.
- Mamma sta arrivando? - chiese.
- Sì, tra un po’ arriva.
Non lo farò mai più. Mai più per tutta la vita. Giuro.
Ma era andato tutto bene. Ora potevo buttarmi sul letto dei miei e dedicarmi al diario nuovo.
Solo che, in corridoio, vidi qualcosa che non tornava.
In camera da letto c’era la luce accesa.
L’avevo accesa io?
Strano, perché quando ero uscita era giorno pieno.
Andai a vedere. E rimasi sulla porta, senza fiato. Di nuovo le farfalle nello stomaco. Daccapo i sassi sulla pancia.
Il letto non era più addossato alla parete, ma spostato di sbieco al centro della stanza. Tutto disfatto. Le lenzuola raggrumate al centro, il copriletto di pelliccia a terra.
Le ante dell’armadio erano spalancate. Anche quelle in alto. I cassetti aperti, alcuni di più e altri meno.
A terra c’erano i vestiti di mamma e papà, tutti ammucchiati, e anche quelli a farfalle, a rombi e a pallini di nonna.
Non riuscivo a muovermi né avanti né indietro. Non riuscivo a pensare, mi sentivo una specie di motore nelle orecchie.
Pensa!
Era stata nonna, poteva essere stata solo lei.
Però era impossibile, non ce l’avrebbe mai fatta a spostare il letto, ci metteva un’ora per andare dal soggiorno al bagno...
Allora è tornata mamma, o papà? Stanno mettendo in ordine? No, perché non ci sono. Pensa. Allora chi?
E poi mi ricordai.
Le piccole impronte.
Le cercai sul tappeto.
Quando erano entrati nella casa di largo Cavalleggeri, avevano lasciato impronte dappertutto. Erano piedi da bambino, scarpette da ginnastica con la suola a stelline.
Abitavamo al piano terra, però. Nonna stava al quinto piano, e c’erano pure le sbarre alle finestre.
Ma hanno trovato la porta aperta.
E mamma diceva che quello era un brutto quartiere. Pensa. Qualche giorno prima, nel vicolo del minimarket, avevano rubato l’autoradio a papà.
I ladri.
Trovai il coraggio di entrare. Dovevo restare calma, capire meglio cos’era successo.
Nell’armadio non c’erano più le buste con le pellicce. Né le scatole coi cappelli e le stole.
Il ripiano del mobile con la specchiera era vuoto. Mancava la scatola di seta coi gioielli. La spilla luccicante a forma di calabrone, gli orecchini con le perle che diventavano sempre più piccole… Sparito tutto.
I profumi, il portagioie di coccodrillo, il portarossetto d’argento, tutte quelle cose strane e preziose, ora restavano solo le loro impronte lucide sulla polvere del ripiano a specchio.
Dove prima erano posati il portacipria, la spazzola d’argento.
Che faccio, che faccio, che faccio?
Forse la signora Marras non era ancora partita!
Uscii e mi attaccai al campanello della porta accanto, ma niente.
Che faccio?
E in quel momento arrivò mamma.
La sentii salire le scale, lenta, con le buste della spesa che scricchiolavano. Sbucò sul pianerottolo e rimase allibita a vedermi lì, col naso che colava, a bussare istericamente alla porta della signora Marras.
- Che fai lì, bambolina?
- Sono entrati i ladri – ed è tutta colpa mia.
- Ma che dici?
- Sono entrati i ladri – e scoppiai a piangere. Mamma venne ad abbracciarmi forte:
- Che ti hanno fatto?
- Niente. Non me ne sono accorta.
- Bene. Bene. Meglio così. E dov’è nonna?
- Sta guardando la televisione.
- Ma non le hanno fatto niente?
- No.
E solo in quel momento ci pensai. Lei era in casa. Era lì quando le avevano preso le pellicce, e i gioielli.
Se n’era accorta?
Dovevano aver fatto un bel rumore.
Mamma entrò in casa di corsa e andò dritta in soggiorno. Nonna era ferma dove l’avevo lasciata.
- Mamma, stai bene?
- Mi hai comprato le sigarette?
- Sì – frugò nella borsa, nervosa – tieni.
- Grazie.
E se ne accese una. Silenzio. Mamma la guardava preoccupata. Lo sa.
- Portale un bicchiere d’acqua, bambolina.
Andai in cucina a riempire il bicchiere. Li ha visti.
Quando tornai a portare l’acqua a nonna, lei teneva lo sguardo fisso sulla televisione.
- Hai sete?
Niente.
- Ma tu li hai sentiti, nonna?
Lei si voltò verso di me. Triste.
Era la prima volta che la vedevo esprimere qualcosa, le sopracciglia aggrottate. Gli occhi lucidi dietro gli occhiali.
- Sì.
Abbassai la voce per non farmi sentire da mamma.
- Mi dispiace. È colpa mia, sono uscita.
Non rispose.
Ero convinta che non avrei mai pianto davanti a nonna. E che non avrei mai pianto per lei. Invece le lacrime cominciarono a cadermi, silenziose.
- Scusa nonna, ho dimenticato la porta aperta. Scusa.
- Pazienza.
Un quarto d’ora dopo, mio padre era sul pianerottolo con due poliziotti e un signore grasso e spettinato, che sotto al cappotto portava un pigiama celeste. Stavano cercando di forzare la porta accanto.
La targa dorata che diceva MARRAS penzolava, staccata per metà. Un poliziotto teneva una lastra all’altezza della maniglia, un altro dava dei pugni contro il legno.
La porta si aprì.
Non ero mai entrata a casa della signora Marras.
I poliziotti fecero segno a papà e al signore in pigiama di stare indietro.
Uno dei due teneva la pistola puntata con tutt’e due le braccia tese, come nei film, ma sembrava solo una formalità. Una specie di recita.
C’era puzza di formaggio marcio.
Accesero la luce.
C’erano quattro mobili rotti e vuoti come gusci di lumaca, i pavimenti col marmo pieno di buchini, i muri spaccati all’altezza dei tubi. L’armadio era spalancato, come da nonna, e c’era solo qualche vestito abbandonato a terra, sul letto disfatto.
Per un attimo pensai che fossero entrati i ladri anche lì.
Non è stata lei!
- Sono scappati – disse il signore in pigiama.
- Non sono scappati – feci io. – Sono andati in vacanza.
- Non ha la caparra? – chiese uno dei poliziotti al ciccione, ignorandomi.
- Non pagavano da quattro mesi. La signora non mi apriva, e il marito era meglio non metterselo contro. Un tipaccio. Come il figlio.
- Doveva denunciarli.
- Papà? Guarda che sono partiti, li ho visti io.
- Macché. Lo sapevamo io e tua mamma che quella disgraziata avrebbe combinato qualche guaio prima o poi. Ma a tua nonna piaceva tanto… Era una famiglia di ladri, si sapeva. Hanno rubato tutto, tutto quanto.
Non poteva essere stata la signora Marras.
Ci ha pure chiesto di tenerle la pianta di peperoncini. Perché l’avrebbe fatto? Ora papà potrebbe uccidergliela, per vendicarsi.
Il tizio in pigiama continuava a ripetere ai poliziotti che era stato un cretino, che non avrebbe dovuto affittare la casa a quei poveracci. I poliziotti ogni tanto lo interrompevano per fargli delle domande: se c’era un contratto regolare, se aveva un altro indirizzo dei Marras. Io e papà stavamo a sentire, seduti su un vecchio divano verde.
Tutti parlano tanto per dire, non c’è più niente da fare.
Eravamo come attori su un palco vuoto.
Cenammo tardissimo, sarà stata mezzanotte. Mi si chiudevano gli occhi, faticavo a tenere la testa su. C’erano il purè e la fettina, ma nessuno di noi tre mangiava. Nonna dormiva in poltrona.
Sembrava un funerale. Mamma ogni tanto piangeva un attimo e poi smetteva, come un tic. Diceva che era preoccupata per nonna. Ed era arrabbiatissima con la signora Marras.
- Le ho fatto pure la torta. L’abbiamo lasciata sola con lei - diceva indicandomi e parlando a bassa voce. Come se non potessi sentire.
- Povera mamma, senza le sue cose - ricominciava. E si rimetteva a piangere.
Io penso che la signora Marras ci voleva bene davvero, altrimenti non avrebbe passato tutto quel tempo con noi e non mi avrebbe detto “povera bambina”. Doveva partire davvero per quella crociera sul Nilo. Sennò non ci lasciava la pianta di peperoncini.
Forse però poi, quando aveva visto la porta aperta, le cose di nonna le aveva rubate davvero. Magari l’aveva convinta il marito.
E nonna l’aveva lasciata fare.
Lei voleva bene alla signora Marras. Doveva esserci rimasta male.
O forse no. Forse lei a quelle cose non ci teneva più. In fondo, da quanti anni non si metteva più le pellicce e i gioielli?
A lei non servivano più, mentre alla signora Marras sì.
Mi aveva detto “Vivi! Vai a prenderti un gelato!”.
Le era capitata un’occasione e ne aveva approfittato. Vivi!
Mamma pensava tanto. A volte la mattina la vedevo ferma immobile, sul letto, appoggiata a un gomito, che guardava fisso nel vuoto. Le chiedevo “Che fai, mamma?”.
“Sto pensando”.
A volte piangeva pure per le notizie al telegiornale.
Invece la signora Marras vedeva le cose in modo pratico: le piante hanno bisogno di sole. Se una pianta fa ombra all’altra, una delle due deve levarsi di mezzo.
Lei ora sta bene, e noi male.
Non l’avrei mai detto a nessuno, ma pensai: ha fatto bene.
Solo una cosa non capivo. Il baule con il corredo era rimasto lì, intatto.
Se le piacevano tanto quegli asciugamani ricamati, perché non aveva preso pure quelli?
Forse li ha lasciati per nonna, perché sapeva quanto ci teneva.
Oppure non era vero che le piacevano.
Chissà.
Alla fine mamma prese due pillole di Tavor e si fece convincere da papà ad andare a dormire.
- Domani ce ne andiamo tutti al ristorante – disse lui - così la signora Maria si tira un po’ su. Andiamo al Galeone.
Al Galeone facevano gli spaghetti allo scoglio molto buoni, che erano il piatto preferito sia di mamma che di nonna.
Vedi? In fondo, anche papà vuole vivere.
Non riuscivo ad addormentarmi. Sentivo il russare di mio padre, le macchine che passavano veloci, una, poi silenzio, poi l’altra. Mi scoprivo e sentivo freddo, mi ricoprivo e morivo di caldo.
Decisi che il giorno dopo avrei chiesto di nuovo scusa a nonna. Anche se non serviva a niente.
La sentii alzarsi dal divano. Strusciò le ciabatte fino all’ingresso. La sentii andare in bagno, tirare lo sciacquone, poi di nuovo i suoi passi strascicati in corridoio.
Però stavolta, quando arrivò alla mia branda, che di solito superava in silenzio, si fermò.
Io, immobile, feci finta di dormire.
- Sofia?
Non risposi.
- Sofia?
Non mi chiama mai per nome.
- Sofia?
Io niente. Ma lei cominciò a scuotermi la spalla, conficcandomi le unghie nella pelle.
Mi sentivo in faccia il suo alito di pane e cipolla.
Non posso mica continuare a far finta. Si capisce.
- Mh?
- Aprimi la porta.
- Come?
- Aprimi la porta.
- Non posso.
- Sì che puoi.
- Mamma non vuole. E comunque è notte, il tabaccaio è chiuso.
Nonna rimase lì in silenzio, china su di me, come in dubbio.
Pensai d’averla convinta. Invece dopo un po’ bisbigliò, rabbiosa:
- Me lo devi.
Quelle parole mi arrivarono addosso come un colpo in testa. Aprii gli occhi e la guardai.
- Ma non posso!
- Ti prego.
Fragile.
Mi era sempre sembrata assente, o disorientata, ma mai proprio fragile.
Andai in cucina. Spostai la sedia fino alla credenza, cercando di tenerla su per non fare rumore, ci salii sopra e presi la scatola dei biscotti.
Nonna mi aspettava in corridoio. Quando tornai da lei, con le chiavi strette nel pugno, si voltò e andò alla porta.
- Dammele.
Continuavo a guardare la sua bocca che faceva quel rumore, lo sguardo cisposo di sonno, gli occhiali con le lenti un po’ unte e giallastre ai bordi, e non facevo niente. Mi sentivo in colpa. Me lo devi. Aveva ragione. Ma cosa le devo esattamente? Cosa vuole?
- Ma torni?
- No che non torno.
- E dove vai?
- Dammi.
Tese la mano.
Se stavolta apriva il gas senza accendere il forno uccideva pure noi. Invece voleva sparire solo lei. Era la prima volta che la vedevo volere qualcosa.
Le diedi le chiavi. Glielo devo.
Però…
- E mamma?
Nessuna risposta.
Girò la chiave nella toppa lentamente una, due volte.
La porta faceva rumore. Era una serratura vecchia, rigida. Mi stupì che avesse la forza per aprirla, con quelle mani che ormai accendevano solo sigarette.
Ora si svegliano!
E improvvisamente ero complice di mia nonna. Perché, improvvisamente, mi sembrava tutto chiaro. Non ha più una vita, la casa, le sue cose. Chi glielo fa fare a restare?
La vidi scendere la rampa di scale, in pantofole. Al buio. L’unica luce era il tasto arancione dell’interruttore.
Vivi, mi aveva detto la signora Marras.
Nonna scendeva, reggendosi al corrimano arrugginito. Era lenta ma anche sicura, inesorabile, andava, un gradino dopo l’altro, si infossava nella scala del quarto piano.
Quella notte mi addormentai all’alba. Feci incubi confusi in cui il fantasma di nonna voleva tornare a casa e non ci riusciva. Perché era morta lontano. Il fantasma della portiera era rimasto lì dove era morta la portiera.
Nel sogno nonna doveva attraversare la strada, ma c’era traffico. Era un fantasma, non poteva essere investito, ma non lo sapeva e così aspettava che le macchine smettessero per un attimo di passare. Quelle non smettevano.
C’era anche la signora Marras. Col cappello di paglia sulla faccia, prendeva il sole sul ponte di una di quelle grandi navi da crociera del Club Med. Portava un costume da bagno a fiori, e al collo una stola di pelliccia di nonna. Quella che finiva con la testina della volpe, la bocca aperta coi dentini aguzzi.
Mamma mi aveva detto che gli occhi della volpe erano di vetro.
Nel sogno sapevo che la volpe, pure lei, era un fantasma. A un certo punto si confondeva con nonna, diventava il suo fantasma.
Ma la signora Marras la portava al collo. Non aveva paura, rideva e beveva la sua limonata. Tanto la volpe ha gli occhi di vetro.
La mattina dopo, quando mamma e papà si accorsero che nonna non c’era, io dissi che non sapevo nulla, che stavo dormendo.
Si affacciarono dal balcone, fecero il giro del palazzo, del quartiere.
E poi tornarono e si sedettero sul divano. Sembravano stanchissimi. Mia madre soprattutto, aveva la faccia distrutta.
Ecco come sarà da vecchia.
E qui successe la cosa strana. Strana da non crederci.
Dissero:
- Che facciamo? Chiamiamo la polizia?
E capii che non l’avrebbero mai chiamata.
Mi piace pensare che non sia proprio morta davvero. Solo scomparsa. Cancellata dalle nostre vite.
É uscita senza soldi, senza vestiti, senza nemmeno le scarpe. Faceva freddo, e su viale Marconi c’è traffico anche di notte. Ma non l’hanno ritrovata.
Certo, c’è da dire che non l’hanno neppure cercata.
Non c’è stata nessuna denuncia alla polizia, né un appello con vecchie foto e ricostruzioni in quel programma televisivo che seguiva lei. Non c’è stato un funerale.
La cosa più probabile è che se la sia portata via il fiume. Nessuno l’ha cercata nel Tevere.
Non abbiamo ricevuto lettere, nemmeno una cartolina da un posto vicino o lontano del mondo.
Le ricevute della pensione per un po’ avevano continuato ad arrivare, ma nessuno era andato a ritirarle. Né mamma, né nonna, né il suo fantasma.
Mia nonna è stata inghiottita da quel niente in cui aveva scelto di avvolgersi come in una vecchia coperta. Come un gioco di prestigio a cui i grandi fecero finta di credere.
Ed io per parecchi anni non mi resi conto di quanto fosse strano il loro comportamento. E nemmeno il mio.
I Marras scomparvero come scompaiono i topi che si infilano nei muri, e giorno dopo giorno la loro assenza silenziosa smise di turbarci.
Poi ce ne andammo noi.
Vendemmo quella casa e ne comprammo una nuova, più bella.
Nel nuovo appartamento abbiamo le finestre che arrivano fino a terra, le ha fatte fare papà. E mia madre ha ricominciato a dipingere. Isabella Aguilar è nata a Roma nel 1979. Dopo un dottorato in filosofia teoretica, è diventata sceneggiatrice. Il primo film che ha scritto è "Dieci Inverni" di Valerio Mieli. Nel tempo libero lavora come traduttrice (Rizzoli), collabora con la rivista "Internazionale" e ogni sabato tiene una rubrica semiseria sul "Riformista". "Bambina infame" è il suo primo racconto.
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