LA NONNA È STRANA Brano tratto dal romanzo Assenza Flavia Cristina Simonelli (…) Quella sera, Daniel guidava di ritorno verso casa quando avvistò il viale completamente bloccato. A quell’ora, un tale agglomerato di auto era normale, lì come altrove in città, e non sempre serviva a qualcosa cercare una strada alternativa. Pensava infatti di trasferire lo studio nel suo quartiere e muoversi a piedi, così, in un giorno dall’agenda piena come quello, avrebbe potuto fare una passeggiata, ossigenare i pensieri e non sentirsi l’ennesimo paulista che complica la vita della città. La testa gli pesava. Imboccò il viale che lo conduceva verso casa; dalla direzione opposta arrivavano i fanali accesi delle auto e gli offuscavano la vista. Voleva uscire da lì, trovare uno svincolo libero e scappare da quelle prime fitte di una probabile crisi di emicrania. Ma l’intervallo di tempo tra il dolore e la sopportazione del dolore era esiguo, sempre più breve, ed emergeva una crescente irritazione che lui non controllava. Ripercorse la propria giornata nel tentativo di trovare un rifugio interiore. Un giorno pieno di casi particolari. Uno dopo l’altro. Disturbo bipolare, disturbo del sonno, sindrome da panico, disturbo ossessivo-compulsivo e una probabile malattia di Alzheimer. Si ricordò della signora che era arrivata con una borsetta sotto il braccio e della storia di suo marito, il professore in pensione, forzatamente in pensione, pover’uomo. Il semaforo diventò verde e rosso due volte senza che Daniel potesse avanzare nemmeno di un metro. I minuti passavano, la testa pulsava sempre più forte, e le parole di quella signora, cariche di angoscia, pulsavano come la sua emicrania. Era molto probabile che il marito soffrisse di quella malattia che lui, Daniel, aveva conosciuto molto prima di diventare dottore. Malattia che lui aveva conosciuto attraverso il dolore, attraverso il rifiuto e l’accettazione dell’assenza, della perdita e della morte. Gli faceva male la schiena, cercò di sistemarsi meglio sul sedile dell’auto. Forse doveva procurarsi un piccolo cuscino per la zona lombare e accettare il fatto che gli anni passavano. Cominciò a ridere: non era poi così vecchio e già si infastidiva per i dolori, e non era questo l’esempio di vecchiaia che aveva avuto durante l’infanzia. Gli sovvenne l’immagine limpida della nonna. Era stata forte, sì, forte, di quelle donne che si occupano di tutto. Si era occupata di tutto, anche di lui, fino al giorno in cui la testa aveva cominciato a confondersi. Sorrise. Conservava il meglio della nonna: la signora attiva che non si lamentava di niente, di nessun fastidio, e aiutava invece il vicinato con le sue ricette caserecce a base di erbe. Ogni tanto qualcuno suonava al campanello solo per chiedere che cosa andava bene per curare la gastrite, la diarrea o il mal di reni. La signora Dione teneva tutto a mente, ma a volte andava a prendere il suo quadernino degli appunti, prima di dare la sua ricetta. Una signora rispettata, la cui opinione era tenuta in considerazione e della quale a Daniel piaceva essere nipote, il nipote della signora Dione, felice di avere una nonna che, quando era bambino, gli spalmava olio di lavanda sul petto prima di dormire, per sentire caldo al cuore, come diceva lei. Le auto davanti a lui avanzavano poco a poco e, se gli andava bene, ogni tanto poteva mettere la seconda. Si sistemò invano, la schiena gli dava fastidio e non trovava una posizione comoda su quel sedile così poco anatomico. Guardò attentamente la strada e tutto attorno a lui sembrava più fermo del solito. Aveva già superato il semaforo, ma, siccome raramente riusciva a cambiare marcia, guardò da una parte e dall’altra per vedere se c’era un vigile e, non vedendo nessuno, prese il cellulare. – Pronto, Milene? – Pronto.
– È tutto bloccato. Non aspettarmi per cena. – Che novità. I ragazzi stanno già mangiando. A che ora arrivi? – Non lo so. È proprio tutto bloccato. – Tutti i giorni è la stessa storia. Ceno da sola, o ceno tardi, per colpa tua. – Stavo visitando, ho avuto appuntamenti fino a sera. Non ho avuto modo di uscire prima. Ho l’emicrania. E anche mal di schiena… C’è olio di lavanda in casa, Milene? Attese una risposta.
– Pronto, Milene? Pronto? Guardò l’apparecchio muto e lo appoggiò sul cruscotto dell’auto. Provò ancora una volta a sistemarsi e rilassarsi, visto che non poteva andare da nessuna parte. La testa non si calmava. Aprì il vano portaoggetti nella speranza di trovare un analgesico. Tolse i cd e alcuni documenti dell’auto, in fondo c’era una penna, un panno, ma nessuna medicina. Forse Milene aveva preso i campioni che di solito lasciava lì, non ricordandosi delle crisi di emicrania del marito. Dopo quaranta minuti, superò alcuni isolati, arrivando all’altezza della Madonna del Brasile. Una delle chiese più belle della città apparve, allora, come un momento di respiro per quella vista stanca di vedere auto e autobus da tutte le parti. Le luci accese e il movimento dei parcheggiatori indicavano che doveva esserci un matrimonio. Nonna Dione aveva il sogno di vederlo sposarsi in chiesa e giurare fedeltà eterna alla sua amata. Molto religiosa, andava a messa tutte le domeniche. Fin da piccolissimo, quando era andato ad abitare a casa sua, Daniel la vedeva affrettarsi la mattina di Ognissanti. Usciva elegantemente vestita, ma calzava scarpe basse per poter camminare, perché diceva che sarebbe scesa una fermata prima dell’entrata del cimitero, dove c’era un fioraio più economico. Un giorno, nonna Dione si lamentò di un’altra cosa. – Oltretutto, oggi è il giorno della flemma dei vecchi. – Flemma dei vecchi, nonna? Che cos’è? – volle sapere Daniel, curioso. – Camminano stando quasi fermi, tesoro. Intralciano chi sta dietro. Daniel rise. Lei era anziana, ma camminava veloce, con i passi di chi non perde mai tempo. Daniel si ricordava di una volta che la nonna gli aveva detto che andava a portare i fiori al nonno Lorenzo, che era in cielo, e gli aveva chiesto di pregare per lui, perché la preghiera dei bambini non ha peccato. Daniel non capiva molto bene il motivo per cui lei portasse i fiori sulla tomba, se nonno Lorenzo era in cielo. E se non era in cielo, era là al cimitero. Allora, perché non poteva andarci anche lui a vederlo? Non ricevette mai risposta. Comunque, nella sua infanzia, Ognissanti era un giorno speciale. In quelle mattine ammirava la nonna, più elegante del solito, più serena, come se fosse legata a realtà invisibili, risvegliando in lui, ancora bambino, una grande venerazione. Usciva al mattino diretta al cimitero e tornava quasi all’ora di pranzo, con l’aria di chi è entrato in un vero e proprio tempio. Guardò il cellulare sul cruscotto. Lo afferrò con un gesto automatico per verificare se ci fosse qualche chiamata. Non ce n’erano. Il semaforo scattò e Daniel si concentrò sul presente, lasciandosi alle spalle la chiesa e i pensieri che riscattavano antiche emozioni. Se il traffico avesse continuato a fluire, presto sarebbe arrivato a casa e avrebbe dovuto affrontare quello che lo disturbava maggiormente. Daniel aveva la mania dell’ordine, e ciò creava problemi nel rapporto di coppia. Spesso si irritava per la noncuranza di Milene davanti alla confusione dei ragazzi, perché ricordava ancora con piacere la casa ordinata della nonna, pronta a ricevere una visita, senza l’intromissione di carte, corrispondenza o quaderni di scuola lasciati sul tavolo con la lezione ancora da finire; senza il piatto con gli avanzi di pane mollato sul divano, o la confezione vuota di succo con la cannuccia ancora bagnata. Sì, forse la cosa migliore per alleviare i tanti dolori che lo infastidivano era passeggiare nel parco vicino a casa. Con la mente occupata dalle vecchie immagini, Daniel non si rese nemmeno conto del tempo trascorso da quando aveva lasciato la Madonna del Brasile e si ritrovò vicino alla via dove abitava. Entrò nel garage e rimase alcuni minuti seduto sul sedile dell’auto, la testa appoggiata, mentre sentiva forti martellate che sembravano comprimerlo da dentro. Non aveva voglia di imbattersi con l’irritabilità di Milene, che l’avrebbe riempito di rimproveri. Inoltre, non avrebbe comunque cenato con i figli, perché l’emicrania gli toglieva la fame e, a quell’ora, Mateus e Felipe probabilmente si stavano già preparando per dormire. Invece di salire al quinto piano, dove abitava, Daniel si fermò al piano terra, salutò il portinaio e uscì in strada, sbattendo la porta di ferro della recinzione esterna dell’edificio. Camminò per due isolati a sinistra, poi attraversò verso l’altro marciapiede, da dove poté subito avvistare le fronde degli alberi in parte indistinte nel buio della notte, un po’ illuminate dai lampioni bianchi disposti lungo i vialetti del parco. Lì, Daniel aveva l’abitudine di camminare tutti i sabati mattina, tra cani tenuti al guinzaglio, bambini nei passeggini e persone che facevano jogging. Ma, in quella pace forzata della sera, si abbandonò a pensieri che lo tolsero dalla sua routine familiare. Cominciò a ripercorrere mentalmente le lamentele della signora con la borsetta sotto il braccio, angosciata per le dimenticanze e l’aggressività del marito. Gli aveva raccontato dettagli preoccupanti, che denunciavano che la malattia poteva trovarsi in un flusso continuo, senza ritorno. Attraversò il cancello del parco. Alcuni anziani ci passeggiavano durante il giorno, molti con le badanti. C’era qualcosa di sbagliato in tutto ciò. La diagnosi dell’Alzheimer era quasi sempre tardiva, perché invecchiare significava sempre perdere progressivamente le capacità fino alla demenza. No, non poteva essere così. Questa era solo una parte della storia, perché doveva esserci un vantaggio nella vecchiaia, altrimenti non ci sarebbero ragioni per continuare a esistere. Diagnosi tardiva, su questo sì che bisognava mettere in guardia. Un buon tema da trattare al prossimo congresso di medicina. Anche la malattia di nonna Dione era stata diagnosticata soltanto parecchi anni dopo i primi sintomi, confusi con “cose dell’età”. La memoria spesso perdeva colpi e lei diceva cose strane che facevano ridere il nipote, tanto che lei si irritava e si allontanava. La madre diceva a Daniel che la nonna stava invecchiando. Bisognava aver pazienza. Fu allora che a Natale, quando aveva otto anni, accadde qualcosa di molto strano. Era ancora primo pomeriggio e Daniel, seduto accanto al pino illuminato da lucette colorate che si accendevano e spegnevano ritmicamente, accarezzava il pelo bianco e ancora morbido del cuccioletto che aveva una macchia nera attorno all’occhio destro, che gli conferiva una caratteristica unica. «Senza razza definita», era così che diceva a tutti quelli che gli chiedevano di quel cagnolino così simpatico e insolito. L’espressione che aveva letto nel libretto delle vaccinazioni veniva ripetuta con un certo sollievo, perché gli permetteva di evitare il termine “bastardo”. Sotto l’albero, un solo pacchetto. Un osso sintetico ben incartato con il nome “Dapatinha” scritto con una calligrafia grande, rotonda e irregolare, che aveva comprato il giorno prima in un negozio di animali del quartiere. L’aveva messo subito lì, sicuro che a Babbo Natale non sarebbe dispiaciuto trovare un regalo estraneo all’alba. Mentre era impegnato a giocare con il cagnolino, si scocciò sentendo la madre che gridava dalla cucina di andare a chiamare la nonna, perché ormai era ora di cominciare i preparativi per la cena di Natale. Contrariato, lasciò Dapatinha e salì di corsa. – Nonna! Nonna! – disse a voce alta, mentre apriva la porta della camera. All’improvviso, tacque e fissò la nonna. Ancora in camicia da notte, arrotolava un nastrino rosso tra le dita. Alzò la testa, sembrava irritata. – Cosa succede, bambino? – La mamma ha detto che bisogna mettere il tacchino nel forno. – Tacchino? Oggi non è giorno di tacchino. – Sì invece, nonna! È Natale! – rispose ridendo. – Tu sei matto, bambino. Vuoi far diventare matta anche me! Che roba! – disse, ritornando a concentrarsi sul nastrino. Daniel notò che c’era qualcosa di diverso. Sua nonna aveva i capelli spettinati, ed era la prima volta che la vedeva senza il consueto chignon. Tornò in salotto e disse, stentando a controllare il riso: – La nonna è strana… La madre non gli prestò molta attenzione e si mise all’opera da sola. Alcune ore più tardi, la sorella di nonno Lorenzo arrivò sorridente. Unica persona della famiglia che era solita venire alla vigilia di Natale, la zia abbracciò la nipote, diede un regalo a Daniel e guardò intorno come se cercasse nonna Dione. A quel punto, Daniel udì quello che non voleva: sua madre, ancora una volta, lo mandava a chiamare la nonna. Non appena cominciò a salire di corsa le scale, Daniel sentì la nonna chiudere la porta di sopra. Comparve con gli occhi sgranati, mentre si sistemava i capelli con le mani, e scese, scalino dopo scalino, unendo i piedi a ogni passo, finché arrivò in salotto. – Ciao, Dione! È la prima volta che ti vedo con i capelli sciolti – disse la zia. Dopo i saluti, la madre avvisò che la cena era pronta. – Già? Ma non ho ancora preparato nulla! – esclamò la nonna. – Non sei voluta scendere. Ho pensato che volessi riposare. Nonna Dione aggrottò le sopracciglia e guardò fissamente la figlia. – Perché non mi avete chiamato? Avrei preparato io il tacchino. – Daniel è venuto a chiamarti, mamma. – No che non è venuto – e rivolgendosi a Daniel – perché non mi hai chiamato? Daniel rise.
– Sì che ti ho chiamato, nonna! – Vedo che è tutto pronto e il profumo è delizioso – si intromise la zia, mettendo fine a quella discussione. Durante la cena, Daniel osservò la nonna taciturna, mentre la zia e la madre discutevano di diverse questioni. Tuttavia, quando la zia elogiò il cibo, nonna Dione si irritò. – Manca un po’ di condimento in questo tacchino, e il riso è quasi in pappa – brontolò, come se stesse parlando con il piatto. Il bambino si accorse che la zia e la madre incrociarono lo sguardo, ma spostò subito l’attenzione verso il cagnolino che dormiva sul cuscino vicino alla televisione. Dopo la cena, le tre donne si sedettero sul divano mentre Daniel si dedicò a Dapatinha senza dare più importanza ai capelli spettinati della nonna, al fatto che si era dimenticata della data, al suo rifiuto di scendere per cucinare il tacchino e tante altre cose che la nonna era solita fare con tanta dedizione. Non aveva dato importanza a nulla di tutto ciò, e senza che nemmeno la madre se ne rendesse conto, la malattia entrava in scena a piccoli passi, quasi invisibili, cogliendo di sorpresa chi si trovasse sul suo cammino. Si sedette su una panchina. Un giorno anche lui sarebbe stato vecchio, se non fosse morto prima. La vecchiaia lo spaventava, aveva paura di perdere le conquiste che aveva fatto nella vita, di essere incapace, di dipendere dagli altri. Ma la storia poteva anche essere diversa. Come medico aveva osservato persone che, anche con l’avanzare dell’età, conquistavano una tranquillità mai sperimentata prima. Era come se spuntassero in loro nuovi organi percettivi, e quello che non poteva essere compreso a venti, trenta o quarant’anni, si presentava con un’obiettività sorprendente negli anni successivi, minimizzando tutte le angosce che erano sempre sembrate insopportabili. Doveva essere il lato buono della vecchiaia: quello che si acquisisce come compensazione per tante perdite successive. Guardò in su. Rimase deluso.
Le stelle sono una cosa rara in una grande città, e dovette rassegnarsi a un cielo uniforme, biancastro per le luci e l’inquinamento che lo coprivano. Più tardi sarebbe stato giorno, poi notte e giorno di nuovo, in un ciclo di tempo continuo che non si fermava mai. Si strofinò gli occhi con una delle mani e riguardò il cielo. Il tempo poteva portare saggezza agli uomini, ma quando una malattia degenerativa si insediava, diventava davvero un pericoloso nemico. Il tempo aveva allontanato la nonna sempre più, giorno dopo giorno, e fu in quel periodo che cominciò a temere il tempo, la vecchiaia e la morte. Dopo quel Natale, la nonna sembrava sempre più strana, diceva cose talora senza senso, ma ciò che più lo segnò fu la prima volta che si dimenticò di preparare il pranzo. Ora che era adulto capiva che lei stava già perdendo il senso del tempo, un sintomo della malattia dell’Alzheimer, che all’epoca si manifestava in atteggiamenti che lo rattristavano. Come se nonna Dione non volesse più prendersi cura di lui. Era la prima settimana di scuola, si ricordò Daniel. Era ancora bambino, con l’uniforme, ed era sceso dal pulmino con lo zainetto sulle spalle. Aveva attraversato il cancello, era salito fino alla porta d’ingresso e aveva bussato tre volte, come era solito fare. Aveva tanta fame, allora aveva bussato di nuovo. Comparve la nonna e lo guardò sorpresa. Daniel mollò lo zainetto in salotto e corse in cucina. Aveva davvero tanta fame. Ma non c’erano pentole sul fuoco, né confusione di posate, né profumo di cibo saporito. E sul tavolo della sala da pranzo, dove si sedevano per i pasti, la fruttiera occupava ancora il centro. Questi inconvenienti cominciarono a diventare più frequenti nella vita di Daniel, soprattutto quando tornava da scuola e la madre non era ancora a casa. Una volta rimase seduto sullo scalino dell’ingresso, lo zainetto accanto, la pancia che brontolava per la fame, per un periodo di tempo che non sapeva misurare, finché avvistò la nonna all’angolo, al fianco della signora Janete, vicina da molti anni. Nonna Dione tirava il carretto della spesa, che era solita portare colmo di frutta e verdura. Ma quando si avvicinò, Daniel poté rendersi conto che, quel giorno, tornava vuoto. Rattristato, Daniel capì che non poteva più contare sulla nonna. L’ora di pranzo era diventata una situazione incerta, senza più le sicurezze di una volta. La sicurezza di trovare la tavola apparecchiata, il cibo pronto, l’accoglienza calorosa. Si ritrovò in una solitudine indecifrabile e comprese tutto quello che la nonna aveva fatto per lui per tanti anni soltanto nel momento in cui cominciò a non fare quasi più nulla. (…) Brano tratto dal romanzo "Assenza", traduzione di Vanessa Castagna, Vittoria Iguazù editora, Siena, 2014. Flavia Cristina Simonelli è una scrittrice italo-brasiliana. Nata a São Paulo, ha studiato presso il Colégio Dante Alighieri, si è laureata presso la USP (Universidade de São Paulo) in Amministrazione e anni dopo in Lettere, in lingua francese e portoghese. Nel 2011 ha iniziato i suoi studi in Antroposofia e anni dopo ha concluso la formazione di Pedagogia Curativa e Terapia Sociale. Nel 2008 ha frequentato il corso di Formazione Biografica presso la Escola Livre de Estudos Biográficos, allo scopo di approfondire le sue conoscenze nello svolgimento della vita umana, basata sulle leggi biografiche, all’interno di una visione antroposofica. Il suo esordio nella narrativa risale al 2007 con il romanzo A Porta. Assenza è il suo terzo romanzo pubblicato in Brasile e il primo pubblicato in Italia dalla casa editrice Vittoria Iguazù. Oltre a dedicarsi alla scrittura, lavora come Counselor biografico.
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