ATTESA IN UN INTERNO Loredana Paris
noooo non è possibile secondo piano due rampe di scale assurdo perché cavolo mettono gli ambulatori al secondo piano e chi non può camminare roba da matti scalone di pietra palazzo antico senza ascensore ora come cavolo faccio pure questa prima la pioggia ora le scale meno male c’è il corrimano dai ce la fai forza ce la devi fare ce la devi fare
Salì a fatica la prima rampa, premendo sul corrimano quando poggiava a terra la gamba dolente e facendo un saltello per salire lo scalino. Arrivata al pianerottolo fece una sosta, la gamba gonfia appena poggiata sul tallone. Prese fiato e affrontò la seconda rampa. Le giunsero voci femminili da dietro la porta a vetri opachi, una dal forte accento toscano, tono scherzoso e quasi di burla, e un’altra più acuta, dal tono polemico. Spinse la porta a vetri e si trovò nella sala. Rimase a bocca aperta. C’erano almeno sei o sette persone sedute nelle sedie contro le pareti. Volsero tutte il capo verso di lei.
“C’è la dottoressa Paternò?” chiese alla donna seduta accanto alla porta.
“Dovrebbe essere qui a minuti” rispose una donna grossa dai capelli grigi seduta di fronte all’ingresso, accanto a un’altra porta. “Se mi dice il suo nome la metto in lista” aggiunse, e mostrò un quadernetto che aveva in mano. Era quella con l’accento toscano.
“Salani Sandra” rispose. “In che senso, lista? Pensavo che le visite cominciassero alle tre e mezza… e credevo di essere in anticipo”.
“Certo, ma chi arriva prima passa prima. C’è gente che sta qui da quasi due ore, sa? Lei è l’ottava, e dopo non prendo più nessuno se no qui si fa notte prima che si va via. Per quale motivo deve vedere la dottoressa?”.
“Penso di avere uno strappo muscolare al polpaccio sinistro. E ho bisogno di un certificato medico da consegnare in ufficio. Alle cinque devo essere a casa perché potrebbe arrivare il Medico Fiscale”.
“Per le cinque mi pare difficile. Ma intanto si sieda. Si metta lì, così può allungare la gamba”.
Sandra si sedette nel posto che la signora che svolgeva le funzioni di segretaria le aveva indicato e allungò la gamba sulla sedia accanto.
“È la prima volta che viene dalla dottoressa? Non l’ho mai vista.”
“Sì. Non sapevo che si dovesse venire così presto. Io devo assolutamente essere a casa per le cinque”.
“Vedremo vedremo, a volte la dottoressa si sbriga ma dipende da quel che c’è da fare, sa?”. E cominciò a elencare le varie indisposizioni delle pazienti in sala, che evidentemente conosceva molto bene, una sorta di clienti abituali. A poco a poco si riprese a parlare a gruppetti delle malattie di ognuno e degli ultimi sviluppi. Sandra ascoltò per un po’ e poi si mise ad armeggiare nella borsa per trovare il libro da leggere ed evitare così di essere costretta a prendere parte alla conversazione.
merda merda merda dovevo partire prima Vista Fiscale dalle cinque alle sette porti il certificato medico appena possibile ma con la gamba così come faccio a venire in ufficio mandi qualcuno non ho nessuno allora spedisca tutto non ho nessuno nessuno nessuno come sarebbe a dire non ha nessuno merda merda tutte ‘ste vecchie non han niente da fare vengono per chiacchierare e raccontare stronzate al dottore passano il tempo lo fanno perdere agli altri merda merda merda mai successo prima che figura di merda secondo mese di lavoro merda merda merda perché perché ora che faccio diluvia come torno a casa ci metto mezz’ora
Alzò lo sguardo alla finestra che aveva di fronte. Cielo fosco: grigio di cielo e grigio di vetri sporchi. Le si inumidirono gli occhi. Subito li abbassò sul libro.
“Non si preoccupi, signora. Vedrà che si fa presto. Lei non è di qui, vero?” le chiese una voce cheta alla sua destra. Una vecchietta dal viso incorniciato da boccoli bianchi, grandi occhialoni dalle lenti spesse, maglia e gonna blu, un giro di perle al collo.
“No, è da poco che abito qui”. Abbozzò un sorriso di cortesia e fece finta di rituffarsi nella lettura. Non aveva nessuna intenzione di raccontare la sua vita a un gruppo di vecchie pettegole e annoiate. Sì, perché erano tutte donne, e tutte vecchie. No, proprio tutte no. C’era anche una signora sulla trentina in tailleur a quadri e valigetta ventiquattrore, e una guancia decisamente gonfia. Per il resto non sembrava che ci fosse qualcuno di particolarmente malato. Non poté fare a meno di ascoltare brani della conversazione che il suo arrivo aveva interrotto. La pseudo-segretaria, e fu chiaro che si chiamava Giovanna, discuteva con un donnone dai capelli rossi e una bionda cotonata di quale fosse il miglior forno della città, mentre la vecchietta che si era rivolta a Sandra ascoltava con attenzione, annuendo ogni tanto, una vecchina minuta vestita di nero che le raccontava di come il figlio si fosse dovuto trasferire per lavoro e ora lo vedeva solo una volta al mese.
Si zittirono tutte allorché si aprì la porta a vetri. Ne sbucò una bionda signora sorridente con l’impermeabile rosso che salutò con un buongiorno squillante e si diresse decisa verso la porta accanto a cui era seduta Giovanna. Le rispose un coro di buongiorno e di come sta, e sospiri vari, come di sollievo e soddisfazione insieme. Giovanna si alzò immediatamente, aprì la porta verso cui si dirigeva la signora, sbarrò l’ingresso alla tipa dai capelli rossi che voleva dire qualcosa alla nuova venuta, e si richiuse la porta alle spalle. Il tutto avvenne così velocemente che Sandra non fece nemmeno in tempo ad alzarsi e a presentarsi a quella che, evidentemente, era la dottoressa.
“E adesso speriamo che la Giovanna non racconti le cose a modo suo, come fa sempre, se no stavolta mi incavolo!” disse in tono iroso la rossa. “La prima è lei e poi ci sono io, giusto?” disse rivolta alla signora con la ventiquattrore che annuì, con la mano sulla guancia. Si aprì la porta a vetri e comparve una giovane che teneva per mano un bimbo minuto sui sei-sette anni, occhi arrossati e lacrimoni lungo le guance, che appena vide tutte quelle persone nella sala le si aggrappò alla gonna e vi nascose il viso. La giovane si sedette senza dir nulla.
dio che schifo che schifo che schifo Italia da schifo in Germania precisi solo su appuntamento andarci solo se necessario tutto per telefono altra concezione del tempo tutti ‘sti vecchi non sanno cosa fare tempo da perdere vengono per fare salotto come ci arrivo alle cinque beccare la tipa dirglielo di nuovo che sfiga mai visto un dottore ora ‘sta storia merda merda merda colleghe incazzate capo sarcastica che palle come glielo porto il certificato la posta è lontana forse in taxi mandi qualcuno non ho nessuno nessuno non ho nessuno come sarebbe a dire non ha nessuno
Ricomparve Giovanna che chiamò: “Signora Novelli!”. La tipa con la ventiquattrore si alzò ed entrò nello studio. Giovanna si rimise a sedere al suo posto, poi vide la giovane col bambino e le si avvicinò per chiederle il nome. Quella le bisbigliò qualcosa indicando il bambino ma Giovanna rispose con il suo vocione: “E cara la mia signora. Questo non è possibile, sa? C’è un turno qui, e poi ognuno c’ha i suoi problemi. La signora deve essere a casa per la cinque, la Rita – e si volse alla vecchietta minuta – è stata male tutta la notte. Ci vuole pazienza, e vedrà che si passa tutti!”. Dopo un po’ uscì la signora con la ventiquattrore e subito, approfittando della porta aperta, la rossa si infilò nello studio della dottoressa, senza essere chiamata e senza che Giovanna avesse il tempo di dire nulla. “E c’ha sempre furia quella! Ha paura che la freghino! Che tipa! Ma poi non è mica malata, sa? Se le inventa tutte. E ci sta sempre un sacco… È che la dottoressa è brava e ascolta tutti!”. Non parlava a nessuno in particolare, Giovanna, ma guardava ora questa ora quella paziente, senza aspettare una risposta. E loro la guardavano e annuivano.
All’improvviso la porta a vetri si spalancò e piombò nella sala un uomo alto e magro, con la mano sinistra fasciata e tenuta in alto, che si diresse deciso verso la porta dello studio. “Ehi, signor Lucchese, ma che fa? Ma sono questi i modi? Non lo sa che deve aspettare il turno?” urlò Giovanna. Il vecchio la guardò come se fosse un fantasma e proseguì la sua avanzata verso la porta. “Devo vedere la dottoressa” disse. Giovanna gli si parò davanti. “Ma la dottoressa ora è impegnata. E poi è già venuto ieri. Cosa vuole ancora?”. L’uomo indicò la mano fasciata, biascicò dei monosillabi. “La dottoressa, devo vedere la dottoressa. Subito. Devo vedere la dottoressa” e provò a scansare Giovanna, che indietreggiò fino a piazzarsi davanti alla porta. “Devo vedere la dottoressa. Mi faccia passare!” urlò l’uomo. La vecchietta minuta si alzò e gli posò una mano sul braccio. “Venga, signor Lucchese, si sieda qui con me e aspettiamo insieme. È venuto suo figlio? L’ha chiamato?”. “Mio figlio ha da lavorà e non pò venì.” “E le medicine, le ha comprate? Le ha prese tutte?” chiese Giovanna.
dio che casino una gabbia di matti dove sono finita ma da dov’è spuntato questo tutti i giorni qui si conoscono tutti rottami viventi ecco cosa sono rottami viventi no no no io vecchia non ci divento me ne vado prima sbaglierò una curva e la finirò lì com’è bagnato ma che sta dicendo balbetta come insiste che testardo ma guarda s’è messo a piangere gli studenti e che c’entrano gli studenti caduto dalla bici tagliato la strada colpa degli studenti questo è proprio fuori dio dio che miseria tasca bucata che magro quante rughe poveretto fa proprio pena oddio come urla ma chi è che fa i turni tutte le vecchie attorno
A forza di fargli domande si riuscì a capire che il vecchietto era tornato dalla dottoressa non perché fosse sopraggiunto un problema particolare ma perché non capiva quali e quante medicine doveva prendere, e che al figlio non aveva nemmeno detto che si era fatto male, perché sapeva che quello doveva lavorare, faceva i turni, e non aveva tempo di occuparsi di lui e lui non voleva essere un impiccio. A più riprese tentò di dirigersi verso la porta ma Giovanna e le altre riuscirono a bloccarlo. Fu la vecchietta minuta a dire: “Facciamolo passare e basta” e Giovanna annuì. A questo punto la signora col bambino protestò e anche Sandra, che fino ad allora era rimasta a guardare con la gamba allungata sulla sedia, disse che non era giusto, che lei doveva essere a casa per le cinque, e poi si levarono altre voci e a un certo punto si aprì la porta dello studio e uscì la dottoressa. Giovanna le spiegò la situazione, la rossa enorme se ne andò senza salutare, la dottoressa prese il signor Lucchese per un braccio e in silenzio lo portò con sé nello studio. Tutte le donne tornarono alle loro sedie. Sandra, che non si era alzata, sospirò e si coprì gli occhi con una mano.
merda merda merda tutte a me devono capitare chissà quanto ci mette adesso branco di vecchi rincitrulliti fuori di testa uno più rimbambito dell’altro tutte a me tutte a me una gabbia di matti quando ci arrivo a casa adesso quello non mi trova cosa dico prima volta malata prima volta nuovo lavoro non ci arrivo non ci arrivo vecchi citrulli cose inutili si conoscono si fanno i favori tutti matti tutti fuori chi ha bisogno davvero deve aspettare merda merda merda come cavolo sono finita qui cosa ci faccio io qui come ne esco merda non piangere idiota non piangere come cavolo faccio adesso non piangere idiota non piangere
“Signora, se vuole può passare al mio posto. Dopo il signor Lucchese vengo io”. Era la vocina della vecchietta dai boccoli bianchi, di fianco a lei. Sandra sgranò gli occhi umidi su quegli occhiali enormi e si accorse che dietro lo sguardo era limpido e chiaro. “Io ho tanto tempo e posso aspettare. Prenda il mio posto, io prenderò il suo.”
Sandra la fissò senza riuscire a parlare. La vecchietta sorrise: “E poi, mi scusi se mi intrometto, ma perché non prova alla farmacia qui sotto a prendere in prestito delle stampelle? Vedrà che le saranno utili per tornare a casa”.
“Io… non so come ringraziarla”, farfugliò Sandra in un sussurro. “Vede, è la prima volta che mi ammalo e non sapevo nulla di questi turni e queste procedure burocratiche. È sicura?”
“Ma sì, io sono venuta solo per una ricetta. Mi serve un salvavita e devo venire ogni due settimane. Dopo un po’ qui ci si conosce tutti. Sa, il signore che abbiamo fatto entrare, poveretto, vive da solo, è proprio solo solo e non ha nessuno, l’hanno investito dei tipi in bicicletta e si è fatto molto male. Viene qui quasi tutti i giorni. Con i vecchi come noi bisogna avere pazienza, sa? Giovanna e la dottoressa lo aiutano e ogni tanto lo coccolano perché è proprio solo solo e non ha nessuno”.
Ripeteva quella frase come una cantilena, quasi fosse una carezza. In quel momento il bambino cominciò a piangere, tutti si voltarono a guardarlo e Sandra ne approfittò per asciugarsi gli occhi. Poi, quando la vecchietta dai boccoli bianchi volse di nuovo il capo verso di lei, le chiese dove abitava e venne a sapere che abitava lì vicino, da sola, la cugina stava al piano di sopra e oggi doveva ritirare la ricetta anche per lei perché non si sentiva bene. A questo punto si inserì la vecchietta minuta che volle sapere le nuove sulla cugina. Sandra le ascoltò per un po’, poi posò il libro nella borsa e si guardò attorno. Giovanna si era seduta accanto al bambino e gli raccontava una storia: a un certo punto, per mimare un albero dalla grande chioma, si alzò in piedi con le braccia sollevate e così le si aprì davanti il cardigan di lana spessa che teneva legato alla vita, scoprendo la camicia. Sandra si accorse allora che il suo petto era enorme solo dal lato destro; dall’altro lato era piatto. Il bimbo ascoltava rapito e ogni tanto scuoteva il capo coronato da riccioli biondi. La madre da ragazza doveva essere stata bellissima: i capelli raccolti sfuggivano all’elastico e gli occhi erano di un celeste profondo. Quando Giovanna ebbe finito la storia le spiegò in un italiano stentato che il bambino aveva mal di pancia già dalla mattina, ma lei l’aveva mandato a scuola lo stesso, se no come faceva ad andare a fare le pulizie, però da scuola l’avevano chiamata perché il bambino stava troppo male e lei aveva dovuto lasciare il lavoro a metà e ora non sapeva se la padrona si era arrabbiata. Contro la parete opposta erano sedute due vecchie che Sandra aveva a malapena notato: entrambe tenevano le mani incrociate sulla pancia e fissavano un punto imprecisato davanti a sé. Non avevano detto una parola, nemmeno quando Lucchese aveva alzato la voce. Una delle due calzava ai piedi gonfi delle specie di pantofole che con quella pioggia avrebbero di certo fatto una brutta fine.
Si aprì la porta dello studio e ricomparve Lucchese. Si diresse a capo chino verso l’ingresso e uscì senza salutare. La signora dai boccoli bianchi fece cenno a Sandra di entrare e disse : “Lo dico io a Giovanna”.
La visita fu veloce. Strappo muscolare, due settimane di malattia, la dottoressa conosceva bene gli strappi, da giovane andava a correre e ne aveva avuti ben tre. Succede con i muscoli a freddo. Sandra scoprì quello che avrebbe dovuto sapere, e cioè che il medico curante può redigere un certificato per il Medico Fiscale in cui si attesta che il paziente al momento della visita fiscale era in ambulatorio. Anche la dottoressa le consigliò le stampelle. Era una donna affabile, sorrideva sempre. Sandra si chiese come faceva, nel bel mezzo di un’umanità come quella in sala d’aspetto.
Prima di andarsene ringraziò la vecchia dai boccoli bianchi, che sorrise e le augurò buona guarigione. Salutò anche Giovanna, intenta a fare boccacce per far ridere il bambino: “Arrivederci, signora! E stia attenta a quella gamba! Si riposi”. Scese le scale appoggiandosi al corrimano e saltellando sulla gamba buona. L’altra ora le faceva male. Una volta in strada si appoggiò al portone di ingresso e fece dei respiri profondi. Vide Lucchese fermo davanti alla farmacia con una ricetta in mano. Notò la giacca sdrucita, leggera, inadatta alla stagione. Gli si avvicinò: “Le serve qualcosa, signor Lucchese?”. Il vecchio la squadrò con occhi lucidi e sospettosi. Poi si voltò e si incamminò sul marciapiede. Zoppicava.
Il ritorno a casa con le stampelle sotto la pioggia fitta le sembrò interminabile, avvolto in una cortina di irrealtà. La pioggia le entrò ovunque, giù per il collo, sotto la giacca, nelle scarpe, le scorreva sul viso mista alle lacrime. Non sapeva nemmeno lei perché piangeva. Non era solo il male alla gamba, o il marciapiede sconnesso, le macchine parcheggiate ovunque. Lacrime calde e salate si mischiavano alla pioggia fredda che le lavava il viso. A un tratto si fecero più copiose e le annebbiarono la vista. Della vecchietta dai boccoli bianchi non sapeva nemmeno il nome. Loredana Paris nasce mezzo secolo fa sulle rive di un lago del nord. Vive in diversi paesi, a nord e a sud, dall’Inghilterra alla Sicilia all’Olanda. Si sente a casa fra i libri, amici costanti, e crede nel potere della letteratura, che sola ha parole per dire ciò che altrimenti non potrebbe essere detto. Migrante e pellegrina, s’identifica con lo straniero e, a volte, con chi non ce la fa. Al momento vive a Pisa.
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